Serraj e Haftar non firmano il documento della Conferenza di Berlino sulla Libia
Conte: “Ho chiesto a Pompeo di non lasciar la Libia a Russia e Turchia”. L'Italia pronta a far parte delle forze militari di “interposizione”
Né un soldato né un'arma italiani in Libia

 
Invocata da mesi, si è tenuta infine il 19 gennaio la Conferenza di Berlino sulla Libia promossa dai paesi imperialisti interessati a spartirsi il Paese e a mettere le mani sulle sue risorse energetiche. Invitati dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, precisa il documento del vertice, erano presenti i governi di Algeria, Cina, Egitto, Francia, Germania, Italia, Russia, Turchia, Repubblica del Congo, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti d'America e alti rappresentanti di Onu, Unione africana, Unione europea e Lega degli Stati arabi. Ci sono i rappresentanti dei paesi imperialisti che hanno dato il via col consenso dell'Onu alla guerra in Libia nel marzo 2011, il francese Macron, l'americano Pompeo e l'inglese Johnson; il vicino egiziano al Sisi, gli ultimi arrivati ma con maggior peso attualmente sulle vicende libiche, il russo Putin e il turco Erdogan. Senza dimenticare l'imperialismo italiano alla costante ricerca di un posto in prima fila e a non perdere i vantaggi dell'Eni in Libia insidiati dalla Francia. Nonostante il vero e proprio tour de force diplomatico del presidente Conte e del ministro Di Maio, l'imperialismo italiano resta ancora in sconda fila, come testimoniato dalla foto ufficiale del vertice, ma non demorde.
Il documento finale in sintesi definisce un percorso negoziale su sei capitoli, inizia col cessate il fuoco e l'embargo sulle armi e prosegue con processo politico, riforma del settore della sicurezza, riforma economica e finanziaria, rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. Un percorso che sarà portato all'approvazione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu cui spetta il compito di imporre sanzioni ai paesi che violeranno l'embargo sulle armi. E parte dalla considerazione che “non ci può essere soluzione militare in Libia” proponendo un percorso per il cessate il fuoco e la sua verifica da parte di comitati tecnici paritetici. Una considerazione che ha almeno due grossi punti deboli: quello principale è che i rappresentanti delle due parti libiche, il premier del Governo di Accordo nazionale di Tripoli Fayez Al Serraj e il generale Khalifa Haftar comandante dell'Esercito nazionale libico, si sono limitati a accettare la formazione del comitato militare per monitorare la tregua ma non hanno firmato il documento finale e non si sono nemmeno seduti uno di fronte all'altro al tavolo del vertice. Se non altro ci hanno risparmiato la sceneggiata della foto della stretta di mano con Macron dopo gli accordi a Parigi nel 2017 e con Conte a Palermo nel 2018 puntualmente disattesi. Il secondo punto è che i protagonisti della conferenza sono i rappresentanti degli stessi paesi imperialisti che con ruoli diversi nel tempo hanno partecipato all'aggressione militare per abbattere il regime di Gheddafi e che sulle macerie del paese hanno alimentato lo scontro fra bande che prosegue fino a oggi grazie anche alle loro forniture militari sotto forma di “consulenti” in veste ufficiale o dei servizi speciali, di mercenari, russi con Haftar e siriani organizzati dalla Turchia con Serraj, di armi, financo quelle modernissime come i droni degli Emirati arabi a Haftar e della Turchia a al Serraj. Il principale obiettivo di Berlino era quello di far cessare il sostegno militare esterno alle due parti in conflitto: “ci impegniamo ad astenerci dalle interferenze nel conflitto armato o negli affari interni della Libia e sollecitiamo tutti gli attori internazionali a fare lo stesso”, giuravano i paesi interessati mentre correvano, come l'imperialismo italiano, a prepararsi per partecipare alle forze militari di “interposizione” una volta benedette dall'Onu. A Berlino hanno trovato un momentaneo punto di compromesso perché è evidente che nessuno dei paesi imperialisti interessati alla spartizione della Libia vuole perdere lo spazio conquistato e regalarlo ai concorrenti. Primi fra tutti gli sponsor del generale Haftar che è in vantaggio sul piano militare, è arrivato alle porte di Tripoli e tanto per far capire chi ha in mano le carte migliori alla vigilia del vertice ha chiuso i rubinetti dei terminal petroliferi della Sirte e interrotto la distribuzione del più grande campo petrolifero libico a Sharara e con essi i finanziamenti al governo di Tripoli.
Così mentre l'Alto rappresentante dell'Ue Josep Borrell iniziava il 20 gennaio a lavorare a una proposta per una missione europea di salvaguardia del cessate il fuoco in Libia da varare al prossimo Consiglio dei ministri degli Esteri in programma a febbraio, il presidente turco Erdogan lo contestava poiché essendo “coinvolta l'Onu, non è corretto che l'Ue intervenga come coordinatore del processo” di pace in Libia, tanto più, sottolineava che sarebbe stata “la presenza della Turchia in Libia a aumentare le speranze di pace”, a frenare intanto l'offensiva di Haftar, e ribadiva che “la Turchia è la chiave per la pace”, ossia senza Ankara non si va da nessuna parte. Non passavano neanche 24 ore e il governo di Serraj rincarava la dose accusando la Francia di aver fermato una dichiarazione di condanna di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Italia contro il blocco delle installazioni del petrolio deciso da Haftar alla vigilia del vertice di Berlino, per aiutare il suo alleato cirenaico e colpire i vertici della società petrolifera libica, dipendenti dal governo di Tripoli, che ostacolerebbero il suo ingresso nei cospicui affari del valore di 30 miliardi di dollari di lavori che l’industria petrolifera si sta preparando ad appaltare per risistemare una struttura colpita in 9 anni di guerra.
Dalla caduta del regime di Gheddafi nell'ottobre del 2011 e sotto lo sguardo interessato degli aggressori imperialisti, il paese si è prima sbriciolato sotto la spinta degli interessi dei clan locali e poi riassemblato in due schieramenti. Quello a ovest sotto il governo di Tripoli, nato con gli accordi di Skhirat in Marocco del 17 dicembre 2015, guidato da Fayez al-Serraj, riconosciuto dall’Onu e sostenuto dall'Italia e da milizie legate a Turchia e Qatar, e il governo di Tobruk rappresentato di fatto dall'esercito del generale Khalifa Haftar che dalla sua parte contava un numero consistente di sponsor, dalla Francia all'Egitto, agli Emirati arabi fino alla Russia.
Il negoziato infinito per definire un processo politico di riunificazione si interrompeva il 4 aprile dello scorso anno 2019 quando, alla vigilia della conferenza a Ghadames concordata col governo di Serraj e con l’Onu, il generale Khalifa Haftar lanciava il suo esercito contro Tripoli per “liberarla dai terroristi” e metteva la città sotto assedio. In questa situazione l’inviato Onu in Libia, Ghassan Salamè, il 15 agosto incontrava la cancelliera tedesca a Berlino e a fronte del disinteresse degli Usa, della partecipazione della Russia a sostegno di una parte e dello stallo della Ue per la concorrenza tra Francia e Italia, le chiedeva di fare un nuovo tentativo di mediazione. Obiettivo una conferenza a Berlino da tenere entro pochi mesi. Alla Merkel c'è voluto più tempo dato che nei mesi finali del 2019 sono entrati in campo in maniera ancora più pesante la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan schierate su fronti opposti. La mossa determinante è stata l'accordo economico e militare di Ankara con Serraj per lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi nell'area del Mediterraneo che va dalla Turchia alla Libia e intanto per fornire un supporto militare se richiesto. All'inizio di gennaio da Tripoli è partita la richiesta di aiuto militare, accettata dal parlamento turco.
L'accoppiata imperialista Russia-Turchia, collaudata nella guerra e nella spartizione della Siria, ha posto la sua pesante ipoteca sulla guerra e sulla spartizione della Libia che per Putin è parte della contesa mondiale con il concorrente imperialismo americano, gli Usa arretrano e la Russia ne occupa il posto, per Erdogan il lancio definitivo delle sempre più ampie ambizioni egemoniche locali, dal Medio Oriente al Mediterraneo, sulle tracce dell'impero ottomano.
Attizzata la guerra in Libia, Putin e Erdogan hanno lavorato per rallentarla e provare a aprire il negoziato fra le parti libiche, gestito da loro. I due compari imperialisti nell'incontro a Istanbul dell'8 gennaio proponevano un cessate il fuoco a partire dal 12 gennaio e convocavano per il giorno successivo una conferenza di pace a Mosca. Che non raggiungeva l'obiettivo dichiarato di “contribuire al successo del processo di Berlino” perché Haftar lasciava la città chiedendo tempo per firmare un'intesa già accettata dal rivale Serraj. Se Serraj non può permettersi di contestare i suoi padrini, Erdogan anzitutto, il generale Haftar può anche far vedere di non essere un burattino in mano a Putin, potendo contare sugli altri sponsor. E ribattere con la chiusura dei rubinetti del petrolio a un Erdogan che il 14 gennaio minacciava ancora una volta di “dare ad Haftar una meritata lezione se non fermerà l'attacco” su Tripoli. Dopo una settimana si ritroveranno tutti a Berlino.
Nel presentare il documento della conferenza la cancelliera Angela Merkel evidenziava che a Berlino “non abbiamo risolto tutti i problemi” sulla Libia ma “abbiamo creato lo spirito, la base per poter procedere sul percorso Onu designato da Salamé”, l'inviato speciale dell'Onu che esultava assieme al segretario generale Onu, Antonio Guterres, come se i giochi fossero già sistemati. “Comunque abbiamo fatto passi avanti”, era il commento meno entusiasta del presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte impegnato soprattutto a ribadire che “l'Italia è disponibile ad essere in prima fila per un impegno di responsabilità anche sul monitoraggio della pace”, ossia a mandare soldati sul suolo libico.
Nei giorni precedenti il ministro della Difesa PD Lorenzo Guerini aveva parlato della possibilità di incrementare la presenza militare italiana di circa 500 uomini schierati a difesa dell’ospedale militare di Misurata. Il 12 gennaio, via Facebook, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio proponeva di inviare in Libia i Caschi blu europei in una missione di pace e per sventare la “minaccia terroristica” proveniente dalla Libia.
Conte ha tentato a Berlino di avere una sponda influente nell'imperialismo americano, dopo che Trump lo ha incitato a essere protagonista nel Mediterraneo, e negli incontri preliminari della conferenza ha visto il segretario di Stato americano Mike Pompeo al quale “ho chiesto di non lasciare la Libia a Russia e Turchia”, ha raccontato. Gli esiti di tale appello non si sono visti a Berlino, magari la sponsorizzazione di Trump potrà tornare utile all'imperialismo italiano in Consiglio di sicurezza al momento delle decisioni sulle forze di “monitoraggio” da inviare in Libia.
In ogni caso è bene chiarire che non ci deve essere né un soldato né un'arma italiani in Libia; Conte, Di Maio e Guerini devono sbarazzarsi senza indugio di qualsiasi fregola militarista comunque camuffata.

22 gennaio 2020