Ripristinare i diritti costituzionali e parlamentari
Basta con i decreti del dittatore antivirus Conte
Il premier difende in parlamento la sua linea anticostituzionale

Il 30 aprile Giuseppe Conte si è recato in parlamento per riferire sulle misure economiche del governo e di allentamento delle restrizioni nel quadro della cosiddetta “fase 2”. A questi due temi ne aveva aggiunto un terzo, quello che lui stesso ha definito della “compatibilità costituzionale” dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri (dpcm), tema divenuto ormai improcrastinabile dopo tre mesi di uso massiccio di questo strumento straordinario per gestire l'emergenza pandemia.
Il dpcm, a differenza del decreto legge (dl), è un atto amministrativo e non è soggetto alla firma del presidente della Repubblica, non richiede discussione e approvazione del parlamento e non è nemmeno soggetto al giudizio della Corte costituzionale. Ciò ha determinato di fatto una concentrazione di potere straordinaria nelle mani di Conte che, contando anche sulle difficoltà oggettive del parlamento a riunirsi e spesso senza nemmeno riunire il Consiglio dei ministri, dall'inizio della pandemia ad oggi ha gestito monocraticamente l'emergenza a colpi di dpcm e dirette Facebook all'ora di cena, come se la Costituzione e il parlamento fossero sospesi e vivessimo di fatto in una repubblica presidenziale.
Ultimamente il tema era diventato sempre più scottante, dopo anche gli interventi severamente critici di alcuni autorevoli costituzionalisti, come il presidente emerito della Corte costituzionale, Sabino Cassese, e l'ordinario di Diritto costituzionale alla Sapienza, Gaetano Azzariti, e le prese di posizione di personaggi istituzionali come la presidente del Senato, Casellati, e l'attuale presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia. Quest'ultima, in una relazione sull'attività della Consulta per il 2019, aveva posto l'accento sul fatto che “la nostra Costituzione non contempla un diritto speciale per lo stato di emergenza”, che le limitazioni alle libertà costituzionali devono rispondere ai requisiti di “necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità” e che ci deve essere una “leale collaborazione” tra le istituzioni, e tutto ciò era stato letto come una critica all'eccesso di dpcm e alla prevaricazione del governo sul parlamento.
 

Accusatori e difensori d'ufficio di Conte
In questa frattura si sono inseriti, ovviamente in maniera strumentale e propagandistica i leader dell'opposizione di “centro-destra”, anche se però in ordine sparso: la ducetta Meloni con un flash-mob di protesta del suo partito davanti a Palazzo Chigi, liquidato come “inutile” da Salvini, mentre quest'ultimo - in evidente affanno per il calo nei sondaggi, la concorrenza a destra sempre più insidiosa della Meloni e il recente smarcamento di Berlusconi, tornato nella crisi ad atteggiarsi a “responsabile” verso il governo - ha lanciato l'occupazione leghista delle aule parlamentari “finché il governo non darà le risposte”, non seguito però da Forza Italia e da FdI. Si è inserito anche Renzi, che a causa dell'epidemia aveva dovuto accantonare le manovre per scalzare Conte e mettere in piedi un “governissimo” Draghi insieme a Lega, FI e “responsabili” del M5S, e che ha colto l'occasione per riavere visibilità ricominciando a lanciare avvertimenti e minacce a Conte ed ergendosi a paladino della Costituzione e dei diritti del parlamento violati.
Hanno cominciato ad agitarsi anche i gruppi parlamentari del PD, col capogruppo renziano al Senato, Marcucci, che chiedeva di “tornare alla centralità del parlamento” e il capogruppo alla Camera, Delrio, per il quale la fase del ricorso ai dpcm è da considerarsi chiusa e ora “il parlamento deve riprendere la sua funzione di indirizzo e di controllo sull'attività di governo”. Il deputato del PD Ceccanti aveva anche presentato un emendamento che impegnava Conte a consultare le Camere prima di adottare i dpcm, costringendo il governo a doverne chiede uno slittamento.
Una situazione sempre più difficile per Conte, attaccato anche dai governatori regionali e dalla stampa di destra, dalla Confindustria, dalle associazioni dei commercianti e perfino dai vescovi della Cei, per la riapertura “troppo timida” e per la confusione delle norme, tanto che erano scesi in campo anche i suoi sostenitori, come “Il Fatto quotidiano” e “Il Manifesto” trotzkista; con quest'ultimo che pubblicava un appello “Basta con gli agguati” a Conte, negante l'accusa di atteggiarsi a dittatore e di calpestare i diritti e la Costituzione, e avente tra i primi firmatari giuristi, giornalisti e politologi della “sinistra” borghese come Lorenza Carlassare, Anna Falcone, Luigi Ferrajoli, Piero Ignazi, Giacomo Marramao, Marco Revelli e Nadia Urbinati.
 

L'autodifesa di Conte alle Camere
È in questo clima incandescente che Conte si è presentato alle Camere per la sua “informativa”, lasciando il tema dei dpcm per ultimo. Ma non ha concesso il minimo spiraglio alle accuse che gli erano piovute da tutte le parti e ha rivendicato a tutto campo e senza il minimo accenno ad un'autocritica la correttezza istituzionale e costituzionale del suo operato, in particolare nel ricorso ai dpcm: “Non mi sfugge affatto – ha chiarito subito - la portata dei rilievi che sono stati mossi, con particolare riferimento agli istituti ben conosciuti della riserva di legge e del principio di legalità che la nostra Costituzione pone a baluardo dei diritti fondamentali della persona, ritengo, tuttavia, che quei presidi di garanzia non siano stati trascurati né affievoliti nella loro portata”. E a sostegno di ciò si è profuso in un'ampia arringa avvocatesca per dimostrare che ogni qual volta ne ha firmato uno “ho avvertito sempre la piena consapevolezza di agire in scienza e coscienza per la difesa di un bene primario di valore assoluto, rispetto al quale altri diritti, per quanto fondamentali - per quanto fondamentali - non possono che recedere. Come giurista e anche come persona cresciuta e educata ai valori democratici, avverto come profondamente ingiusta l'accusa di avere irragionevolmente e arbitrariamente compresso le libertà fondamentali”.
Inoltre, “pur consapevole delle prerogative del parlamento”, Conte ha voluto ricordare puntigliosamente a deputati e senatori che “le misure adottate in queste settimane sono state l'esito di decisioni ispirate non solo ai principi di proporzionalità e di massima precauzione”, ma che “l'emergenza in atto ha richiesto che a questi due fondamentali principi se ne affiancasse un altro, forse ancora più importante: la tempestività, condizione imprescindibile perché misure così incisive fossero realmente efficaci”. Quanto alla scottante questione della prevaricazione del parlamento scavalcato dai decreti del premier, Conte l'ha liquidata in due parole in conclusione del suo discorso, ricordando che il parlamento “dispone di tutti gli strumenti per poter controllare e indirizzare l'azione di Governo: gli istituti di sindacato ispettivo, interrogazioni, interpellanze, mozioni, come pure le attività conoscitive che le Commissioni competenti possono avviare su specifici aspetti, gli atti di indirizzo accolti dal Governo e approvati in Commissione o in Assemblea”.
 

Gli interventi di Meloni, Salvini e Renzi
Scontata la reazione stizzita, a questa autodifesa a spada tratta di Conte, da parte dei suoi principali oppositori dall'esterno e dall'interno della maggioranza, Meloni, Salvini e Renzi. Ergendosi ad alfiere della “Costituzione sostanzialmente sospesa” e del parlamento “insultato”, Giorgia Meloni tuonava che “in Italia non fa più fede la Costituzione, non fanno più fede le leggi: fanno fede unicamente i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri”, e che questa situazione “noi non la consideriamo più tollerabile”. “Non c'è alcuna ragione al mondo – aggiungeva - dopo tre mesi, di continuare con gli stessi metodi, se non il fatto che questo Governo ritiene di poter utilizzare l'emergenza del Coronavirus per accrescere il suo potere personale e la sua visibilità personale”.
Salvini ha evitato il tema dei “pieni poteri” di Conte, forse troppo scivoloso per lui, e ha attaccato invece il premier sulle misure economiche insufficienti e tardive e sulla mancata riapertura totale, proclamandosi a fianco di “Confindustria di Carlo Bonomi, dei vescovi, imprenditori, baristi, parrucchieri, ristoratori e genitori” che Conte ha fatto “indispettire”; ha attaccato la Cgil, “che tiene in ostaggio un Paese intero” e che “conta più degli altri nell'influenzare il governo”; se l'è presa con gli immigrati sbarcati a Lampedusa, a cui lo Stato “garantisce 25 euro al giorno” ma “non ai bambini”, e così via.
Stavolta il duce dei fascisti del XXI secolo si presentava in veste di campione delle libertà, contro “una certa cultura sociale, economica e filosofica di sinistra”, che vuole con lo Stato “centralizzare, burocratizzare, verificare e controllare a priori”: “In un momento di emergenza e di ricostruzione nazionale – ha sentenziato - il mio e il nostro progetto è esattamente il contrario: restituire totale libertà di azione ai cittadini e agli imprenditori di questo Paese. Affidarsi e confidare in chi crea lavoro e crea ricchezza; libertà di impresa, libertà educativa, libertà di culto, libertà sindacale vera, libertà personale, certezza della pena”.
Renzi è stato paradossalmente il più duro dei tre contro premier, senz'altro il più arrogante, ispirandosi a Craxi nel tenere un piede dentro e un piede fuori della maggioranza, trescando con Berlusconi e lo stesso Salvini per tenere sotto ricatto Conte ed esplorare altre alternative di governo. Lui che avrebbe voluto riaprire tutto già il 4 maggio, almeno nelle regioni meno colpite dal coronavirus, ha esordito subito dicendo che gli italiani sono agli “arresti domiciliari” (sottinteso per volontà di Conte); che anche i morti di Bergamo e Brescia, se potessero parlare, ci direbbero “ripartite anche per noi”; e facendo una divisione artificiosa tra “garantiti” e “non garantiti” rispetto alla pandemia, si è messo idealmente alla testa di questi ultimi, cioè “lavoratori autonomi, partite Iva, baristi, ristoratori, commercianti”, per sostenere la causa di chi preme per riaprire subito.
Ma l'attacco più velenoso a Conte, ricevendo fra l'altro gli applausi a scena aperta di Lega e FI, lo ha fatto sulla Costituzione (“Non abbiamo mai avuto un quadro derogatorio così ampio, rispetto ai princìpi e alle libertà costituzionali, come in questo momento; nemmeno durante il terrorismo”, ha accusato), ricordando al premier di non aver “negato i pieni poteri a Salvini per darli ad altri”. E minacciandolo che se “ci vorrà al suo fianco, noi ci saremo, a condizione di fare le cose che servono agli italiani. Se invece dobbiamo essere su un crinale populista, che dice alla gente quello che alla gente piace sentire, noi non saremo al suo fianco”.
 

Presidenzialismo sfrenato e generalizzato
Ma al di là degli scopi strumentali di chi le ha pronunciate in aula non c'è dubbio che le accuse a Conte di calpestare la Costituzione e prevaricare il parlamento sono più che fondate. È un fatto che coprendosi dietro lo stato di necessità e urgenza dettato dalla pandemia, che non a caso viene ossessivamente paragonata ad una guerra, e sentendosi politicamente coperto anche da Mattarella, che non vuole una crisi politica in piena emergenza, Conte governa accentrando tutto il potere nelle sue mani come se fosse stato dichiarato appunto lo stato di guerra. Ma, come ha osservato Cassese in un'intervista a “Il Dubbio” del 14 aprile: “Nell’interpretazione della Costituzione non si può giocare con le parole. Una pandemia non è una guerra. Non si può quindi ricorrere all’articolo 78. La Costituzione è chiara. La profilassi internazionale spetta esclusivamente allo Stato (art. 117, II comma, lettera q)”.
Il suo governare prevalentemente attraverso dpcm e gli interventi mediatici personali, il sottrarsi regolarmente alla discussione e al voto parlamentare (egli va infatti in parlamento solo per delle “informative”), il coprire le sue decisioni dietro commissioni e “task force” di medici, tecnici, esperti e manager come Arcuri e Colao, che tra l'altro rispondono direttamente a lui, il sostituirsi spesso e volentieri agli stessi ministri competenti su tutta una serie di interventi di loro spettanza, il gestire direttamente e personalmente le trattative in sede europea, sono tutti elementi caratterizzanti della sua tendenza a travalicare nettamente i poteri conferitigli dalla Costituzione per stabilire di fatto una sua personale dittatura antivirus. E come ha rivendicato orgogliosamente in parlamento, intende continuare a farlo anche in futuro.
Siamo insomma in una condizione di presidenzialismo sfrenato e generalizzato, che si sta diffondendo a tutti i livelli: presidenza del Consiglio, governatori di regione e sindaci: ognuno rivendica i pieni poteri nel proprio ambito di intervento e nel proprio territorio, anche in pieno contrasto l'uno con l'altro, saltando tutte le regole e le procedure previste dalla Costituzione, in nome dell'emergenza sanitaria o economica. E siccome questa emergenza dovrà durare a lungo, questo andazzo è pericolosissimo per il Paese e per le libertà democratico-borghesi.
Avevamo visto giusto quando, emergendo come dal nulla a Palazzo Chigi nel giugno 2018, avevamo messo in guardia dalle forti ambizioni politiche che già spuntavano dietro l'allora apparente grigiore notarile dell'”avvocato del popolo”.
È l'ora di dire basta ai decreti dittatoriali di Conte e di ripristinare pienamente i diritti costituzionali e parlamentari.

6 maggio 2020