Si sviluppa la guerra fredda tra l'imperialismo americano e il socialimperialismo cinese
Duro scontro tra la Cina e gli Usa sul coronavirus e su Hong Kong

 
In una videoconferenza stampa del 24 maggio a margine della terza sessione del 13° Congresso nazionale del popolo, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi denunciava che “alcune forze politiche negli Stati Uniti stanno prendendo in ostaggio le relazioni sino-americane e cercano di spingere i due Paesi sull'orlo di una cosiddetta 'nuova guerra fredda'”, addebitando esclusivamente ai rivali Usa la responsabilità di aver alzato il livello dello scontro verso la rottura delle relazioni diplomatiche fra i due paesi. Nel frattempo l'Assemblea del popolo discuteva una legge, approvata quattro giorni dopo, sulla sicurezza nazionale di Hong Kong, per estendere i poteri di repressione della polizia cinese contro movimenti secessionisti, azioni sovversive alimentati da ingerenze straniere e il terrorismo sull'arcipelago, le etichette di comodo appiccicate a un largo movimento di protesta tornato nelle piazze contro il tentativo di accelerare l'annessione alla Cina prevista per il 2047. Il tema della rivolta di Hong Kong era di nuovo usato strumentalmente da Trump e finiva a fianco a quello del coronavirus per alimentare la oramai palese guerra fredda tra l'imperialismo americano e il socialimperialismo cinese. In gioco a breve termine la rielezione di Trump alla guida della riscossa Usa mentre il premio finale è la leadership imperialista del mondo.
La protesta di piazza a Hong Kong riprendeva dopo la “pausa” coronavirus quando durante i lavori del Congresso Nazionale del Popolo, iniziati il 22 maggio, il governo cinese presentava una proposta di legge sulla sicurezza nazionale il cui obiettivo reale era la legalizzazione della repressione del movimento che si oppone all'accelerazione dell'annessione della zona autonoma alla Cina. L’accordo tra Pechino e i colonialisti inglesi del 1997 prevede 50 anni di semi-autonomia per Hong Kong in base al principio “un Paese due sistemi” e scade nel 2047. Una autonomia che i socialimperislisti cinesi provano a cancellare anzitempo come hanno fatto col tentativo fallito del marzo dello scorso anno con la presentazione delle legge sulla modifica delle estradizioni preparata dal governo locale e ritirata dopo la forte reazione della piazza. Una pizza che Pechino pensa di tenere meglio sotto controllo con legge sulla sicurezza nazionale.
Intanto la protesta è ripartita, con pesanti scontri e centinaia di manifestanti arrestati in particolare il 24 maggio, contro il varo della legge e sotto la spinta di una minoranza sempre più consistente di manifestanti che chiede l'indipendenza.
Se il governo di Pechino accelera i tempi sull'annessione di Hong Kong, la regione autonoma non potrà mantenere le condizioni speciali nei rapporti economici e finanziari con gli Usa, compresa l'esenzione di dazi e embarghi decretati dall'amministrazione americana nella guerra commerciale tra i due paesi, avvisavano dalla Casa Bianca. E Trump che già aveva aperto lo scontro sul coronavirus, di cui ci siamo occuati sul numero 17 de Il Bolscevico , si ergeva di nuovo a paladino dei diritti democratici dei manifestanti di Hong Kong, un motivo che usa strumentalmente per attaccare la rivale imperialista tanto che contemporaneamente in casa si comportava come Xi e mandava la guardia nazionale contro gli antirazzisti che protestavano per gli assassini della polizia.
Il 27 maggio il segretario di Stato Usa Mike Pompeo, in un intervento al Congresso americano, sosteneva che l'autonomia di Hong Kong non esisteva più. Una successiva dichiarazione congiunta dei ministeri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Australia denunciava la violazione “diretta degli obblighi internazionali” da parte della Cina e apriva la strada alle sanzioni. Cancellare i privilegi e trattamenti speciali per Hong Kong potrebbe dire la fine del suo ruolo di piazza finanziaria e sede di multinazionali, quel ruolo che serviva nel 1997 alla Cina capitalista di Deng Xiaoping ma che a distanza di un quarto di secolo è in parte ridimensionato in favore dei centri cinesi di Shanghai e Shenzhen. L'atto politico e la rappresaglia economica minacciata da Washington portavano comunque a due passi in avanti nella guerra fredda: il 31 maggio Trump spostava il G7 che doveva tenere a fine giugno alla Casa Bianca al prossimo settembre con un invito alla partecipazione esteso a Corea del Sud, Australia e India per compattare sotto la guida degli Usa un fronte anticinese. Trump invitava anche la Russia di Putin, sospesa dall'allora G8 nel 2014 per l'annessione della Crimea, per tentare di incrinare l'asse Pechino-Mosca, l'asse imperialista concorrente.
Solo due giorni prima, il 29 maggio, il premier cinese Li Keqiang aveva chiuso i lavori dell’Assemblea nazionale con un discorso che sembrava voler abbassare i toni, “se la Cina e gli Usa restano contrapposti ciò danneggerà entrambe le parti e il mondo. Abbiamo sempre respinto la mentalità della Guerra Fredda” e invitava la Casa Bianca a “usare la nostra saggezza per continuare a espandere gli interessi comuni e gestire adeguatamente le differenze”. Fra le altre offriva la disponibilità cinese a dare il via “a una indagine indipendente sull’origine del virus”, chiesta dagli Usa e molti altri paesi.
Alle offerte di Li Keqiang, Trump rispondeva chiedendo alla sua amministrazione “di avviare il processo per porre fine alle esenzioni che hanno permesso a Hong Kong di avere un trattamento diverso e speciale”, ma senza fissare una scadenza, prometteva sanzioni contro i funzionari cinesi e di Hong Kong e infine la rottura dei
rapporti con l'Oms “perche' controllata da Pechino”.
Trump prometteva ritorsioni, il governo cinese le metteva in pratica dando ordine alle principali aziende agricole statali di sospendere gli acquisti di alcuni prodotti americani, tra cui soia e carne di maiale. Una mossa che mandava al macero l'intesa del gennaio scorso che avrebbe dovuto fermare la guerra commerciale scatenta da Trump.
Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi nella videoconferenza del 24 maggio aveva più volte richiamato alla cooperazione e alla collaborazione tra “il più grande paese in via di sviluppo e il più grande paese sviluppato, la Cina e gli Stati Uniti” con ruoli e responsabilità ora da pari a pari. Altro che l'America first sbandierata da Trump. Giurava che la “Cina non ha intenzione di sostituire gli Stati Uniti”, “non cercherà mai l'egemonia” e ammoniva che “è tempo che gli Stati Uniti abbandonino il loro pio desiderio di cambiare la Cina” tanto da spingere le relazioni bilaterali verso una guerra fredda, un “pericoloso tentativo di rovesciare la ruota della storia” che tra le altre “smorzerà le prospettive di sviluppo dell'America e metterà in pericolo la stabilità e la prosperità del mondo”. Se Trump vuole lo scontro, avvertiva il ministro, la Cina non lo teme e alludeva al fatto che a rimetterci sarà la rivale imperialista.
Siamo oramai entrati, per ammissione stessa dei due rivali, in piena Guerra Fredda, una guerra combattuta su sempre più fronti e con una escalation di scontri politici, economici e militari che sono lo specchio dell'attuale scontro la le due superpotenze imperialiste per il dominio del mondo mentre aumentano i pericoli di un conflitto armato e di tipo militare.

3 giugno 2020