In vista del Decreto Rilancio chiediamo
Nazionalizzare le grandi aziende e banche
Regolarizzare stabilmente i migranti

Il tema degli aiuti di Stato alle imprese, in che misura, a chi e in quale forma, e quello della regolarizzazione dei migranti, sia per ragioni sanitarie che economiche, sono tra quelli più controversi sul tavolo della maggioranza di governo e che hanno ritardato di giorno in giorno il varo del Decreto Rilancio. Così è stato ribattezzato infatti il Decreto Aprile annunciato per il mese scorso, e che passata già la prima decade maggio non è stato ancora presentato in Consiglio dei ministri a causa delle sue dimensioni senza precedenti - 55 miliardi, l'importo di due Finanziarie, oltre 250 articoli e più di 400 pagine – e con molti punti ancora oggetto di divergenze e scontri tra i partiti di governo.
A mettere una seria ipoteca sull'impianto e sulle proposte della manovra faticosamente messa a punto nelle scorse settimane dal ministro dell'Economia Gualtieri, costringendo il governo a rivederla più volte, era stato il neo eletto presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che in un'intervista al Corriere della Sera del 4 maggio sparava a zero contro “la risposta del governo alla crisi” che si esaurisce “in una distribuzione di denaro a pioggia”, mentre “non c'è nulla per l'industria” ma “prevale la logica del dividendo elettorale garantendo nel brevissimo periodo un po' di soldi a ciascuna categoria sociale”. In sostanza Bonomi, piangendo miseria e sanzionando come inutili, improduttivi e perfino clientelari gli interventi di sostegno agli strati sociali impoveriti dalla pandemia, chiedeva perentoriamente al governo di destinare tutte le risorse disponibili alle imprese, minacciando oscuramente altrimenti “l'esplosione di una vera e propria emergenza sociale già a settembre-ottobre”. Risorse che gli industriali pretendono siano a fondo perduto, non prestiti, e che non comportino una presenza dello Stato nel capitale delle aziende beneficiarie: “Lo Stato faccia il regolatore, stimoli gli investimenti – sentenziava imperiosamente il falco del padronato italiano – […] ma si fermi lì. Non abbiamo bisogno di uno Stato imprenditore, ne conosciamo fin troppo bene i difetti”.
 

I finanziamenti alle imprese ipotizzati nel decreto
L'altolà di Bonomi era la risposta a muso duro degli industriali al timido dibattito che l'emergenza Coronavirus, visto il disastro causato dalla politica di privatizzazione della sanità, aveva cominciato a suscitare, anche tra le forze della maggioranza, sulla necessità di una maggiore presenza della mano pubblica nell'economia, invertendo la direzione dopo decenni di dismissioni e privatizzazioni delle partecipazioni Statali. È questa per esempio la linea suggerita dall'economista di tendenza Keynesiana, consigliera di Conte e membro della Task force per la fase 2, Mariana Mazzuccato. Anche il vicesegretario del PD, Andrea Orlando, in un'intervista a La Stampa , aveva sostenuto esplicitamente questa strada, dichiarando che “se lo Stato finanzia le aziende deve avere un posto in cda”. Favorevoli anche LeU e per certi versi anche il M5S, che dallo scorso governo ha messo gli occhi sulla Cassa depositi e prestiti (Cdp), lo strumento principale per gli interventi statali a sostegno dell'economia, per farne un suo feudo clientelare, specie nel settore delle piccole e medie aziende (Pmi).
Questo dibattito era andato focalizzandosi intorno alle prime ipotesi di finanziamenti alle imprese formulate da Gualtieri nella bozza del Decreto Rilancio, in cui si prevedevano quattro livelli di intervento: Il primo prevedeva 50 miliardi destinati a Cdp per finanziare le grandi imprese sopra i 50 milioni di fatturato e oltre 250 dipendenti, quelle considerate strategiche per il sistema, con un piano articolato di interventi per “ristrutturazioni, ricapitalizzazioni e anche ingresso nel capitale”. Gualtieri aveva precisato che si sarebbe trattato di strumenti ibridi di capitale e di equity, cioè prestiti o obbligazioni con garanzia pubblica che si trasformeranno in azioni dello Stato solo se l’impresa non riuscirà a restituirli dopo un determinato periodo di tempo. Con la leva finanziaria il fondo avrebbe potuto mobilitare ben 500 miliardi, metà della capitalizzazione di Borsa.
Per le aziende fra i 5 e i 50 milioni e con perdite subite almeno del 33%, sarebbe intervenuto il meccanismo del “pari passu”, ovvero il governo avrebbe finanziato le ricapitalizzazioni con una somma pari a quella messa dai soci privati, e l’intervento sarebbe diventato a fondo perduto secondo certi parametri da definire. Completamente a fondo perduto sarebbe stato invece il terzo livello, destinato alle aziende sotto i 5 milioni di fatturato. Il quarto livello, sempre destinato alle imprese più piccole in crisi, passava dalle Regioni e prevedeva aiuti fino a 800mila euro per evitare i licenziamenti, tra cui 120mila per la pesca e 100mila per l’agricoltura. Erano previsti poi altri stanziamenti a fondo perduto, tra cui, oltre a quello per rifinanziare la Cig, i 2,5 miliardi per cofinanziare le spese per adattare le condizioni di lavoro e di esercizio alle misure anticovid, quello per un credito d'imposta sugli affitti fino al 60% tra aprile e giugno, quello di 600 milioni per uno sconto sulle tariffe elettriche, quello per abbonare l'Imu alle aziende e la Tosap ai ristoratori, e così via.
 

Fuoco di sbarramento sulle nazionalizzazioni
Ma nonostante tutte queste misure fossero nella gran parte a fondo perduto, e solo per le grandi aziende, e in maniera peraltro vaga e tutta ancora da definire, prevedessero l'eventualità di un ingresso dello Stato nel capitale, Bonomi le rispediva sdegnosamente al mittente, e in vista di un apposito incontro col governo controbatteva con la richiesta di una riduzione secca delle tasse, con l'abolizione dell'Irap, di finanziamenti esclusivamente senza prestiti e a fondo perduto, e con l'ingiunzione di non ficcare il naso dello Stato negli affari privati delle grandi aziende capitaliste: “Sentiamo parlare di nazionalizzazioni, cosa che ci lascia stupefatti”, dichiarava infatti il bellicoso presidente di Confindustria, lamentandosi che di 55 miliardi della manovra “solo 10 andranno alle imprese, e non produrranno effetti concreti”. “Condivido l’allarme lanciato dal presidente designato di Confindustria, Carlo Bonomi”, gli faceva subito eco il suo lontano predecessore e attuale presidente della Bnl, Luigi Abete: “Accanto al tema centrale del recupero di competitività delle imprese c’è quello del rischio di nazionalizzazione, di cui non si parla a sufficienza nel dibattito pubblico”.
A sostegno di Bonomi, tra i politici scendevano in prima fila i renziani, col responsabile economico di IV, Luigi Marattin, che su Il Sole 24 Ore sosteneva a spada tratta tutte le sue pretese: cancellazione dell'Irap ed “estendere i ristori a fondo perduto”, evitando “pulsioni stataliste” e un “assistenzialismo a lungo termine”, sul modello di Obama dopo la recessione di dieci anni fa. Anche nel PD non mancavano orecchie sensibili alle ragioni del padronato, come quelle del tesoriere Luigi Zanda, che sempre sul quotidiano confindustriale dichiarava che “sarebbe opportuno che lo Stato fermasse la tentazione di tornare a intervenire nel capitale delle imprese”.
 

La Confindustria detta la linea al governo
Questo fuoco di sbarramento produceva subito il suo effetto, visto che Gualtieri si affrettava a precisare che il suo modello di sostegno alle imprese era sì “molto ambizioso”, ma non animato da “alcun intento di nazionalizzazione o controllo”. Lo stesso premier Conte, prima dell'incontro con le associazioni imprenditoriali, ha voluto chiarire che “l'intervento di cui si discute... deve avere carattere temporaneo, non deve interferire nella governance e all’esito deve contemplare un contributo a fondo perduto per premiare l’impresa che abbia fatto investimenti produttivi”.
È così che, tra le pressioni esterne del padronato e i ricatti interni dei renziani e di settori del PD, prima Gualtieri ha annunciato in tv la cancellazione del versamento e dell'acconto dell'Irap di giugno, specificando nell'ennesima bozza di decreto che sarebbe stato concesso alle aziende tra i 5 e i 250 milioni di fatturato con perdite del 33% a causa dell'emergenza. Poi, a seguito del rifiuto sprezzante di Confindustria, ha dovuto calarsi ulteriormente le brache riscrivendo nuovamente la bozza con la rimozione anche di questi due esili paletti. Per cui la cancellazione dell'Irap varrà per tutte le aziende fino a 250 milioni; e anche se non hanno avuto danni, come le tante che non hanno mai smesso di produrre e di incamerare profitti in questi due mesi di quarantena. Peraltro si tenga presente che fin da quando fu istituita, l'Irap (Imposta regionale sulle attività produttive) è destinata per il 90% a finanziare il Fondo sanitario nazionale.
Altro che aumento della presenza dello Stato nell'economia! Lungi dall'acquietare i falchi confindustriali, la marcia indietro del governo li ha incoraggiati ad aumentare le pressioni per ottenere il massimo e completamente gratis, e a questo punto il Decreto Rilancio lo stanno dettando direttamente loro al governo per mettere le mani sul grosso dei 55 miliardi della manovra. Questo esito vergognoso va risolutamente sventato. Le segreterie di Cgil, Cisl e Uil non hanno nulla da dire in proposito? Noi chiamiamo i lavoratori a chiedere loro con forza una mobilitazione per sostenere l'impiego dei capitali pubblici per aiutare le piccole aziende industriali, artigianali e commerciali, mentre le grandi aziende e le grandi banche devono essere nazionalizzate. Solo così il denaro frutto dei sacrifici dei lavoratori e delle masse popolari sarà ben speso, e questa può diventare un'occasione per creare nuova occupazione e invertire la devastante politica neoliberista e di privatizzazioni degli ultimi decenni.
 

Vergognosa trattativa sulla pelle dei migranti
Anche la vicenda della regolarizzazione dei migranti sta andando verso un esito vergognoso. Il problema è diventato impellente con la pandemia, sia perché l'esistenza di centinaia di migliaia di migranti costretti a vivere in clandestinità, in condizioni igieniche precarie e senza assistenza medica costituisce una bomba sanitaria pronta ad esplodere, sia per l'allarme lanciato dai coltivatori che, mancando la consueta mano d'opera stagionale proveniente dall'Est, paventano l'impossibilità di raccogliere la frutta e la verdura nelle prossime settimane e mesi. È soprattutto questo allarme che ha convinto la ministra renziana dell'Agricoltura, Teresa Bellanova, a farsi promotrice della proposta, da inserire nel decreto, di una regolarizzazione temporanea per 6 mesi (non una “sanatoria”, come strillavano subito la Lega e FdI, dichiarandosi pronti a “fare le barricate in piazza”) di 600 mila migranti irregolari che lavorano in agricoltura, per permettere agli agricoltori di attingere a questo serbatoio di mano d'opera. Ai quali il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, proponeva di aggiungere anche colf e badanti. Restavano invece esclusi gli irregolari che lavorano nell'edilizia, nonostante le richieste delle direzioni sindacali.
Secondo la proposta Bellanova, la regolarizzazione avverrebbe in due modi: con il primo è il datore di lavoro stesso a regolarizzare il lavoratore a nero, italiano o straniero presente sul territorio nazionale alla data dell'8 marzo 2020. Con il secondo è lo straniero che chiede direttamente un permesso di soggiorno temporaneo per trovare lavoro; convertibile, se lo trova, in permesso di soggiorno per motivi di lavoro ed eventualmente rinnovabile. La proposta incontrava la feroce opposizione del M5S, e in particolare della ministra del Lavoro, fedelissima del ducetto Di Maio, Nunzia Catalfo. La quale al massimo era disposta a concedere il permesso per un mese. Mentre la ministra dell'Interno, Lamorgese, cercava di mediare per un tempo di tre mesi.
 

L'anima nera razzista del M5S
L'indegno balletto è andato avanti per diversi giorni, con la Bellanova che ventilava anche le sue possibili “dimissioni” e il M5S sempre più arroccato nel rifiutare quella che con linguaggio salviniano il reggente provvisorio del movimento, Vito Crimi, definiva una “sanatoria”, il quale motivava il suo rifiuto netto nascondendosi dietro la scusa del caporalato che la regolarizzazione avrebbe favorito, mentre è vero esattamente il contrario. Il movimento di Grillo, Casaleggio e Di Maio ha così gettato definitivamente la maschera, visto che stavolta non può più nascondere il suo radicato razzismo e la sua anima nera di destra dietro il paravento del “contratto” firmato con la Lega, come faceva quando controfirmava tutti gli atti fascisti e razzisti di Salvini. Ora è proprio il M5S a inalberare in prima persona nel governo la bandiera nera del razzismo e della xenofobia.
Lo si è visto in particolare quando, per boicottare la pur ristretta, insufficiente e motivata unicamente da interessi economici, proposta Bellanova, è riuscito a far accettare a IV, PD e LeU la clausola che soltanto chi ha già un permesso (umanitario, turistico o una richiesta d'asilo) scaduto al 31 ottobre 2019 può richiedere il permesso temporaneo, il che riduce la platea a meno di 200 mila persone. E nonostante ciò, quando già l'accordo al ribasso era fatto, è intervenuto Di Maio, d'accordo con Crimi e con il sottosegretario all'Interno, Sibilia, per far saltare il banco e rimettere tutto in discussione; tanto che al momento in cui scriviamo nella bozza di decreto il capitolo migranti non compare neanche. Probabilmente il M5S mira a rimandarlo ad un provvedimento separato, cioè a metterlo per sempre su un binario morto.
L'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) ha promosso una proposta di regolarizzazione dei migranti da inserire nel dl governativo e firmata da centinaia di persone del mondo della cultura e accademico, giornalisti, giuristi, scrittrici, insieme a centinaia di associazioni e rappresentanti della società civile. In essa si chiede per tutti i cittadini stranieri presenti in Italia al 29 febbraio 2020 il rilascio di un permesso di soggiorno di un anno per ricerca occupazione, rinnovabile e convertibile alle condizioni di legge; oppure un permesso di soggiorno per lavoro qualora alla stessa data o alla data della domanda il richiedente abbia in corso un rapporto di lavoro.
Anche noi siamo d'accordo con questa proposta, ma come primo passo verso una regolarizzazione stabile e con pieni diritti di tutti i migranti presenti in Italia, che dev'essere l'obiettivo finale di tutti gli antirazzisti, gli antifascisti, i democratici e i progressisti italiani.
 
 

13 maggio 2020