I sindacati confederali si piegano al governo e cancellano lo sciopero in cambio di briciole, mentre l'Usb viene sanzionata dalla Commissione di garanzia che minaccia restrizioni sugli scioperi

Al lavoro il doppio degli operai dei settori essenziali
Appena 200 mila lavoratori in meno mentre 9 milioni restano in attività. Scioperi e proteste nelle fabbriche e aziende. La mobilitazione deve continuare per difendere i diritti, la sicurezza e il reddito degli operai
Per Conte gli operai sono carne da macello

Avevamo bollato il cosiddetto decreto “serra Italia”, quello che imponeva la chiusura delle fabbriche non essenziali, un bluff perché il governo, schierandosi con i padroni e la Confindustria, lasciava aperte un'infinità di aziende di settori industriali e dei servizi non strettamente necessarie.
Potremmo usare la stessa definizione per il nuovo elenco aggiornato contenuto nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 25 marzo. Dopo una trattativa durata un giorno e mezzo, con pausa notturna, Cgil, Cisl e Uil hanno ottenuto che l’elenco fosse rivisto. L’intesa è stata raggiunta nel corso del confronto tra i ministri dell’Economia, Roberto Gualtieri, e dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, e i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil.
 

Scioperi e proteste
L’accordo non ha fatto in tempo a bloccare gli scioperi proclamati in Lombardia e Lazio il 25 marzo nel settore metalmeccanico e chimico che hanno avuto, secondo i sindacati, una buona partecipazione, anche se raccogliere i dati dell'adesione è stato difficile perché ci sono molte aziende già “in fermata” e molti impiegati in “lavoro a distanza”, ma gli operai erano esasperati dall’idea di dover andare a lavoro, mentre a tutti viene detto di rimanere a casa.
Nello stesso giorno è stato indetto lo sciopero generale dal sindacato non confederale USB. L'agitazione aveva al centro la richiesta di chiusura di tutte le aziende e gli uffici non essenziali. Tra le rivendicazioni la maggiore sicurezza e protezione di chi è costretto a lavorare e vi hanno partecipato simbolicamente, per un minuto, anche gli operatori della sanità.
Grave e inammissibile la procedura d'infrazione (una multa) da parte della “Commissione di Garanzia Sciopero” (CGS) verso lo stesso sindacato per non aver rispettato l'ordine di non scioperare fino al 30 aprile. Quello del Garante è un atto liberticida che accusa l'USB di generare “apprensione” tra i lavoratori quando lo sciopero era proprio contro l'obbligo di lavorare anche con il rischio e la paura del contagio. Un segnale chiaro di quale sia la direzione che intendono prendere le istituzioni borghesi: usare qualsiasi mezzo e pretesto, anche la pandemia da coronavirus, per restringere il diritto di sciopero e le libertà dei lavoratori.
 

I sindacati confederali si accontentano di poche briciole in cambio della rappresentanza istituzionale
Tornando all'ultimo DCPM, i sindacati confederali lo hanno presentato come un risultato importante, questo per giustificare il repentino ritiro dello sciopero generale per poche briciole. Lo stesso Landini con un video su Facebook dal titolo “Ce l'abbiamo fatta” lasciava intendere chissà quale risultato avessero strappato per i lavoratori. Ma la montagna partoriva il topolino perché le nuove restrizioni riguardano soltanto 200 mila lavoratori mentre lascian intatte le linee guida del precedente decreto.
Ecco la frase più significativa del suo breve intervento attraverso i social : “abbiamo bisogno che la paura di oggi, legittima, non si trasformi in rabbia”; rivelando quali erano le reali intenzioni di questo accordo sulla revisione delle aziende autorizzate a lavorare: fare da grancassa tra i lavoratori alle massicce dosi della retorica pro unità nazionale secondo cui “stiamo tutti sulla stessa barca”.
Quelle trattative erano avviate col principale obiettivo di scongiurare lo sciopero generale che Cgil, Cisl e Uil avevano minacciato sotto la spinta degli scioperi spontanei in molte fabbriche ma che in cuor loro non avrebbero voluto proclamare. Dopo il precedente decreto del 21 marzo gli operai di molte aziende della Lombardia e di tutto il Nord, ma anche del resto d'Italia, si erano rifiutati di entrare in fabbrica a produrre beni dichiarati essenziali ma che non lo erano come elettrodomestici, bulloneria, prodotti chimici per l'industria della moda.
I sindacati confederali si sono ritrovati tra due fuochi: da una parte Confindustria che pressava sul governo per tenere aperte più aziende possibili, dall'altra i lavoratori che con i loro scioperi scavalcavano Cgil-Cisl-Uil e prendevano l'iniziativa, costringendoli a dare la copertura politica e sindacale alle loro mobilitazioni, e per certe categorie come la Fiom e la Filctem Cgil a proclamare scioperi in alcune regioni.
Landini e gli altri segretari confederali sono stati costretti a chiedere l'incontro con il governo per ridiscutere il decreto del 22 marzo, per lo meno per non apparire completamente subalterni alla Confindustria e al governo Conte, che considerano i lavoratori carne da macello da sacrificare sull'altare del profitto. Ma Cgil, Cisl e Uil cercano soprattutto di ridare un peso al loro ruolo di rappresentanza che i lavoratori gli hanno in buona parte tolto, recuperandolo con il riconoscimento del loro ruolo istituzionale da parte dello Stato borghese. E per avere questo ruolo occorre seguire una linea cogestionaria e corporativa, proprio quello che stanno facendo questi sindacati.
 

Ancora in troppi al lavoro
Nel concreto, leggendo l'ultimo Dpcm vediamo come le modifiche sono poche. Vengono escluse alcune sottocategorie di settori ampi e variegati, come ad esempio nella chimica dove sono 5 le tipologie di codici Ateco (che indicano il tipo di produzione) che dovranno restare chiuse, due categorie della fabbricazione della carta (articoli scolastici e carta da parati), un paio di codici nel ramo della plastica, la costruzione di elettrodomestici, una parte delle riparazioni e manutenzioni di apparecchiature, la costruzione di opere idrauliche, alcuni commerci all'ingrosso di beni non necessari.
A questi vanno aggiunti una parte degli oltre 50 mila addetti ai call center operanti in attività in uscita (outbound) o per servizi telefonici a carattere ricreativo. Dal sindacato si fa ufficiosamente la cifra di 250 mila, ma oltre al taglio di alcuni settori si è ritenuto indispensabile aggiungere attività che invece erano rimaste fuori, come gli imballaggi o la costruzione di batterie o, ancora, la produzione di vetro cavo. Queste categorie hanno determinato un aumento di circa 51 mila unità al lavoro.
Alla fine si tratta di circa 200 mila unità lavorative in meno, che passano da 9 milioni a 8,8 milioni (ma alcune stime sindacali parlano di 11-12 milioni di lavoratori in attività, anche perché occorre aggiungere quelle attività che proseguono in deroga). Secondo i calcoli di Matteo Gaddi e Nadia Garbellini della Fondazione Claudio Sabattini, le ore lavorate necessarie a mandare avanti le attività fondamentali in Italia oggi corrispondono al 31,8% del totale, mentre quelle attivate dal governo sono il 46,5%. Ci sarebbero quindi almeno 4,5 milioni, il doppio, di lavoratori in più di quelli necessari.
Oltretutto rimane la possibilità di chiedere ai prefetti la possibilità di lavorare per le aziende che in qualche maniera si ritengono collegate a quelle già autorizzate. Con questa scappatoia nella sola Lombardia si sono registrate oltre 12 mila richieste per avere questo tipo di deroga. Unica novità (non scritta sul decreto) è la direttiva della ministra degli Interni Lamorgese: “I prefetti dovranno coinvolgere le organizzazioni territoriali per l'autocertificazione delle attività delle imprese che svolgono attività funzionali ad assicurare la continuità delle filiere essenziali”. Tanto è bastato per far cantare vittoria ai Cgil-Cisl-Uil perché rilancia quel ruolo di sindacato di Stato tanto ricercato.
La situazione generale rimane comunque fluida e in continuo movimento. È legata all'andamento della pandemia ma anche alla dinamica politico-sociale che si svilupperà. La Confindustria è di nuovo sul piede di guerra e il suo vicepresidente e candidato a prendere il posto di Vincenzo Boccia, la torinese Licia Mattioli ha fatto capire che le industrie del nord non possono restare chiuse a lungo: “prima si riapre, meglio è … È necessario allentare alcuni divieti nelle filiere essenziali”. Ma di cosa stiamo parlando se queste sono già aperte? Evidentemente la pensa come Renzi che fregandosene della salute e dei diritti dei lavoratori (come ha sempre fatto) vorrebbe riaprire tutte le fabbriche il 6 aprile.
 

La mobilitazione continua
Dall'altra parte i lavoratori continuano a lottare e non si accontentano delle ultime modifiche del Dcpm. Appoggiati dai molti sindacati non confederali e da alcune categorie della Cgil, in prima fila troviamo i lavoratori del commercio che, seppur obbligati ad assicurare l'approvvigionamento degli alimenti, non ci stanno a fare carne da macello per i profitti della grande distribuzione: sciopero in tutta Italia il 29 marzo contro le aperture domenicali. Si chiedono inoltre orari più corti e misure di protezione maggiori.
La mobilitazione deve continuare. In quelle fabbriche e nei servizi che di essenziale non hanno niente per chiederne la chiusura. Nei settori veramente necessari per esigere misure stringenti per salvaguardare la salute dei lavoratori, ovviamente a partire dalla sanità dove gli operatori lavorano in condizioni drammatiche e pericolose, ma anche in quelle filiere come l'agroalimentare, dove già in tempi normali non si rispettano le regole sulla sicurezza e adesso si lavora a pieno regime e a rischio contagio, o in servizi di pubblica utilità come le banche e le poste dove fino a poche settimane fa si volevano licenziare migliaia di lavoratori e adesso non si vuole nemmeno ridurre al minimo la presenza degli operatori agli sportelli e nelle consegne.
Accanto a questo occorre rivendicare la parte economica, con la cassa integrazione per tutti versata dall'Inps senza aspettare le aziende (sopratutto quelle piccole) e una integrazione che copra il salario al 100%. Oltre a un immediato “reddito di quarantena” ammontante a 1200 euro (o come lo si voglia chiamare) che assicuri un reddito agli operatori sociali, dipendenti di cooperative, lavoratori del terzo settore, al piccolo lavoro autonomo, agli stagionali, compreso chi svolge lavoro nero o “grigio”, altrimenti costretti alla fame.

31 marzo 2020