Ennesima capriola della cofondatrice de “Il Manifesto” trotzkista
Castellina si pente della posizione critica assunta nel '70 sullo Statuto dei lavoratori
Più in generale si autocritica per aver sostenuto allora la rivoluzione

Ne faremmo volentieri a meno, ma quasi ogni giorno con le sue capriole politiche e i sempre più espliciti tradimenti Il Manifesto trotzkista confessa tutto il suo opportunismo e il suo ruolo di copertura a sinistra del regime neofascista e capitalista e persino della dittatura anticovid del premier Conte, inducendoci a segnalare ciò a quei tanti suoi lettori che ancora lo ritengono un presidio anticapitalista e uno strumento orientato all'emancipazione del proletariato e alla lotta per il socialismo in Italia e nel mondo.
Stavolta, sempre dalla penna della voltagabbana Luciana Castellina, esce una confessione eloquente in occasione del cinquantesimo anniversario dello Statuto dei Lavoratori che non può non essere commentato. Si tratta di un pentimento a tutto tondo delle riserve critiche da sinistra espresse da Il Manifesto nel 1970, che evidenziavano tutti i limiti e le insufficienti risposte date allora da quello Statuto non solo alle richieste generali ma anche alle rivendicazioni sindacali avanzate nelle fabbriche dagli operai più combattivi e determinati, sostenuti dalle centinaia di migliaia di giovani studenti rivoluzionari, insieme protagonisti di quello che noi marxisti-leninisti italiani abbiamo definito “il più grande avvenimento della storia della lotta di classe del dopoguerra in Italia”. Riserve che erano ben note e radicate nel movimento operaio da indurre il PCI revisionista di allora a astenersi nell'approvazione parlamentare. E il pentimento della Castellina non riguarda solo le questioni sindacali ma si estende ai “sogni” e “ambizioni” delle masse in lotta fino a trasformarsi in un velenoso attacco alla rivoluzione stessa, che secondo questa arcirevisionista meriterebbe una pesante autocritica.
 

Lo Statuto dei lavoratori
L'idea originale di una sorta di “Statuto dei Lavoratori” venne avanzata nel 1952 dall'allora segretario generale della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, ma la sua presentazione e approvazione avviene con il un contributo diretto dei ministri del Lavoro che si succedettero tra il '69 e il '70, il socialista Giacomo Brodolini e il democristiano Carlo Donat-Cattin sulla base di un testo elaborato dal socialista Gino Giugni, un tentativo di contrapporre il riformismo alla rivoluzione e così condizionare in qualche modo la Grande Rivolta del Sessantotto, senza la cui contestazione sociale esplosa a quel tempo la suddetta legge non avrebbe mai visto la luce.
Considerando il contesto sociale di quegli anni e la grande maturazione politica e di classe delle coscienze delle masse popolari in rivolta, la nascita dello Statuto fu senza alcun dubbio una manovra riformista di carattere democratico-borghese che lasciò sul campo a beneficio dell'arroganza padronale molti punti fondamentali che con il passare degli anni si sono rivelati per quello che erano, basti pensare al tetto dei 15 dipendenti, fino al monopolio della rappresentanza data ai "sindacati maggiormente rappresentativi".
Naturalmente gli effetti dello "Statuto dei lavoratori" furono molto importanti perché tendevano a contenere e ridurre lo strapotere padronale nelle fabbriche, incarnato nel "modello Fiat" di Valletta, dove per esempio, il licenziamento per motivi politici era una prassi largamente utilizzata e dove le libertà sindacali erano puramente formali. Non c'è dubbio che si trattò di una conquista parziale ma importante del movimento operaio e sindacale italiano ottenuta con la lotta di classe, imposta alle imprese con gli scioperi e le manifestazioni di piazza.
L'introduzione nelle fabbriche di un cospicuo sistema di garanzie e tutele per i lavoratori dipendenti del settore privato quali la libertà sindacale, la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto allo sciopero, la tutela contro i licenziamenti "illegittimi", il diritto di rappresentatività sindacale, il divieto esplicito di discriminazioni e il divieto di utilizzare videocamere per sorvegliare i lavoratori a loro insaputa, furono senz'altro conquiste importanti, tuttavia in quel momento le masse chiedevano di più ed erano pronte alla lotta per ottenere molto di più. E furono proprio le piazze che costrinsero il PCI revisionista, tirato per la giacchetta dai suoi stessi militanti, ad astenersi, così come furono le lotte a piegare le associazioni padronali con in testa Confindustria, che non videro l'ora di giungere a un accordo in base al quale si convinsero a concedere un dito per salvare il braccio; in altre parole, concedevano una serie di diritti e di tutele in cambio del mantenimento del potere politico e dei rapporti di lavoro padrone-sfruttato esistenti.
Come detto, le masse in quel momento volevano ben altro, e come nel secondo dopoguerra erano pronte a sovvertire l'ordine borghese per cambiare società fin dalle sue basi; progetto rivoluzionario che che solo il tradimento della direzione revisionista del PCI e l'assenza di un autentico partito marxista-leninista non fecero decollare. La mediazione che ne derivò fu nei fatti l'ennesimo compromesso che finiva per favorire e consolidare la borghesia al potere.
Se al serpente non schiacci la testa ma ti limiti a tagliarne la coda, è inevitabile che esso ti morda, e così è stato con la legge 300, mai digerita dal padronato, che via via grazie al collaborazionismo dei vertici sindacali confederali CISL e UIL e contando sul sempre più spinto riformismo di stampo socialdemocratico della CGIL e dei partiti di riferimento della “sinistra” parlamentare, di volta in volta hanno chiesto ai governi di operare modifiche sostanziali per indebolirlo e renderlo meno efficace.
Sono stati i governi Berlusconi, Monti e Renzi che, più di altri, hanno raccolto e messo in pratica le rivendicazioni padronali, a partire delle teorizzazioni del giuslavorista Marco Biagi e finendo per cancellare gran parte delle conquiste introdotte dalla legge 300, e comunque le più importanti come l'art.18 annullato dal Jobs Act che ha cancellato la tutela del posto di lavoro contro i licenziamenti “illegittimi”. Prima ancora, l'introduzione della legge 30 che ha precarizzato tutti i contratti di lavoro, ha rappresentato una via primaria che ha tolto nei fatti a milioni di lavoratori le tutele dello "Statuto”.
Nel 1970 le masse operaie e studentesche volevano schiacciare la testa alla borghesia, ed è per questo che la cosiddetta sinistra extraparlamentare, come i marxisti-leninisti italiani, oggi nel PMLI, e anche i trotzkisti de Il Manifesto – seppur con motivazioni non identiche – si opposero da sinistra allo “Statuto”, soffiando fra le masse il vento della rivoluzione.
La borghesia minacciata, allora, fu ben felice di farsi mordere la coda.
 

Il pentimento controrivoluzionario della Castellina
È evidente che lo spregevole attacco ai cosiddetti raggruppamenti extraparlamentari di allora che ritorna più volte nello scritto della Castellina è un chiaro attacco a chi sosteneva la rivoluzione e il socialismo e non accettavano supinamente il riformismo, il parlamentarismo e l'intangibilità delle istituzioni e della costituzione borghesi.
Non è una novità che l'obiettivo tradizionale trotzkisti è sempre quello di sabotare la rivoluzione socialista sia in tempi rivoluzionari minando l'unità del partito e della classe, sia in tempi in cui la rivoluzione batte il passo come questi, occupandosi più che altro di corrompere la coscienza di classe col riformismo, battendo sul messaggio secondo il quale un “mondo diverso è possibile”, gettandola così nelle braccia del capitalismo.
Un'opera truffaldina che si adegua alla avvenimenti esterni, e ogni occasione è buona: nel '68 i trotzkisti de Il Manifesto contrapponevano Mao a Stalin, che dipingevano come un despota, successivamente hanno vomitato il loro veleno contro Mao continuando a sostenere a parole quella stessa rivoluzione. Oggi si pentono addirittura di averla pensata, cogliendo al volo l'occasione che gli propone il cinquantesimo anniversario dello “Statuto dei Lavoratori” per rinnegarla.
Castellina dunque non esita a rimangiarsi tutto, partendo dall'affermazione di come “Oggi è in effetti difficile capire come l’intera nuova sinistra abbia potuto esprimere un simile giudizio negativo sullo Statuto dei lavoratori. Fu un errore – su questo non credo ci sia più nessuno che abbia dubbi – non considerare quella legge una importante conquista.” La sua lapidaria e opportunistica semplificazione guarda allo “Statuto” come a una conquista assoluta senza considerare il contesto sociale e politico di quegli anni, un po' come esalta la Costituzione borghese del '48 e i suoi principi assoluti, senza considerare che quel compromesso favorì soprattutto la borghesia al potere ai danni del proletariato e della lotta per il socialismo. Ed è singolare che ne faccia di ambedue un feticcio da venerare proprio oggi che sono ridotti a due vuote carcasse ripulite dalla borghesia e da quel riformismo che è divenuto da tempo la “casa prediletta” del Il Manifesto .
“Noi tutti, e con noi una parte dello stesso sindacato, consideravamo i rapporti di forza conquistati dagli operai nelle fabbriche ben più favorevoli di quelli esistenti a livello politico e temevamo che la linea del Pci, che puntava sulle riforme, fosse un modo per ridurre la radicalità dello scontro, spostando il confitto sull’infido e incontrollabile terreno della mediazione parlamentare.” È giusto, ma andiamo avanti.
“Potere Operaio, e parte di Lotta Continua, spinsero il rifiuto del terreno istituzionale fino a teorizzare la possibilità di mettere in ginocchio attraverso la lotta di fabbrica il potere capitalista. E ritennero che le riforme avrebbero addirittura rafforzato il capitalismo, in quanto avrebbero razionalizzato il sistema.” In realtà non erano semplicemente quelle due organizzazioni opportuniste e ultrasinistre a pensarlo ma gli operai più coscienti e avanzati, e noi marxisti-leninisti insieme a loro, come gli avvenimenti successivi avrebbero ampiamente dimostrato. Invece di analizzare nella pratica questi 50 anni di storia che contengono in sé tutte le risposte che si cercano, la Castellina confessa candidamente: “questo (lo Statuto) garantì la lunga durata del ’68 italiano, che non aveva, né poteva avere, un obiettivo rivoluzionario, un sovvertimento che avrebbe presupposto ben altro processo storico”; arriva cioè a confessare il suo antico e incallito riformismo. Anche quando allora strizzava l'occhio e giocava alla rivoluzione, aveva un solo insopprimibile obiettivo riformista.
Poco dopo si smaschera definitivamente con queste parole: “Rileggendo Il Manifesto rivista (del 28 aprile del 1971), si trova puntualmente il richiamo alla necessità, a un certo punto, di trovare uno sbocco politico, e cioè un momento di mediazione che consolidasse il potere conquistato in fabbrica che avrebbe altrimenti rischiato di non tenere.” Ecco qual è sempre stato, ieri come oggi, l'obiettivo dei trotzkisti del Manifesto: corrompere e riportare nell'alveo del parlamentarismo borghese il proletariato e i rivoluzionari che lo combattevano in nome della rivoluzione e del socialismo.
Non ancora soddisfatta della portata controrivoluzionaria dell'articolo, prosegue con l'apprezzamento per la “linea di quasi tutta la nuova sinistra” che dal 1976 si riunì nel ultra parlamentarista Democrazia Proletaria, e che aveva capito “quanto la forza accumulata dalla classe operaia con le lotte innescate con l’autunno caldo del 1969 poteva pesare, e abbia in effetti pesato, per strappare riforme essenziali: il sistema sanitario nazionale, le pensioni,i diritti civili. E quanto importante sia stato riuscire ad arrivare alle mediazioni che le hanno rese possibili”, rivendicando nei fatti parziali progressi sociali oggi nuovamente smantellati in larga parte o sotto nuovo attacco, pena il mantenimento del potere politico nelle mani della borghesia ed il seppellimento della lotta di classe.
Ancora a scanso di equivoci, conclude mettendo le mani avanti e ricorda che non tutti ne Il Manifesto erano allora “rivoluzionari” poiché “già sul numero del giugno ’69 del Manifesto rivista , del resto, Lucio Magri aveva sottolineato l’urgenza di trovare uno sbocco politico a una radicalizzazione delle lotte che altrimenti non avrebbe potuto stabilizzarsi. È quello che da allora abbiamo cercato di fare”.
 

La questione centrale del potere politico
Insomma, che lo Statuto dei lavoratori sia stato una conquista importante non c'è dubbio, ma non c'è dubbio nemmeno sul fatto che esso sia stato il frutto di un compromesso fra riformismo e quella rivoluzione che era nelle corde delle masse più avanzate; ciò che è accaduto in questi 50 anni e le condizioni nelle quali è ripiombata la classe operaia parlano chiaro e rimettono al centro la madre di tutte le questioni che rimane quella del potere politico.
Una questione fondamentale anche nel 1970, risolta a favore della borghesia che mantenne il potere politico con il quale ha recuperato tutte le concessioni fatte per scongiurare la rivoluzione; il merito della conquista dello Statuto dunque non è dei riformisti ai quali Castellina prostra le proprie miserevoli scuse, ma delle lotte operaie e studentesche, di quel grande movimento rivoluzionario tradito che noi invece consideriamo ancora esemplare e attuale e delle masse popolari se solo esse non dipendessero dalla propaganda politica di regime, inclusa quella de Il Manifesto che quotidianamente le imbriglia nello sterile riformismo, coprendo da “sinistra” il regime neofascista e capitalista, la dittatura del premier Conte e più in generale le istituzioni al servizio del capitalismo.
Attraverso le parole del compagno Giovanni Scuderi, noi marxisti-leninisti italiani, oggi come allora, riaffermiamo quel programma che contraddistingue gli autentici comunisti e si trova scritto nel “Manifesto del Partito Comunista” di Marx ed Engels: “La lotta di classe non può non continuare, pensando all’Italia futura. Quella che ha in mente il governo sarà peggiore di quella attuale. Persisterà il dominio della borghesia e del capitalismo, si aggraveranno le disuguaglianze sociali e territoriali, le condizioni di vita e di lavoro delle masse, la disoccupazione e la povertà, ed è probabile che diventeranno permanenti, con qualche aggiustamento, l’isolamento sociale, il controllo sociale, il telelavoro, l’insegnamento a distanza, il restringimento delle libertà e della democrazia borghese, l’emarginazione, la militarizzazione del Paese, del parlamento, e il nazionalismo patriottardo e fascista. In sostanza verrà rafforzato il regime capitalista neofascista.
L’Italia futura che abbiamo in mente noi marxisti-leninisti vede invece il dominio del proletariato e del socialismo, la cancellazione di ogni tipo di disuguaglianza e l’inizio della soppressione delle classi che avverrà nel comunismo, la fine della disoccupazione e della povertà, il lavoro per tutti, il benessere del popolo, piena libertà e democrazia per il popolo. In sostanza una nuova economia e un nuovo Stato modellati secondo gli interessi del proletariato e delle masse lavoratrici e in grado di affrontare qualsiasi emergenza, a partire da quella sanitaria.”

27 maggio 2020