Nel discorso di investitura alla presidenza di Confindustria
Bonomi pressa da destra il governo e si propone di mettere all'angolo i sindacati

Si è insediato ufficialmente alla presidenza di Confindustria Carlo Bonomi, che sostituirà come previsto Vincenzo Boccia per il quadriennio 2020-2024. A causa del coronavirus non c'è stata la solita cerimonia pubblica ma il tutto è avvenuto a porte chiuse alla presenza di una delegazione mentre gli altri membri votanti dell'associazione erano collegati via web. Bonomi, già designato dal 16 aprile, è stato praticamente eletto all'unanimità: tra gli 818 votanti nessun contrario e un soltanto un astenuto.
Nato in provincia di Cremona, proprietario di alcune aziende del settore biomedicale, nel 2017 è diventato presidente di Assolombarda, la maggiore associazione territoriale di Confindustria. Descritto da molti come un “falco” ha tenuto fede a questa fama proprio nel periodo di pandemia da Covid-19 quando, assieme al presidente degli industriali lombardi Bonometti, ha tenacemente sostenuto l'apertura delle aziende nonostante questa sia stata fin dall'inizio la regione italiana di gran lunga più colpita dal virus. Mentre dichiaravano che “le fabbriche sono probabilmente i posti più sicuri di tutti” nelle province di Bergamo e Brescia morti e contagiati si contavano a migliaia anche sui posti di lavoro, ma in nome del profitto capitalistico hanno sempre fatto pressione sul governo nazionale e sulle amministrazioni locali per mandare avanti la produzione.
Nel suo primo intervento da presidente Bonomi ha fatto capire che la maggiore associazione padronale italiana non intende affidarsi a qualche partito di riferimento (come avvenuto in passato con la DC o Forza Italia), ma essere protagonista direttamente per condizionare da destra il governo in carica e quelli futuri. Dopo le frasi di circostanza e aver invocato “una grande coesione nazionale” è arrivato al sodo, alla difficile crisi economica e alle stime che indicano un calo del Prodotto interno lordo (PIL) del nostro Paese calcolato tra il 6 e il 13%, recuperabile in gran parte, secondo lui, grazie alla vitalità, all'ingegno e alla perseveranza degli industriali italiani, naturalmente se verranno accettate tutte le loro condizioni.
La prima viene dettata al governo, ed è quella di avere a propria disposizione una macchina statale “efficiente”: meno burocrazia, meno leggi e meno controlli. Nell'immediato invece del rinvio chiede l'annullamento delle tasse, proprio com’è avvenuto con l'Irap, la tassa sulle attività produttive che in gran parte finanzia la sanità a cui il governo Conte ha rinunciato cedendo alle pressioni degli industriali. Poi, insoddisfatto di quelle che chiama “riformicchie”, indica quali sono le sue priorità: “un fisco che sia di crescita, non ostacolo al suo procedere”, riferendosi a una flat tax o a una diminuzione delle tasse per le imprese e per i redditi più alti, e a un “welfare concentrato davvero su chi ha meno”, pensando forse a un reddito di base o di cittadinanza per i più poveri lasciando tutti gli altri senza sostegno. Insomma, lo stato, le istituzioni e ovviamente i soldi della collettività devono essere al servizio delle aziende.
Continuando su questa falsariga e guardando avanti Bonomi ha rilanciato il Piano strategico 2030-2050, che sarà preparato da Confindustria prima delle legge di bilancio, in cui si indicherà dove concentrare le risorse delle imprese. Ha chiesto uno sforzo di “dedizione assoluta” alle imprese, nella convinzione che reddito e lavoro possono darlo solo le aziende. Intanto a più breve scadenza chiede “la ripresa e il potenziamento di Industria 4.0 e l'affiancamento di analoghi incentivi per Fintech 4.0”, cioè sgravi e aiuti pubblici per il rinnovamento tecnologico delle imprese private industriali e finanziarie. I padroni pretendono di avere mano libera su tutto, al punto di minacciare governo e sindacati attraverso un'intervista alla compiacente Repubblica del 31 maggio: “Il governo ha bloccato i licenziamenti fino ad agosto. Ma il lavoro, i posti di lavoro, non si gestiscono e non si creano per decreto. ...Bisogna smetterla di guardare esclusivamente al dividendo elettorale”.
Questa elargizione di fondi pubblici, generosa e di manica larga quando si tratta dei capitalisti, diventa immediatamente povera e avara quando si tratta di finanziare l servizi come i trasporti e l'edilizia pubblici, la sanità, la previdenza, gli ammortizzatori sociali. In questo caso Bonomi cambia copione e chiede al governo che la prossima legge di bilancio preveda “un credibile programma di rientro strutturale del maxi debito pubblico italiano a cui vincolare il sostegno europeo per continuare a ricevere gli ingenti investimenti di cui l'Italia avrà bisogno per anni”. In sintesi i soldi che ci presterà la UE dovranno essere destinati alle imprese, mentre lavoratori e masse popolari dovranno tirare la cinghia per pagare il debito.
Non poteva mancare l'attacco al contratto nazionale di lavoro (CCNL). Bonomi, tra i cambiamenti ritenuti fondamentali dagli industriali, elenca di nuovo la necessità di “nuove forme organizzative e contrattuali”. Nel suo intervento d'insediamento non approfondisce il tema, ma conosciamo benissimo quale sono le intenzioni sue e di Confindustria rispetto al CCNL. Posizioni ribadite domenica 31 maggio nella intervista al quotidiano filo padronale la Repubblica dove a un certo punto il neo presidente invoca una “debole cornice” da applicare alla contrattazione nazionale, mentre tutto il resto deve essere riservato a quella aziendale, naturalmente con l'intento di soddisfare esclusivamente le esigenze padronali, dove qualsiasi aumento salariale è legato all'aumento della produttività e dei profitti delle imprese. Giacché a suo dire c'è l'imperativo categorico dell'aumento della produttività, ossia dello sfruttamento della forza-lavoro: “Bisogna puntare sulla crescita: sono venticinque anni che il nostro Paese perde produttività”.
Gli industriali, bontà loro, sono aperti a un sindacato collaborativo, ma non a quello conflittuale per cui Bonomi avverte: “Landini deve capire che il futuro è altro. Bisogna puntare sulla produttività ancor prima di parlare di aumenti retributivi”. Purtroppo per i lavoratori crediamo che le preoccupazioni di Confindustria siano infondate perché la Cgil si sta muovendo proprio sul terreno del collaborazionismo e del corporativismo richiesti da Bonomi.
Allo stesso modo ci sembrano infondate le preoccupazioni padronali rispetto a un presunto pregiudizio anti imprese, perlomeno da parte del governo e dei partiti parlamentari che fanno a gara, da LeU a Fratelli d'Italia, passando per PD, renziani. berlusconiani e Lega, a chi chiede più risorse e meno tasse per le aziende. Probabilmente Bonomi si riferiva all'atteggiamento delle masse popolari verso le imprese e le privatizzazioni, questo sì fattosi molto più negativo di fronte all'evidenza della supremazia del profitto e dell'interesse privato di fronte a quello collettivo, che ha costretto i lavoratori a produrre nonostante il pericolo di contagio e il personale sanitario a sacrifici immani per sopperire allo smantellamento della sanità pubblica avvenuto negli ultimi decenni.
No a 10, 100, 1000 Alitalia è lo slogan di Confindustria per esorcizzare l'intervento pubblico. Non sia mai che lo Stato ritorni a gestire parzialmente l'economia, mettendosi in testa di salvaguardare almeno in parte l'occupazione e impedire l'esternalizzazione e la delocalizzazione delle maggiori aziende italiane. I soldi pubblici devono andare alle imprese ma le decisioni e i guadagni devono rimanere nelle mani del privati, secondo il sempre valido motto caro agli Agnelli, ai De Benedetti a tutti i capitalisti italiani e fatto proprio anche dalla “sinistra” borghese “privatizzare gli utili e socializzare i profitti”.
Di fronte al presidente di una Confindustria così rapace e arrogante, che come un bulldozer procede nel tentativo di travolgere CCNL, sindacati, intervento statale in economia e nel sociale, come possono Landini e la Cgil parlare ancora di “unità d'intenti” e “sforzo comune” e chiedere a tutti di “fare la propria parte”?
Non siamo affatto tutti sulla stessa barca, occorre far leva sulla lotta di classe e sviluppare una forte mobilitazione dei lavoratori, per respingere l'attacco ai diritti sociali e rispedire al mittente i tentativi padronali di far pagare la crisi economica capitalistica innescata dal coronavirus ai lavoratori e alle masse popolari cancellando quei residui diritti economici e sindacali e attraverso migliaia di licenziamenti e salari e pensioni da fame per salvaguardare i profitti del capitale.

3 giugno 2020