Stefano Cucchi fu ucciso
Condannati a 12 anni i due carabinieri che lo pestarono a morte
La sorella Ilaria: “Ora Stefano può riposare in pace”. Tutti assolti i medici del Pertini che “curarono” Stefano
La famiglia Cucchi querela Salvini per aver detto che Stefano è morto a causa della droga e non per il violento pestaggio subito in caserma

Dopo dieci anni di menzogne, depistaggi, calunnie e falsificazioni che hanno coinvolto anche i massimi vertici di tutta la catena di comando dei carabinieri, il 14 novembre la Corte d'assise di Roma ha finalmente riconosciuto quello che tutti sapevano fin dall’inizio, e cioè che il giovane geometra romano, Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre del 2009 a Roma e deceduto il 22 ottobre nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, non è morto di morte naturale ma in seguito al violento pestaggio subito dopo il suo arresto.
A ucciderlo sono stati Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo, i due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e condannati ciascuno a 12 anni di carcere a fronte dei 18 chiesti dal Pubblico ministero (Pm) Giovanni Musarò.
I giudici hanno invece assolto da questa accusa l’imputato diventato teste dell’accusa, Francesco Tedesco, il carabiniere che nel 2018 decise di parlare e di raccontare quanto aveva visto nella caserma Casilina, dove avvenne il violento pestaggio. A lui sono stati inflitti due anni e sei mesi per falso.
Per Tedesco la richiesta di pena del Pm era di tre anni e sei mesi per aver falsificato il verbale di arresto insieme al maresciallo Roberto Mandolini, comandante della Stazione Appia dove fu portato Stefano per il fotosegnalamento, condannato a 3 anni e 8 mesi sempre per falso.
Per Mandolini il Pm aveva chiesto otto anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Assolto invece il quinto imputato, Vincenzo Nicolardi, sottoposto di Mandolini, inizialmente accusato di calunnia poi riqualificata in falsa testimonianza nei confronti dei tre agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso del primo processo insieme ai medici e infermieri del Pertini mandati assolti nel 2016.
I giudici hanno anche disposto il pagamento di una provvisionale di 100mila euro ciascuno ai genitori di Cucchi e alla sorella Ilaria mentre i carabinieri Di Bernardo, D’Alessandro, Mandolini e Tedesco, a vario titolo, dovranno risarcire, in separata sede, le parti civili Roma Capitale, Cittadinanzattiva e i tre agenti della polizia penitenziaria che vennero accusati della morte di Stefano nel corso del primo processo.
Di Bernardo e D’Alessandro sono stati inoltre interdetti in perpetuo dai pubblici uffici, mentre una interdizione di cinque anni è stata disposta per Mandolini.
“Stefano è stato ucciso, questo lo sapevamo e lo ripetiamo da 10 anni. Forse ora potrà risposare in pace – ha commentato Ilaria Cucchi in aula subito dopo la lettura del verdetto – Oggi ho mantenuto la promessa fatta a Stefano dieci anni fa quando l’ho visto morto sul tavolo dell’obitorio. A mio fratello dissi: ‘Stefano ti giuro che non finisce qua’. Abbiamo affrontato tanti momenti difficili, siamo caduti e ci siamo rialzati, ma oggi giustizia è stata fatta e Stefano, forse, potrà riposare in pace. Ci sono voluti 10 anni e chi è stato al nostro fianco ogni giorno sa benissimo quanta strada abbiamo dovuto fare. Ringrazio tutti coloro che non ci hanno abbandonato e ci hanno creduto, assieme a noi”.
Fabio Anselmo, l'avvocato della famiglia Cucchi che fin dall'inizio ha seguito con grande determinazione tutta la vicenda giudiziaria ha aggiunto che: “Stefano è morto per colpa di quelli che lo hanno pestato, stava bene prima di essere arrestato ed è stato restituito cadavere. Siamo particolarmente commossi perché era una verità evidente. Sono passati dieci anni di vita che abbiamo perso tutti“.
L’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi era stata chiusa il 17 gennaio. Il 10 luglio 2017 il Giudice per l'udienza preliminare (Gup) del Tribunale di Roma aveva disposto il rinvio a giudizio dei cinque carabinieri imputati. Il processo è cominciato il 13 ottobre dell’anno scorso davanti alla Terza Corte d’Assise. Cucchi, secondo la ricostruzione della procura, fu colpito a “schiaffi, pugni e calci“. Le botte, per l’accusa, provocarono “una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale”, provocando sul giovane “lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni e in parte con esiti permanenti, ma che nel caso in specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte”.
Una verità processuale che l'aspirante duce d'Italia Salvini continua provocatoriamente a negare sentenziando che Cucchi è morto a causa della droga e non per le violente percosse subite in caserma. Durante il recente raduno a Bologna il caporione fascio-leghista ha sprezzantemente commentato la condanna dei carabinieri affermando fra l'altro: “Se qualcuno ha sbagliato pagherà. La droga fa male, sempre e comunque e io la combatto”. Provocazione che la famiglia Cucchi ha subito rispedito al mittente con tanto di querela per ribadire ancora una volta che “Stefano non è morto di droga”.
Quasi in contemporanea è arrivata anche la sentenza dei giudici della Corte d’Assiste d’Appello di Roma che vedeva sul banco degli imputati con l'accusa di abbandono di incapace i medici del Pertini che “curarono” Stefano. La Corte ha deciso l’assoluzione per il medico Stefania Corbi, “per non aver commesso il fatto”. Mentre le accuse sono prescritte per il primario del reparto di medicina protetta dell’ospedale, Aldo Fierro, e altri tre medici, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo.
Il processo ai medici del Pertini era iniziato nel 2013 e in primo grado furono tutti condannati per il reato di omicidio colposo e successivamente assolti in appello. Ma l’iter processuale ricomincia con un primo intervento della Cassazione che rimandò indietro il processo. I giudici della Corte d’Appello, dunque, confermarono l’assoluzione, impugnata poi dalla Procura generale. La Cassazione rinviò nuovamente disponendo una nuova attività dibattimentale conclusasi appunto il 14 novembre con un’assoluzione e quattro prescrizioni.
Il 31enne geometra romano venne arrestato il 15 ottobre del 2009 a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Quella notte, i carabinieri lo accompagnarono a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportarono in caserma con loro e lo rinchiusero in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, Stefano aveva difficoltà a camminare e parlare e mostrava evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalidò l’arresto, fissando una nuova udienza.
Cucchi venne rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, ma le sue condizioni di salute peggiorarono rapidamente e, il 17, venne trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Chiaro il referto: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. I medici chiesero il ricovero che Stefano rifiutò insistentemente, tanto da essere rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini dove Stefano morì alle 6,45 del 22 ottobre 2009 dopo una via crucis giudiziaria e sanitaria durata quasi una settimana. Solo a questo punto, dopo vani tentativi, i suoi familiari riuscirono a ottenere l’autorizzazione per vederlo: il corpo pesava meno di 40 chili e presentava evidenti segni di percosse.
Nonostante i dieci anni trascorsi si tratta comunque di una sentenza che finalmente getta uno squarcio di luce sulla vergognosa omertà e l'odioso spirito di corpo di stampo fascista che da sempre caratterizzato queste vicende garantendo impunità, avanzamenti di carriera e protezione ai massimi livelli ai protagonisti. A cominciare dall'attuale comandante generale dei carabinieri Giovanni Nistri che ora esprime “dolore e vicinanza” alla famiglia Cucchi, ma che appena un anno fa, durante l'incontro avuto il 16 ottobre 2018 con Ilaria Cucchi presso il ministero della Difesa insieme all'allora ministra Elisabetta Trenta, sembrava più interessata a punire non i responsabili della morte di Stefano ma i tre carabinieri (Francesco Tedesco, Riccardo Casamassima e la moglie, Maria Rosati) che con le loro dichiarazioni, sia pure tardive, hanno permesso la riapertura del processo.
"Mi sarei aspettata non dico delle scuse, perché avrebbe potuto essere per lui troppo imbarazzante, ma certo non 45 minuti di sproloquio contro Casamassima, Rosati e Tedesco, gli unici tre pubblici ufficiali che hanno deciso di rompere il muro di omertà nel mio processo" dichiarò infatti all’Associazione Stampa Estera Ilaria Cucchi 24 ore dopo l'incontro.
“In un processo dove stanno emergendo gravissime responsabilità – aggiunse ancora Ilaria Cucchi - siamo sicuri che vi sia proprio adesso una insopprimibile esigenza di punire proprio coloro che hanno parlato? Questo processo io e la mia famiglia lo abbiamo fortissimamente voluto e ora il generale vuole colpire tutti coloro che hanno parlato... L'unica cosa che Nistri si è sentito di dirmi è che gli unici testimoni che hanno avuto il coraggio di rompere l'omertà verranno puniti con procedimenti disciplinari di Stato e non ci ha detto nemmeno il perché”.
Al di là della sentenza processuale, la verità vera è che nell'omicidio di Cucchi è coinvolta tutta la catena di comando dei carabinieri a cominciare dal generale di brigata, Vittorio Tomasone, all'epoca comandante provinciale di Roma e oggi promosso a generale di corpo d'armata e comandante interregionale a Napoli. Tomasone gestì le indagine interne, convocò tra gli altri il maresciallo Mandolini avallando di fatto le sue falsità; il colonnello Alessandro Casarsa, all'epoca comandante del gruppo Roma, oggi promosso a generale di brigata e comandante dei corazzieri del Quirinale, il quale nega di aver svolto qualsiasi ruolo negli accertamenti sulla morte di Cucchi; il maggiore Paolo Unari, all'epoca comandante della compagnia Casilina e della caserma Appia dove fu picchiato Cucchi, e oggi tenente colonnello distaccato al ministero degli Esteri, il quale escluse anomalie dopo l'indagine interna e dichiarò “Le camere di sicurezza non sono hotel a cinque stelle”; Luciano Soligo, all'epoca maggiore e comandante della compagnia Montesascro da cui dipende la caserma di Tor Sapienza (dove Stefano dopo il pestaggio fu trasferito per trascorrere la notte in attesa del processo per direttissima), oggi promosso a tenente colonnello, prese parte alla indagine interna; Emilio Buccieri, maresciallo, all’epoca dei fatti vicecomandante della stazione Appia, oggi comandante della medesima stazione, i cui uomini arrestarono Cucchi, anche se in quei giorni non era in servizio; Roberto Mandolini, all'epoca maresciallo e comandante della caserma Appia, oggi maresciallo capo, il quale sapeva della falsa relazione sul pestaggio poi fatta sparire; Massimiliano Colombo, maresciallo, comandante della caserma di Tor Sapienza, indagato per falso per aver attestato “le buone condizioni di salute di Cucchi”; e infine i carabinieri Vincenzo Nicolardi, accusato di calunnia contro la polizia penitenziaria, Francesco Di Sano imputato di falso per aver modificato il verbale sulle condizioni di Cucchi “in seguito a un ordine gerarchico”, come lui stesso ha ammesso, e infine i carabinieri Di Bernardo D'Alessandro condannati a 12 anni per omicidio preterintenzionale.
Perciò se davvero il comandante Nistri è in buona fede si dia da fare per mandare sul banco degli imputati anche i responsabili dei tanti morti come di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva , Aldo Bianzino, Niki Aprile Gatti, Stefano Brunetti, Serena Mollicone, Riccardo Rasman, Marcello Lonzi, Michele Ferrulli, Riccardo Magherini, Carmelo Castro, Simone La Penna, Cristian de Cupis, Manuel Eliantonio.
 

27 novembre 2019