Firmata dal nuovo imperatore cinese Xi Jinping
La legge sulla sicurezza nazionale pone Hong Kong sotto la giurisdizione del socialimperialismo cinese
La popolazione dell'ex colonia inglese scende in piazza per protesta

 
Il presidente cinese Xi Jinping firmava il 30 giugno la legge sulla sicurezza nazionale appena approvata all'unanimità dai 162 membri del Comitato permanente della 13ma Assemblea nazionale del popolo, il parlamento di Pechino,
per mettere Hong Kong sotto la giurisdizione cinese, in anticipo sui tempi previsti dall'accordo del 1997 con Londra sulla restituzione alla madrepatria della ex colonia inglese. La legge prevede i reati di separatismo, sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere che minacciano la sicurezza nazionale, punibili anche se commessi all'estero, e condanne oltre i 10 anni di galera; la polizia potrà perquisire senza un mandato e chiedere la cancellazione di contenuti pubblicati online o su carta.
La legge entrava in vigore l'1 luglio, per l'appunto il 23esimo anniversario dell'accordo che secondo il principio di “un paese, due sistemi” avrebbe dovuto garantire il mantenimento della legislazione vigente e una autonomia all'importante centro finanziario internazionale di Hong Kong fino al 2047. Un'attesa troppo lunga per il socialimperialismo cinese e le sue ambizioni egemoniche mondiali, tanto più che la ricorrenza era diventata negli ultimi anni l'appuntamento di lotta di un movimento sempre più largo che chiedeva maggiore democrazia e autonomia, alcune organizzazioni anche l'indipendenza; una spina nel fianco per il nuovo imperatore cinese Xi che una volta preso atto del fallimento dell'intervento della polizia locale della pur fidata governatrice Carrie Lam per soffocare il movimento ha messo mano alla modifica dello status di Hong Kong per costruirsi un appiglio legale e dirigere la repressione con un ufficio locale responsabile della Sicurezza nazionale e dipendente direttamente dal governo centrale. Anche se tale operazione potrebbe bruciare definitivamente la carta diplomatica del meccanismo “un paese, due sistemi” che se funzionava a Hong Kong poteva essere usata da Pechino anche per affrontare la questione del recupero di Taipei.
La costituzione di Hong Kong, la Basic Law, prevede una legge sulla sicurezza e già nel 2003 il governo locale aveva cercato di far passare una legge simile a quella attuale ma era stato fermato dalla protesta popolare e costretto a ritirare la proposta. Così come il movimento democratico nato oltre un anno fa era riuscito a far ritirare alla governatrice Lam una legge che favoriva l’estradizione di possibili sospettati in Cina, denunciata anzitutto come un grimaldello per far saltare la legislazione attuale e accelerare il processo di integrazione. Come poi si è verificato. Dalle proteste del 2003, dagli oltre 500 mila manifestanti scesi in piazza l'1 luglio per protestare contro la legge sulla sicurezza pubblica del governo locale, era nato l'appuntamento in quel giorno delle marce per la democrazia. Un appuntamento mantenuto anche lo scorso 1 luglio nonostante le diverse migliaia di poliziotti schierati in città per impedire le manifestazioni.
Migliaia di manifestanti si sono ritrovati nel pomeriggio lungo i viali del centro della città e a Times Square per protestare contro la nuova legge e ribadire le richieste di maggiore democrazia e di un’inchiesta indipendente sulle violenze della polizia; per disperdere la protesta la polizia caricava i manifestanti e usava cannoni ad acqua con materiale urticante. Assieme ai cartelli che avvertivano del divieto di adunanza la polizia mostrava cartelli esplicativi delle norme fasciste della nuova legge con la scritta: “Questo è un avvertimento della polizia. State esponendo bandiere o striscioni, gridando slogan o vi comportate con l’intenzione di secessione o sovversione, che costituisce un reato per la legge nazionale sulla sicurezza di Hong Kong. Potete essere arrestati e processati”. E quasi 400 manifestati sono stati arrestati, alcune decine per aver violato la legge, ossia per aver gridato slogan del tipo “Hong Kong libera, rivoluzione del nostro tempo” o in favore dell’indipendenza. Nei giorni successivi altri manifestanti tornavano in piazza con cartelli bianchi per denunciare la censura o canticchiando la prima strofa dell'inno nazionale della Repubblica popolare cinese che recita “sollevatevi, se non volete essere schiavi” mentre in alcuni negozi venivano esposti dei manifesti della Cina socialista con slogan del tipo “La rivoluzione non è un crimine, ribellarsi è giusto”.
Il governo di Pechino e l’esecutivo di Hong Kong si sono sbracciati per sostenere che la nuova legge sulla sicurezza non cancella le libertà garantite dalla Costituzione ma l'arresto di manifestanti che saranno accusati di reati di opinione o il ritiro dei libri che sostengono la democrazia dalle librerie con una ordinanza del 6 luglio dimostrano il contrario.
L'applicazione della legge che mira a soffocare il movimento democratico a Hong Kong è stata condannata da molti governi borghesi che sventolano strumentalmente la bandiera della democrazia e della libertà negli altri paesi ma si comportano nella stesso modo di Pechino rispetto le lotte delle masse popolari dei loro paesi; il premier britannico Boris Johnson definiva la nuova legge cinese “una chiara e seria rottura” della dichiarazione comune firmata nel 1985 fra Gran Bretagna e Cina sul futuro di Hong Kong, ma non andava oltre l'offerta della cittadinanza britannica ai 3 milioni di residenti di Hong Kong.
L'attacco alla concorrente imperialista cinese su tutti i fronti è oramai una costante della campagna elettorale di Trump che alla Camera ha raccolto anche l'adesione degli avversari democratici per il varo all'unanimità di una legge che prevede sanzioni contro singoli e organizzazioni commerciali e finanziarie che hanno legami con rappresentanti governativi cinesi. Un atto quasi dimostrativo che non tocca il meccanismo del rapporto commerciale privilegiato, soprattutto riguardo gli importanti flussi finanziari, concesso dagli Usa a Hong Kong che pure Trump aveva minacciato di eliminare.
Il socialimperialismo cinese non tremerà certo per le minacce espresse dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen che annunciava “serie conseguenze. Staremo in contatto con i nostri partner e faremo molta attenzione a come rispondere”. Attenzione soprattutto a non compromettere gli affari Ue-Cina.
Non condannavano la mossa di Pechino una cinquantina di paesi durante la sessione della Commissione Onu per i diritti umani, tenutasi a Ginevra, perché, come dichiarava il rappresentante cubano, “noi crediamo che ogni Paese abbia il diritto di salvaguardare la sua sicurezza nazionale attraverso una legge e apprezziamo i passi compiuti in questo senso”, e ribadiva che “la non interferenza negli affari interni di Paesi sovrani è un principio essenziale iscritto nella Carta delle Nazioni Unite”. Certo ma il rispetto della sovranità nazionale è una cosa che non cancella la possibilità di denunciare una inaccettabile repressione come quella a Hong Kong, attuata dalla Cina socialimperialista del nuovo imperatore Xi, osteggiata e combattuta dalla stragrande maggioranza della popolazione di Hong Kong..

8 luglio 2020