Contro povertà e corruzione e per una nuova Costituzione
Rivolta popolare in Iraq
Coprifuoco, 250 morti, 11.000 feriti
I manifestanti cantano Bella Ciao

 
Con gli almeno 200 mila manifestanti nella capitale Baghdad e altri nelle regioni di Bassora, Dhi Qar, Najaf e Karbala, le più grandi degli utlimi anni, la rivolta popolare in Iraq è entrata lo scorso 1 novembre nel secondo mese di mobilitazione contro la politica del governo di Adel Abdul Mahdi. Una rivolta che ha al centro Piazza Tahrir a Baghdad dove i dimostranti hanno costruito con le tende un presidio permanente per organizzare la mobilitazione nata contro la povertà dilagante e la altrettanto dilagante corruzione nelle istituzioni borghesi costituite dai paesi imperialisti occupanti una volta abbattuta la dittatura di Saddam Hussein nel 2003.
Una rivolta affrontata dal governo col coprifuoco e una dura repressione, che secondo le sole stime ufficiali ha causato 250 morti e 11 mila feriti, attuata da polizia e forze paramilitari filogovernative. Dal bastone alla carota, il presidente iracheno Barham Saleh aveva offerto la testa del premier e nuove elezioni dopo una riforma elettorale; la proposta era respinta dai manifestanti che hanno alzato il tiro e chiedono non un semplice cambio alla guida del paese ma una nuova Costituzione. Una costituzione non costruita come l'attuale, scritta dalle potenze imperialiste occupanti sul modello di quella libanese che definisce col bilancino la spartizione delle cariche istituzionali tra gruppi etnici e religiosi e serve sostanzialmente agli interessi della ristretta e sempre più ricca borghesia nazionale. Che tra l'altro si barcamena tra le opposte pressioni dell'imperialismo americano, che tiene i suoi marines in diverse basi nel paese; del vicino imperialista locale iraniano che ha armato formazioni di milizie per combattere lo Stato islamico e dell'altrettanto scomodo vicino imperialista locale turco che sempre per combattere lo Stato islamico è entrato in zone del nord del paese, con la complicità della regione autonoma dei curdi iracheni, amici di Washington e di Ankara. Senza dimenticare gli imperialisti sionisti di Tel Aviv che come in Siria usano i droni per colpire basi da loro ritenute in mano alle milizie filoiraniane. La guerra che Trump minaccia di scatenare contro l'Iran è iniziata da tempo da parte dei sionisti e al momento si gioca in Siria, Libano e Iraq.
Sono più di uno i governi stranieri ammoniti a non sfruttare a proprio favore le proteste dalla più alta autorità sciita del paese, l’Ayatollah al-Sistani, che anzitutto aveva condannato la brutalità della repressione governativa. Una repressione che intenderebbe liquidare una protesta che non è la prima volta che si fa sentire nelle piazze del paese e contro la Zona verde di Baghdad, il quartier generale super protetto dell'occupazione militare imperialista divenuto la residenza lussuosa della nuova classe dirigente irachena.
Secondo una recente indagine sulla situazione del paese del famigerato Fondo Monetario Internazionale risulterebbe che nonostante l’Iraq sia il secondo potenziale produttore mondiale di petrolio e abbia la quarta più grande riserva petrolifera è costretto a importare quasi il 40% dell’energia che consuma a partire da elettricità e gas dall’Iran. Il paese galleggia sul petrolio ma dalle distruzioni delle guerra del 2003 ha investito in maniera insufficiente sulle strutture produttive e non ha ancora ricostruito una rete di distribuzione di energia e acqua; eppure sarebbero almeno 40 i miliardi di dollari spesi per rimettere in piedi il sistema energetico ma che attraverso contratti fantasma firmati dalle istituzioni irachene e mai eseguiti sono stati divorati dalla corruzione. Una corruzione che è parte costituente delle istituzioni borghesi che pone l'Iraq ai vertici della lista Paesi più corrotti al mondo e che dal 2003 si è mangiata 450 miliardi di dollari di fondi pubblici, quattro volte il bilancio dello Stato e più del doppio del pil. A fronte dei circa 40 milioni di iracheni costretti a vivere per la maggior parte in povertà, senza o scarse assistenza sanitaria, istruzione e altri servizi e una disoccupazione soprattutto giovanile galoppante.
Una condizione denunciata dai sindacati degli insegnanti che ai primi di ottobre proclamava uno sciopero generale di quattro giorni e quello degli avvocati che invitava alla disobbedienza civile, che erano seguiti dagli studenti che occupavano sedi universitarie nelle province del Centro-Sud e davano vita a partecipate manifestazioni di piazza e a pesanti scontri con la polizia che facevano registrare le prime decine di morti e centinaia di arresti.
La prima ondata di protesta iniziava l'1 ottobre con le manifestazioni a Baghdad, in piazza Tahrir, e in altre città del Sud del Paese, da Najaf a Bassora, a Nasiriyah e Al-Diwaniyah. Seguita dopo due settimane dalle manifestazioni che riprendevano il 25 ottobre con maggiore intensità fino a diventare rivolta contro il governo con la richiesta esplicita di dimissioni di Adel Abdul Mahdi e della scrittura di una nuova costituzione al posto di quella costituita sui blocchi etnico-religiosi e che prevede un capo di Stato curdo (con i curdi che sono tra il 15% e il 20% della popolazione), un premier sciita (il 60% degli iracheni) e un capo del parlamento sunnita (tra il 15% e il 20% della popolazione) e una spartizione del bilancio statale, diventata una sparizione di soldi che ha lasciato la popolazione senza servizi e assistenza.
Una situazione gestita in questo modo dai primi governi fantoccio messi in piedi dall'imperialismo americano a Baghdad e proseguita dai successivi, fino all'ultimo scaturito dalla elezioni del 12 maggio 2018. Il 56% degli elettori iracheni aveva disertato le urne e i restanti voti validi erano spartiti tra la coalizione Sairoun, “In cammino insieme”, formata dal movimento del religioso sciita Moqtada al-Sadr e dal Partito Comunista iracheno, dalla coalizione Fatah, “Conquista” guidata da Hadi al-Amiri, che riuniva le organizzazioni e le milizie sciite legate all’Iran e dalla coalizione Nasr, “Vittoria”, del premier uscente Haider al-Abadi. L'applicazione del sistema di spartizione delle cariche istituzionali si rivelava più complessa del solito e solo a cinque mesi di distanza, il 3 ottobre, il parlamento eleggeva come nuovo presidente il curdo Barham Salih del partito dell’Unione patriottica del Kurdistan (Puk) che a sua volta nominava come premier Adel Abdul Mahdi, un economista che nel suo lungo esilio in Francia, iniziato negli anni '70, era passato da membro di vertice del Partito Comunista Iracheno a convinto islamista filoiraniano fino a cambiare ancora e occupare cariche ministeriali a Baghdad nel 2004 e nel 2016 e il ruolo di uno dei Vice Presidenti tra il 2005 e il 2011.
Il suo governo si è confermato come i precedenti e già nel luglio 2019 partiva una ondata di manifestazioni scatenate dalle continue interruzioni dell'energia elettrica. Abdul-Mahdi annunciava un nuovo programma di riforme e prometteva la sostituzione di alcuni ministri, tra i quali quelli di Interni, Difesa e Petrolio. Non cambiava nulla e le proteste ripartivano a ottobre con le manifestazioni per il lavoro di laureati davanti gli uffici del primo ministro a Baghdad e respinti dai cannoni ad acqua della polizia.
Registriamo che in alcune manifestazioni a Baghdad i dimostranti hanno cantato Bella ciao, la canzone popolare simbolo della lotta partigiana in Italia, che recentemente è risuonata in tante lotte da Hong Kong al Cile, dal Libano a Barcellona, fino all'Iraq. La canzone è stata maggiormente diffusa a livello internazionale quando è divenuta la colonna sonora delle battaglie in difesa del clima iniziate coi Fridays For Future nel marzo scorso. Il video diffuso sulla rete, che propagandava le iniziative programmate per il 15 marzo, era stato realizzato nel settembre del 2012 in Belgio in occasione dell’evento Sing for the climate, una delle prime manifestazioni di massa contro i cambiamenti climatici a cui parteciparono quasi 400 mila manifestanti. La clip di Do It Now, “Fallo ora”, mostra un coro di manifestanti che sulle note di Bella ciao canta: “dobbiamo svegliarci, dobbiamo aprire gli occhi, dobbiamo farlo ora. Dobbiamo costruire un futuro migliore, e dobbiamo iniziare ora”. La canzone è diventata l'inno per l'ambiente e Bella ciao ha conosciuto una popolarità che l'ha rilanciata come inno di lotta nelle diverse manifestazioni dopo che in Italia, e non solo, era sempre cantata nelle piazza come simbolo di contrasto al rinascente nazi-fascismo.
 

6 novembre 2019