Nel tentativo di affermare l'egemonia dell'imperialismo americano nel Medio Oriente
Atto di guerra di Trump. Ucciso il generale iraniano Soleimani
Teheran risponde lanciando missili a basi Usa in Iraq. Salvini appoggia l'aggressore della Casa Bianca. Di Maio: “La priorità è la lotta all'ISIS”
L'Italia condanni il raid Usa, ritiri le truppe dal Medio Oriente, chiuda le basi Usa e Nato, si ritiri dalla guerra allo Stato islamico

 
L'assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani, capo delle forze speciali Quds dei Guardiani della Rivoluzione Islamica del 3 gennaio presso l’aeroporto internazionale di Baghdad, in Iraq, non è soltanto l'inaccettabile e grave applicazione di una sentenza decisa dal banditesco tribunale presieduto dal presidente americano seduto sul divano della sua casa privata a Palm Beach, in Florida, contro “il terrorista numero uno in tutto il mondo”. Assieme al generale iraniano, sotto i colpi dei missili Usa cadevano anche il numero due delle Forze di mobilitazione Popolare irachene (Hashd al-Shaabi), Abu Mahdi Al-Muhandis, e altri militanti iracheni. L'omicidio di un rappresentante di un governo di uno Stato sovrano, in missione in un altro Stato sovrano rappresenta una flagrante violazione del diritto internazionale, ignorata di fatto dalla complice Onu, ma è anzitutto un atto di guerra scatenato da Donald Trump nel tentativo di affermare l'egemonia dell'imperialismo americano in Medio Oriente. Regione dove si vede sempre più soppiantato dalla coalizione rivale guidata dall'imperialismo russo, comprendente Turchia e Iran, nata per definire la spartizione della Siria e al momento lanciata con Mosca e Ankara alla conquista della Libia. Non a caso il 7 gennaio il presidente russo Vladimir Putin era in visita a Damasco a magnificare il quasi ritorno alla normalità nel paese, che non è reale ma tanto gli serviva per avvisare Trump che si doveva fermare dopo il colpo ai suoi alleati di Teheran e non far saltare i precari equilibri costruiti e gestiti da Mosca nella regione financo con gli alleati di ferro degli Usa, l'Arabia Saudita.
Se Putin si presenta e agisce come affidabile interlocutore, come garante della stabilità, costruita comunque a suon di bombe, anche nel tour diplomatico che in pochi giorni lo porterà dagli incontri previsti dell'8 gennaio col turco Erdogan a quello dell'11 gennaio con la cancelliera tedesca Angela Merkel, con al centro soprattutto la guerra in Libia, Trump al contrario si muove con atti eclatanti e incendiari; atti che rispondono certamente ad avere la massima risonanza nella oramai avviata campagna elettorale delle presidenziali per aspirare alla rielezione alla Casa Bianca nel prossimo novembre ma che comunque rispondono all'esigenza dell'imperialismo americano di non soccombere alla prepotente ascesa delle rivali Russia e Cina. Sono tattiche diverse quelle di Usa e Russia ma sempre di paesi imperialisti; quella di Trump prevede anche giravolte, come verso i curdi siriani usati nella guerra allo Stato islamico e, una volta ritenuta chiusa la missione, mollati di fronte all'aggressione della Turchia. Come verso lo stesso generale iraniano Soleimani, organizzatore delle milizie sciite in Iraq e Siria che hanno partecipato alla guerra al Califfato. Nel caso dell'Iran, Trump è tornato al punto iniziale del suo mandato quando nel primo viaggio all'estero, nel maggio 2017 in Arabia Saudita, indicò nell'accoppiata Riad-Tel Aviv i due fidati pilastri dell'imperialismo americano nella regione per combattere Stato islamico e Iran. Un filo nero che spiegherà nelle dichiarazioni dell'8 gennaio, quando i lampi di guerra accesi dal raid Usa a Baghdad, che potevano portare a gravissime conseguenze, si erano spenti.
“Per troppo tempo, dal 1979 per l'esattezza (la vittoria della rivoluzione antimperialista iraniana guidata da Khomeini, ndr) le nazioni hanno tollerato il comportamento distruttivo e destabilizzante dell'Iran in Medio Oriente e oltre”, ha precisato Trump. L'Iran di Rohani è finito al seguito dell'imperialismo russo e gioca la sua partita come potenza egemonica locale contro quelle alleate degli Usa. La colpa dell'Iran è quindi per Trump non tanto quella dell'accusa ridicola di essere diventato “uno stato terrorista” quanto di aver “creato l'inferno in Yemen, Siria, Libano, Afghanistan e Iraq” nelle zone finite sotto il mirino degli Usa, dell'Arabia saudita e dei sionisti di Tel Aviv. Una volta “distrutto il 100% dell'ISIS e il suo califfato territoriale” e ucciso il leader al-Baghdadi, ricorda Trump, gli Usa “possono chiedere alla Nato di essere molto più coinvolta nel processo in Medio Oriente”, di garantire il controllo degli spazi che Washington non è in grado di coprire per un declino della prima potenza imperialista mondiale e che il presidente americano vende come un minore interesse in Medio Oriente poiché gli Usa avrebbero “raggiunto l'indipendenza energetica” e sono diventati “il primo produttore di petrolio e gas naturale in qualsiasi parte del mondo. Siamo indipendenti e non abbiamo bisogno del petrolio in Medio Oriente”. Non possono però nemmeno lasciare campo libero alle concorrenti Russia e Cina
La guerra all'Iran si era fermata a un passo dallo scoppio lo scorso 19 giugno quando il presidente americano rivelò di aver fermato a 10 minuti dal via la rappresaglia contro basi militari iraniane per l'abbattimento, legittimo, di un drone spia sullo stretto di Hormuz, nello spazio aereo iraniano. Questa volta Trump ha tirato dritto e dopo aver orgogliosamente rivendicato la decisione di assassinare il generale Soleimani, rialzava la posta minacciando di colpire financo i siti culturali iraniani in caso di risposta di Teheran: nel suo primo commento ufficiale, il solito tweet, affermava che “l'Iran non ha mai vinto una guerra, ma non ha mai perso un negoziato!”, che voleva dire se si spara vinciamo, se si discute perdiamo.
Nei momenti concitati seguiti al raid Usa la contraerea di Teheran abbatteva un aereo di linea ucraino appena decollato dall'aeroporto della capitale, scambiato per un aereo aggressore. “Un errore imperdonabile” pur in una situazione creata dagli Usa, lo definiva il presidente iraniano Hassan Rohani, anche se dopo tre giorni di smentite sulle responsabilità iraniane, e assicurava la punizione dei responsabili della tragedia aerea costata la vita a 176 persone, fra le quali una sessantina con passaporto canadese. Anche il premier canadese Justin Trudeau, che per primo aveva chiesto piena luce sulla vicenda contestando le smentite iraniane conveniva che “se non ci fosse stata una escalation di recente nella regione, quei canadesi sarebbero a casa”.
“L'atto di terrorismo internazionale degli Stati Uniti con l'assassinio del generale Soleimani, la forza più efficace nel combattere il Daesh, Al Nusrah e Al Qaida, è estremamente pericolosa e una folle escalation”, affermava il 3 gennaio il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif. La guida suprema iraniana Ali Khamenei proclamava tre giorni di lutto nazionale affermando che l'uccisione del generale Qassem Soleimani avrebbe raddoppiato la motivazione della resistenza contro gli Stati Uniti e Israele. E mentre il 6 gennaio una folla oceanica invadeva tutte le principali piazze di Teheran per dare l'ultimo saluto al generale Soleimani, Ali Akbar Velayati, il consigliere di Khamenei ammoniva che “se gli Stati Uniti non ritirano le forze dalla regione, affronteranno un altro Vietnam”. La reazione iraniana intanto si limitava al lancio di una serie di missili contro una base aerea nei pressi di Erbil, nel Kurdistan iracheno, e la base americana di Ayn al-Asad, nella provincia centro-occidentale di al-Anbar nella notte fra il 7 e l’8 gennaio. Il lancio ha avuto un valore simbolico dato che gli iraniani avevano preavvisato le forze irachene.
Il premier iracheno Abdul-Mahdi e la massima autorità religiosa, l’Ayatollah Ali al-Sistani, definivano il raid Usa un “atto di aggressione” nei confronti dell’Iraq, una violazione della sovranità del paese mentre il parlamento di Baghdad il 5 gennaio votava a maggioranza una risoluzione che chiedeva la fine della collaborazione militare con gli Stati Uniti e il conseguente ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq. La mozione, che non era votata dalle componenti sunnita e curda del parlamento, era comunque liquidata sprezzantemente da Trump. La democrazia “ripristinata” in Iraq dalla guerra imperialista dopo la fine del regime di Saddam Hussein non vale se prende posizioni contrarie ai padroni occupanti.
La decisione di Trump di assassinare il generale Soleimani è nata anche in seguito agli sviluppi della situazione irachena col governo filoamericano messo in difficoltà dalla forte protesta di piazza degli ultimi mesi tanto che Abdul-Mahdi si era dimesso agli inizi di dicembre ma il presidente, il curdo Barham Salih, era giunto il 27 dicembre fino a minacciare le dimissioni pur di non dare l'incarico all'attuale governatore di Bassora, Asaad al-Eidani, scelto dal parlamento su proposta del gruppo sciita dell'ex premier al-Maliki e dalle Forze di mobilitazione popolare. Il passaggio del controllo dell'esecutivo iracheno a un esponente quantomeno più filo-iraniano del predecessore non era una buona notizia per la Casa Bianca che intanto apriva lo scontro militare con le milizie di Abu Mahdi Al-Muhandis.
Quelle milizie contrarie alla presenza americana nel paese che il 27 dicembre sparavano una raffica di razzi contro un’installazione alle porte di Kirkuk, dove restava ucciso un mercenario americano e diversi feriti. A novembre e ai primi di dicembre altri razzi erano stati lanciati dalle milizie filo-iraniane contro basi americane, questa volta la Casa Bianca decideva di rispondere immediatamente col bombardamento del 29 dicembre che provocava almeno 25 morti e decine di feriti in tre basi delle milizie in Iraq e due in Siria. Come risposta il leader Al-Muhandis lanciava il 30 dicembre un appello per una forte protesta davanti l’ambasciata americana a Baghdad messa sotto assedio fino all'1 gennaio.
Questi gli antefatti dell'assassinio di Soleimani, assieme all'iracheno Al-Muhandis, caduto forse in una trappola, secondo quanto rivelato in parlamento dal premier iracheno Abdul-Mahdi che lo aveva invitato a Baghdad su richiesta della Casa Bianca per aprire un canale di dialogo fra le parti.
Mosca condannava la “flagrante violazione del diritto internazionale” e invocava il passaggio all'Onu, finito non si sa dove, ma Putin si preoccupava soprattutto di mandare avanti gli altri affari cari all'imperialismo russo. Pechino si limitava alla condanna formale. I democratici americani, impegnati soprattutto a colpire l'avversario con l'impeachemet per i rapporti scorretti con l'alleato ucraino, protestavano sostanzialmente per non essere stati avvisati per tempo. Gli alleati europei dopo una serie di parole di circostanza sulla necessità di non far esplodere la situazione, che comunque erano un invito all'Iran di subire senza rispondere, non correvano a sostenere i venti di guerra di Trump come l'inossidabile alleato sionista di Tel Aviv per tentare di salvare gli affari con Teheran ma si schieravano dalla sua parte. Più che le parole formali di “preoccupazione” delle istituzioni Ue, per l'imperialismo europeo valeva la dichiarazione congiunta del Presidente della Repubblica francese, del Cancelliere federale della Germania e del Primo Ministro del Regno Unito del 6 gennaio nella quale Macron, Merkel e Johnson condannavano “i recenti attacchi alle partecipazioni della coalizione in Iraq” e “il ruolo negativo svolto dall'Iran nella regione, in particolare dalla forza di Al Quds sotto l'autorità del generale Soleimani”, dando piena ragione a Trump e coglievano l'occasione per riaffermare “anche il nostro impegno a continuare la lotta contro Daesh, che rimane una priorità. La conservazione della coalizione è decisiva in questo senso”. Le attenzioni dell'imperialismo europeo, quello italiano compreso a sgomitare per aver la prima fila, erano dirottate sulla guerra alle porte di casa, in Libia, dove era costretto a rincorrere l'iniziativa militare e diplomatica di Russia e Turchia per spartirsi il paese, seppur schierate su fronti opposti a sostegno rispettivamente dei governi di Tripoli e Tobruk. A segnalare la distanza tra la politica di Washington e del galletto imperialista francese Macron, poi rientrato nei ranghi, aveva provveduto la dichiarazione a botta calda del ministro francese per gli Affari Europei, Amèlie de Montchalin, che aveva sottolineato come l'uccisione di Soleimani aveva reso il mondo “più pericoloso”.
Dietro la ridicola posizione formale delle “preoccupazioni” della Ue tentava di imboscarsi il governo italiano quando avrebbe dovuto prendere chiara posizione non fosse altro per la massiccia presenza militare nel contingente di occupazione imperialista dell'Iraq. Il fascista Salvini era fra i primi a appoggiare l'aggressore della Casa Bianca coi vergognosi ringraziamenti “per aver eliminato uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo”, anche per recuperare credito politico dopo la vicenda dei rubli e contenere la concorrenza crescente a destra della Meloni. Tutto a posto, garantivano Conte e il ministro della Difesa Guerrini mentre il ministro degli Esteri Di Maio si accodava a Francia, Germania e Gran Bretagna nel rimarcare che “la priorità è la lotta all'ISIS”, e velocemente passavano a occuparsi della guerra in Libia. Un comportamento vergognoso a fronte di un atto di guerra dell'alleato americano ha rischiato di incendiare la regione e non solo, che avrebbe dovuto essere condannato senza riserve e che ricorda ancora una volta che l'Italia è già coinvolta in una guerra a “basso livello” al seguito di Usa e Nato. Pertanto restano più che valide le richieste del ritiro delle truppe italiane dal Medio Oriente, della chiusura delle basi Nato e Usa in Italia alcune delle quali, secondo la denuncia di organizzazioni pacifiste, potrebbero essere state coinvolte in qualche forma nel raid, del ritiro dalla guerra allo Stato islamico.

15 gennaio 2020