Autostrade va nazionalizzata
Conte e M5S cedono sulla revoca della concessione. I Benetton per ora rimangono nella società

“Nel Cdm di ieri è stata scritta una pagina inedita della nostra storia. L’interesse pubblico ha avuto il sopravvento rispetto a un grumo ben consolidato di interessi privati. È successo qualcosa di straordinario che dovrebbe essere semplicemente ordinario. Ha vinto lo Stato. Hanno vinto i cittadini. Avremo tariffe più eque e trasparenti, più efficienza, più controlli, più sicurezza. Ha vinto, infine, il rispetto della memoria delle 43 vittime del crollo del Ponte Morandi”.
Così il premier Giuseppe Conte ha annunciato su Facebook l'accordo su Autostrade per l'Italia (Aspi) tra il governo e la famiglia Benetton che la controlla per l'88% tramite Atlantia. Accordo approvato nel defatigante Consiglio dei ministri notturno del 14 luglio dopo giorni e giorni di discussioni e polemiche che hanno rischiato finanche di mandare in pezzi la maggioranza, con il M5S e LeU favorevoli ad estromettere i Benetton dalla gestione di Autostrade, i renziani decisamente contrari e il PD diviso al suo interno. E con Conte, la ministra delle Infrastrutture De Micheli e il ministro dell'Economia Gualtieri, protesi a trovare una soluzione di compromesso che salvasse capra e cavoli: evitare a tutti i costi la revoca immediata della concessione, e nello stesso tempo dare ad Aspi un nuovo assetto societario a maggioranza pubblica; così da potersi presentare all'inaugurazione del nuovo ponte di Genova, ad agosto, davanti ai familiari delle 43 vittime del crollo del Morandi, evitando la vergogna di doverlo riconsegnare nelle mani dei Benetton.
A sentire il commento trionfalistico di Conte questo risultato sarebbe stato conseguito in pieno, ma è davvero così? Per capirlo occorre fare un passo indietro, ai giorni immediatamente precedenti il Cdm del 14 che ha approvato l'accordo, quando a un certo punto, nonostante che le divergenze tra le proposte di Atlantia e le richieste del governo non fossero insuperabili e un compromesso sembrasse all'orizzonte, Conte ha improvvisamente alzato l'asticella lanciando un ultimatum ai Benetton: o accettavano tutte le richieste del governo in maniera “piena e incondizionata”, o scattava la revoca, come insisteva a chiedere il M5S.
 

L'ultimatum di Conte, le ambiguità del PD e le manovre di Di Maio
In un'intervista a Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano del 13 luglio il premier, definendo “insoddisfacente per non dire imbarazzante” la proposta di Atlantia, così spiegava il suo ultimatum: mancava “l'impegno a manlevare la parte pubblica per tutte le richieste risarcitorie collegate al crollo del ponte Morandi” (il governo chiedeva cioè che Aspi sollevasse da ogni responsabilità i funzionari pubblici per i mancati controlli sui lavori di manutenzione); i 3,4 miliardi offerti come risarcimento ai parenti delle vittime e alla Liguria e come contributo alla ricostruzione del ponte, erano stati in buona parte imputati “a interventi di manutenzione che comunque il concessionario ha già l'obbligo di realizzare”; il nuovo piano tariffario ridotto accettato da Aspi era “anche questo un adeguamento dovuto”; e quanto alla disponibilità di Atlantia a scendere di quote nella gestione di Aspi per far entrare una società pubblica come Cassa depositi e prestiti (Cdp, di proprietà del ministero del Tesoro, che gestisce l'intero risparmio postale), il premier così la giudicava: “Lo Stato, se una parte della quota di Atlantia la rilevasse Cassa depositi e prestiti o un’altra società pubblica, entrerebbe in società con i Benetton. Appunto, ci ritroveremmo “consoci” dei Benetton, i quali conserverebbero le prerogative dei soci e continuerebbero a partecipare alla ripartizione degli utili. Le pare normale?”.
Queste dichiarazioni ultimative provocavano un tonfo in Borsa del 15% delle quotazioni di Aspi, dopo una settimana di altri ribassi consistenti. Probabilmente il rialzo della posta da parte di Conte non era dettato solo dalla classica tattica contrattuale e dalla necessità di mettere all'angolo i renziani di IV e la corrente filo-Benetton interna al PD (De Micheli, Guerini e Delrio, tant'è vero che Zingaretti ha appoggiato l'ultimatum di Conte con un'apposita dichiarazione). Forse Conte ha voluto cavalcare lo slogan della revoca anche per ribadire la sua presa sul M5S, in un momento in cui Di Maio intensificava le manovre politiche alle sue spalle, incontrando segretamente Draghi e Gianni Letta, e si incontrava perfino con l'amministratore delegato di Aspi e plenipotenziario della famiglia Benetton, Gianni Mion: quasi come a svolgere una trattativa personale parallela a quella del premier. Una mossa, quella del ministro degli Esteri, forse dettata anche dalle “spiegazioni” chieste all'ambasciatore italiano a Pechino da parte del fondo governativo cinese Silkroad, che detiene il 5% di Aspi, allarmato dalla brutta piega presa dagli eventi?
 

Un accordo tutt'altro che sfavorevole ai Benetton
Sta di fatto che a distanza di poco più di un giorno Conte ha finito per accettare un compromesso molto simile a quello che nell'intervista a Il Fatto aveva sostanzialmente definito irricevibile, mostrando che l'ultimatum era più che altro un bluff. Con visibile disappunto di Di Maio, non per l'accordo in sé, già da lui dato per scontato, ma per aver alzato troppo l'aspettativa sulla revoca, rendendo quindi più difficile giustificare la marcia indietro di fronte alla base del M5S. Non a caso, nel suo commento sul “Blog delle stelle”, il ministro degli Esteri ha evitato i toni trionfalistici di Conte, invitando a tenere gli occhi aperti perché “questo risultato (estromettere i Benetton, ndr) lo raggiungeremo tramite un'operazione di mercato e non con la revoca”.
Che cosa prevede allora questo accordo? Intanto non c'è la manleva per le responsabilità dello Stato nei mancati controlli sulla manutenzione del Morandi che Conte rivendicava come irrinunciabile, e ci sono invece pari pari i 3,4 miliardi tra indennizzi e interventi straordinari che il premier giudicava insufficienti (che oltretutto saranno pagati in parte anche dai nuovi soci). Ma c'è anche e soprattutto la compartecipazione societaria tra lo Stato e i Benetton da lui tanto aborrita a parole, perché i magnati trevigiani continueranno a far parte dell'azionariato di Aspi, sia pure in misura ridotta, almeno per un altro anno ancora.
L'accordo prevede infatti una complicata procedura in più tappe che dovrebbe portare nel 2021 i Benetton ad avere non più dell'11% di Aspi e a non essere quindi rappresentati nel Consiglio di amministrazione. La prima tappa, che dovrebbe concludersi entro settembre, consiste in un aumento di capitale varato da Aspi e riservato a Cdp, che con circa 3-4 miliardi assumerà il 33% della società, ciò che diluirà la quota di Atlantia al 59%. Quest’ultima poi cederà un altro 22% a “investitori istituzionali graditi a Cdp” (casse previdenziali, Poste vita, ma si sono fatti vivi anche fondi americani e australiani) scendendo al 37%, mentre gli altri soci (i cinesi di Silkroad e i tedeschi di Allianz), scenderanno a circa l'8%. La seconda fase, quella della separazione di Aspi da Atlantia e la sua quotazione in Borsa come “public company”, richiederà forse un anno: il 37% in mano ad Atlantia sarà distribuito ai suoi soci, portando Sintonia, la finanziaria dei Benetton che oggi col 30% controlla Atlantia, ad avere circa l’11% di Autostrade e nessun consigliere in Cda. Aspi sarà poi quotata in Borsa, permettendo così a tutti i soci di vendere le loro quote.
 

Un bancomat svuotato per oltre vent'anni
Quindi, non solo non c'è stata la giusta revoca della concessione ai Benetton, che hanno sulla coscienza i 43 morti del Morandi per aver risparmiato e truffato sulla manutenzione del ponte, e continueranno almeno per un anno a sedere nel Cda di Autostrade e a incassare i dividendi dei lucrosi pedaggi (sia pure ridotti dall'accordo); ma essi potranno uscirsene da Aspi, dopo aver sfruttato per due decenni la gallina dalle uova d'oro, lasciando in tutta tranquillità e senza pagare pegno le autostrade italiane, ridotte in stato pietoso e bisognose di investimenti ingenti, ma anzi incassando alcuni miliardi dalla vendita delle loro quote, anche se per due anni non potranno distribuirseli fra sé. Quanti miliardi? Dipenderà dal valore che Aspi avrà al momento della separazione da Atlantia, ma è stato calcolato che già se Cdp pagherà intorno ai 3 miliardi per il 33% di Aspi (accollandosi per giunta i 10 miliardi di debiti di Aspi), di fatto i Benetton non avranno perdite. Non per nulla alla notizia dell'accordo il titolo Atlantia ha avuto un rimbalzo di oltre il 26%, segno che il mercato l'ha interpretato come un accordo a favore dei Benetton.
“A noi che per mezzo secolo abbiamo contribuito al boom economico dell'Italia, intimano di cedere i nostri beni entro una settimana. Non possiamo accettare di essere trattati come ladri, dopo aver distribuito tanta ricchezza e tanta cultura, non solo economica”, ha dichiarato Luciano Benetton alla compiacente La Repubblica spargendo le classiche lacrime di coccodrillo, dopo che la sua famiglia si è ingozzata gratis per più di vent'anni con il bancomat di Autostrade regalatogli e confermatogli da tutti i governi di “centro-destra” e di “centro-sinistra” che si sono succeduti fino ad oggi. Fin da quando, nel 1999 sotto il governo del rinnegato D'Alema, la rilevarono dall'Iri già privatizzata da Prodi per 5 miliardi di lire, senza poi aver più tirato fuori un soldo per mantenerla, in quanto i profitti provenienti dai pedaggi ripagavano più che abbondantemente i pochi investimenti fatti per la manutenzione e l'ammodernamento della rete.
Dal 2005 al 2018 Aspi ha distribuito dividendi per 9 miliardi di euro alla controllante Atlantia, di cui i Benetton detengono il 30%. E oggi, malgrado il declino dopo il disastro di Genova, vale in Borsa ancora più del doppio di quanto incassato dallo Stato con la privatizzazione. Con il governo Berlusconi, ministro delle Infrastrutture Lunardi, il contratto di concessione ai Benetton, compreso l'atto aggiuntivo che gli regalava la possibilità di ripagare gli investimenti con l'aumento delle tariffe e non con gli aumenti di traffico, viene blindato per legge, nonostante diversi pareri di illegittimità.
 

Una formidabile arma di ricatto in mano ai Benetton
Col governo Prodi del 2007 la concessione viene rinnovata eliminando per sempre qualsiasi rischio di vedersi ridurre le tariffe per effetto dell'aumentato traffico (che nel frattempo c'è stato, facendogli fare un doppio guadagno); non solo, ma vengono anche inseriti i famigerati articoli 9 e 9 bis, convertiti in legge da Berlusconi nel 2008, che impongono allo Stato un indennizzo mostruoso (oggi sarebbero 23 miliardi di euro, ridotti a 7 con l'ultimo decreto milleproroghe, contestato però dai legali dei Benetton) in caso di revoca della concessione prima della scadenza del 2038 (poi estesa fino al 2042 da Berlusconi), anche in caso di gravi inadempienze da parte del concessionario.
In questo modo tanto il PD quanto FI di Berlusconi, con la sua appendice della Lega, hanno dato in mano ai Benetton una formidabile arma di ricatto per poter tenersi stretta Aspi anche dopo che sono apparse evidenti le loro criminali responsabilità nella strage di Genova. Non per nulla i Benetton nel 2006, alla vigilia delle elezioni, avevano finanziato con oltre un milione di euro tutti i partiti, dai DS alla Margherita, Da FI alla Lega, da AN all'UDC. E i finanziamenti sono continuati negli anni, anche ai grandi media dell'informazione di regime, primi fra tutti Corriere della Sera e Repubblica . Proprio di recente il governo Conte 2 , con il piano “Italia veloce” della De Micheli contenuto nel Decreto semplificazioni, ha prorogato di due anni tutte le concessioni aeroportuali, tra cui Aeroporti di Roma controllata da Atlantia.
Inoltre con questa operazione non è che i 3 mila chilometri di autostrade date in concessione ai Benetton ritorneranno allo Stato. Semplicemente Aspi diventerà una “public company con lo Stato imprenditore”, come l'ha salutata non senza compiacimento la trotzkista Norma Rangeri su Il Manifesto del 15 luglio, ossia una Spa la cui ragione sociale sarà quella di fare profitti e distribuire dividendi agli azionisti, né più né meno come adesso. E' tutto da dimostrare perciò che con la nuova società la musica cambierà in favore degli utenti, della sicurezza e dell'abbassamento delle tariffe.
Non a caso, dopo l'accordo, la De Micheli si è precipitata a dichiarare a La Repubblica : “Chi dice che si tratta di una nazionalizzazione non ha capito niente”. Appunto. L'unica garanzia che la musica cambi davvero e che non si ripetano più tragedie come quella del ponte Morandi è sottrarre completamente le autostrade dalla logica del mercato e del profitto. E riportarle sotto il controllo pubblico attraverso la nazionalizzazione.
 

22 luglio 2020