Vertice a Washington della Coalizione globale contro lo Stato islamico
“Uniti nella lotta all'Isis”
Usa e Ue litigano sulla gestione dei foreing fighters. Di Maio annuncia che il prossimo vertice anti Isis si svogerà in Italia nel 2020

 
Il secondo incontro del 2019 dei ministri degli Esteri della Coalizione Globale per Sconfiggere l’ISIS che si è tenuto il 14 novembre presso il Dipartimento di Stato americano a Washington ha fatto registrare la sostanziale unità dei paesi aderenti alla coalizione imperialista guidata dagli Usa nel riaggiustare la loro strategia dopo gli sviluppi nella Siria del nord-est, dall'uccisione del leader dello Stato islamico Abu Bakr al-Baghdadi al ritiro dei marines dalla Rojava e la rottura dell'alleanza con le principali organizzazioni dei curdi siriani abbandonate di fronte all'invasione turca. La riunione che si è tenuta in forma ristretta, lo Small group formato da circa le metà dei paesi aderenti, era stata richiesta dalla Francia che nella attuale situazione in Siria era preoccupata anzitutto di come tenere sotto controllo i foreing fighters, le migliaia di combattenti stranieri dell'IS catturati dalle forze curde che dall'11 novembre le autorità turche hanno iniziato a rimandare nei loro Paesi di origine.
Della Coalizione globale costituita dgli Usa nel settembre 2014 fanno parte 76 Stati oltre a rappresentanti di Nato, Unione Europea, Lega Araba, Comunità degli Stati del Sahel/Sahara e Interpol. Per la riunione del 14 novembre era stato convocato il gruppo ristretto, formato dai rappresentanti di 31 paesi; i presenti alla riunione di Washington sono stati: Australia, Baharein, Belgio, Canada, Danimarca, Egitto, Finlandia, Francia, Germania, Iraq, Italia, Giordania, Kuwait, Libia, Marocco, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Qatar, Arabia Saudita, Spagna, Svezia, Tunisia, Turchia, Emirati Arabi, Regno Unito, Stati Uniti. Del gruppo allargato fanno parte anche Afghanistan, Albania, Austria, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Camerun, Ciad, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Congo, Gibuti, Estonia, Etiopia, Fiji, Georgia, Grecia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Giappone, Kenya, Kosovo, Lettonia, Libano, Lituania, Lussemburgo, Malesia, Moldavia, Montenegro, Niger, Nigeria, Oman, Panama, Filippine, Portogallo, Guinea, Macedonia, Romania, Serbia, Singapore, Slovacchia, Slovenia, Somalia, Corea del Sud, Taiwan, Ucraina e Yemen.
Il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che ha presieduto la riunione dei 31 ministri degli Esteri dei paesi presenti si autoelogiava per il “successo” dell'eliminazione di al Baghdadi, ribadiva più volte il ruolo di guida degli Usa nella coalizione che ha “liberato l'Iraq e la Siria nord-orientale dalla morsa di Daesh/ISIS”, una alleanza che “è stata una delle imprese multilaterali di maggior successo del secolo” perché “abbiamo respinto un sogno jihadista, un aspirante stato terroristico nel centro del Medio Oriente”. Ma non ci dobbiamo fermare, avvertiva Pompeo, “dobbiamo assicurarci che l'ISIS non risorga mai più” e contrastare “la minaccia dell'ISIS al di fuori dell'Iraq e della Siria”, in particolare nell'Africa occidentale e nel Sahel dove “i governi regionali e i partner internazionali” non sarebbero adeguati nell'affrontare tale “minaccia”.
Intanto però, sollecitava Pompeo, i membri della coalizione devono “riprendere in custodia le migliaia di combattenti terroristi stranieri” e processarli. E su questo non trovava la piena adesione dei paesi europei membri della coalizione, a cominciare da Francia, Germania e Gran Bretagna che sono il luogo di origine di una buona parte dei combattenti stranieri detenuti nelle carceri dei curdi che sotto il fuoco dell'invasione turca minacciano di liberare. I paesi europei pensavano di lasciare i
foreing fighters dove sono e di costituire un tribunale internazionale apposito per giudicarli. Tempi troppo lunghi per l'amministrazione Trump che vuole disimpegnarsi dalla Siria, lasciare il compito di combattere l'IS nella zona al fascista Erdogan e dedicare altrove le sue attenzioni.
Le dichiarazioni di Pompeo costituiranno la traccia del comunicato finale della riunione che si concluderà “accogliendo con favore l'offerta dell'Italia di ospitare nel 2020 il prossimo incontro dei ministri della coalizione globale per sconfiggere l'ISIS”. Una riunione non ristretta ma in forma plenaria era stata la richiesta messa sul tavolo dal ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio, passato con una delle consuete giravolte opportunistiche dal “no a un intervento italiano in Iraq” a sostenere che “l'Italia non indietreggia e mai indietreggerà di un centimetro di fronte alla minaccia terroristica”, nel breve tragitto dall'opposizione alle poltrone governative. Il Ministro appariva soddisfatto tra i compari imperialisti al centro della foto ufficiale della riunione, seppur in seconda fila, come del risultato ottenuto alla sua prima partecipazione alla riunione della coalizione imperialista. La richiesta di Di Maio non poteva cadere nel vuoto dato che l'imperialismo italiano è uno dei massimi contribuenti della Coalizione, col suo impegno in Iraq, e col compito di codirezione del Gruppo finanziario di contrasto all’Isis insieme ad Arabia Saudita e Stati uniti.
La coalizione si compattava dietro la guida degli Usa perché, come avvertiva il comunicato finale se “in cinque anni di impegno militare e civile, la coalizione globale per sconfiggere l'ISIS, con i suoi partner, ha liberato l'Iraq e la Siria nord-orientale dalla morsa di Daesh/ISIS”, il lavoro non è finito, anzi “il ferimento dei soldati italiani da un attacco IED in Iraq” dimostra che “i risultati raggiunti e la sconfitta definitiva di Daesh/ISIS sono minacciati. La coalizione deve quindi mantenere l'unità di intenti e la coesione in Siria e Iraq”.
A dire il vero, la coalizione imperialista nella guerra allo Stato islamico ha usato soprattutto le forze aeree, seppellendo sotto le bombe le città e la popolazione civile, e ha affidato il compito sul terreno alle milizie filoiraniane in Iraq, col governo di Baghdad non ancora in grado di riorganizzare l'esercito se non in funzione repressiva delle proteste popolari, e alle forze curde in Siria una volta che la corsa verso Ovest delle forze dello Stato islamico si era esaurita anche per l'intervento massiccio dell'imperialismo russo a difesa del regime oramai in coma di Assad. Secondo l'ultimo commento dell'agente di Putin Manlio Dinucci su il manifesto trotzkista del 19 novembre solo l'intervento della Russia, come rivendicato più volte dal nuovo zar del Cremlino Vladimir Putin, avrebbe portato alla sconfitta dello Stato islamico e delle altre “formazioni terroristiche” perché queste sarebbero tutte finanziate da Turchia, Arabia Saudita, Qatar e Usa per far saltare il regime di Damasco. “È evidente che le forze della Coalizione avevano lasciato volutamente mano libera a Daesh/Isis. Questa e altre formazioni terroristiche sono state sconfitte solo quando la Russia è intervenuta militarmente a sostegno delle forze governative siriane”, è il ritornello di Dinucci, dei trotzkisti e dei falsi comunisti. I fatti però li smentiscono. Tra l'altro è noto a tutti che lo Stato islamico ha combattuto contro il governo filoamericano dell'Iraq.

20 novembre 2019