La Siria bombarda le truppe turche di occupazione
Usa, Nato e Ue solidarizzano con Erdogan

 
Il 2 marzo da Ankara il presidente turco Recep Tayyip Erdogan dichiarava che non c'erano problemi con la Russia e l'Iran sulla situazione in Siria ma solo col governo di Damasco per garantire la “sicurezza nazionale” della Turchia e auspicava di poter trovare una intesa per il cessate il fuoco nella regione di Idlib nei colloqui previsti il 5 marzo a Mosca col presidente russo Vladimir Putin. Il fascista Erdogan tentava di limitare la questione a un confronto con Assad, da risolvere col padrino russo di Damasco, che ha raggiunto un pericoloso punto di rottura col bombardamento siriano delle truppe di occupazione turche nella zona di Idlib il 27 febbraio, colpite in zone dove non avrebbero dovuto essere secondo gli accordi con Mosca mentre appoggiavano l'offensiva delle milizie filo Ankara.
I problemi per la sicurezza nazionale cui faceva riferimento il presidente turco riguardavano in particolare la questione dei circa 3,7 milioni di profughi siriani riparati in Turchia che a ottobre scorso aveva minacciato di trasferire nelle regioni curde nel nord della Siria e ora usati come strumento di pressione verso la Ue con la decisione di aprire il confine con la Grecia per alcune decine di migliaia. La questione principale cui tiene il fascista Erdogan è in realtà quella di difendere i territori siriani occupati direttamente o indirettamente tramite le milizie armate che aveva finanziato per rovesciare il regime di Assad a Damasco, dai territori curdi lungo il confine della Rojava a quelli limitrofi lungo la frontiera siriana fino al cantone curdo di Afrin. E nella zona di Idlib, l'ultima rimasta alle opposizioni armate del regime siriano, che l'esercito di Damasco da mesi tenta di liberare. Le truppe di Assad sono appoggiate dall'aviazione russa; le milizie dell'opposizione dall'artiglieria turca e dai presidi dei militari di Ankara presenti a Idlib a seguito dell’accordo di Sochi del 17 settembre 2018 tra Putin e Erdogan, quando venne creata una zona cuscinetto demilitarizzata di circa 15-20 chilometri tra gli schieramenti delle parti siriane.
Una situazione che si è rivelata precaria a partire dai tentativi organizzati con successo dall'esercito di Damasco per recuperare il controllo delle due importanti arterie di comunicazione che si incrociano a poca distanza dalla città di Idlib, quella che da nord a sud collega Aleppo alla capitale e quella trasversale da Aleppo al porto di Latakia. Quando il 27 febbraio le milizie filoturche all'offensiva avevano occupato la città di Saraqib, che si trova all'incrocio delle due strade nazionali, l'esercito siriano aveva risposto con un bombardamento che uccideva anche 34 soldati turchi. Erdogan strepitava e otteneva la solidarietà di Usa, Nato e Ue che pensavano di sfruttare l'occasione per aprire una frattura nell'asse tra Ankara e Mosca. Il ministero della Difesa russo rispondeva che i soldati turchi, gli osservatori previsti dall'accordo di Sochi, non avrebbero dovuto trovarsi in quella parte della regione ma non affondava in attacchi con l'alleato turco. Erdogan rispondeva con un bombardamento coi droni delle truppe siriane ad Idlib e Aleppo e l'uccisione di almeno una trentina di soldati; Assad con la riconquista della città di Saraqib col supporto aereo russo e dell'artiglieria delle milizie iraniane.
Il 2 marzo la situazione militare era tornata al punto di partenza di fine febbraio, la scena passava agli attori politici. Ad Ankara sbarcava una delegazione americana per discutere con i rappresentanti turchi del “crescente allarme per l’escalation della violenza in Siria”, ovviamente imputata al regime di Assad e ai suoi protettori Russia e Iran. Gli Usa si schieravano con Erdogan per recuperarlo al campo imperialista occidentale sfilandolo alla cordata imperialista concorrente della Russia di Putin o per cercare comunque di gestire a proprio vantaggio le velleità egemoniche locali di Ankara nella spartizione della Siria dove è alleato ma nello stesso tempo concorrente dell'Iran. Il presidente russo Putin e il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, gettavano acqua sul fuoco e preparavano l'incontro di Mosca del 5 marzo, l'ultimo di una serie sempre più fitta.
Appena dieci giorni prima, il 21 febbraio, Putin e Erdogan avevano avuto un colloquio telefonico sempre sulla situazione a Idlib. Il presidente turco aveva chiesto l'intervento di Mosca per “frenare” l'offensiva del regime di Assad che provocava una “crisi umanitaria” e che sarebbe andata contro quanto stabilito nell'intesa di Sochi; in altre parole l'ipocrita occupante turco dei territori siriani a Idlib, autorizzato dalla regia russa, si lamentava perché Damasco tentava di ripristinare la sua sovranità. Putin teneva insieme le diverse esigenze di protetti e alleati assicurando l'applicazione delle intese sulla spartizione della Siria, che garantiscono uno spazio anche alla Turchia, pur ammonendo che devono essere rispettati la sovranità e l’integrità territoriale del paese. Quella formula che gli ha permesso di mettere sotto controllo russo e siriano le zone curde nel nord del paese dopo l'invasione dell'esercito di Ankara nell'ottobre scorso. Alla faccia dell'autodeterminazione del popolo curdo. Gli stessi concetti erano ribaditi il 29 febbraio nel comunicato stampa del Cremlino che dava conto del colloquio tra Putin e il presidente iraniano Hassan Rouhani, relegando a episodi di minor importanza i lampi di guerra tra Siria e Turchia. La gestione imperialista russa della guerra in Siria, che finora ha funzionato, è di nuovo messa alla prova da un arrembante Erdogan che non si limita a operare nei confinanti Siria e Iraq ma ha allungato le mire anche alla Libia.

4 marzo 2020