Lo denuncia lo studio di Medici per i diritti umani
Nella Piana di Gioia Tauro condizioni di vita e di lavoro bestiali per i braccianti migranti
Abbandonati da parte delle istituzioni

Dal corrispondente della provincia di Reggio Calabria e della Calabria
Per il settimo anno consecutivo, i Medici per i Diritti Umani (Medu) hanno condotto uno studio sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti agricoli presenti nella Piana di Gioia Tauro durante la stagione di raccolta agrumicola.
Il dossier pubblicato il 16 luglio scorso, composto da 52 pagine e intitolato “La pandemia di Rosarno. Emergenza sanitaria e sfruttamento endemico” ha fotografato due fasi. Quella precedente la comparsa del Covid-19 che va da novembre 2019 a marzo 2020, e quella immediatamente successiva iniziata coi provvedimenti restrittivi di lockdown imposti dal dittatore antivirus Giuseppe Conte.
Anche quest’anno vengono portate alla luce le gravi condizioni di esclusione, marginalità e sfruttamento dei braccianti (insite all’inumano sistema capitalista) ulteriormente peggiorate durante l’emergenza pandemica e con l’entrata in vigore dei decreti razzisti sulla sicurezza, fortemente voluti dal caporione fascioleghista Matteo Salvini.
L’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, titolo sempre più diffuso tra i migranti della Piana (il 59% di essi nel 2019 ne possedeva uno) ha di fatto lasciato ben poche possibilità a coloro i quali non hanno potuto convertirlo in permesso per motivi di lavoro perché non in possesso dei requisiti necessari, esponendoli inevitabilmente al ricatto economico di caporali e imprenditori agricoli senza scrupoli.
Avvalendosi di una clinica mobile, Medu ha raggiunto i circa 2.000 lavoratori che popolano i diversi insediamenti ufficiali e informali della Piana di Gioia Tauro, in particolare, la tendopoli di San Ferdinando, il campo container di Rosarno e i casolari abbandonati dei comuni di Rizziconi e Taurianova.
La totalità dei braccianti, tutti di sesso maschile e un’età media di 30 anni, proveniva dall’Africa subsahariana occidentale, e erano così divisi: Mali (49%), Senegal (12%), Ghana e Gambia (9%).
Il 63% delle persone assistite, dichiarava di essere in Italia da più di 4 anni, il 25% da meno di 3, mentre il 90% risultava regolarmente soggiornante a fronte del 10% di “irregolari”. Riguardo la permanenza nella Piana, su un campione di 131 persone, l’81% erano stagionali, solo il 19% viveva stabilmente in Calabria.
Come registrato negli anni precedenti, la salute dei braccianti continua ad essere a rischio, visto l’impossibilità per la maggior parte di essi, di accedere alla medicina di base. Tra le 125 persone intervistate solo il 35% rispondeva di essere iscritto al Servizio Sanitario Nazionale e di avere un medico di medicina generale assegnato nella Piana o in altre regioni. La percentuale restante non vi accedeva, o per motivi burocratici dovuti all’impossibilità di ottenere la residenza presso gli insediamenti informali, o per disinformazione.
Il difficile accesso alle cure mediche necessarie, non poteva che ripercuotersi negativamente sulle condizioni psicofisiche dei lavoratori assiepati in ghetti fatiscenti senza servizi igienici, acqua potabile, elettricità, e riscaldamento. A ciò si andava ad aggiungere la cattiva alimentazione e i pesanti ritmi del lavoro di raccolta nei campi. Il 22% dei pazienti visitati risultava affetto da patologie all’apparato respiratorio, il 19% a quello osteo-articolare, il 15% all’apparato digerente e il 9% presentava problemi della cute. Al 30% di essi venivano riscontrate invece altre patologie che riguardavano l’apparato dentale, urinario, oculo-visivo, cardiovascolare e il sistema nervoso centrale.
Sempre più drammatico, nel complesso, il sistema di sfruttamento dei braccianti agricoli diffuso nella Piana di Gioia Tauro che viola tutte le norme previste dai CCNL riguardo a orari di lavoro, retribuzione, sicurezza, ferie, e malattia.
Questo si traduce in paghe da fame comprese tra i 25 e i 35 euro a giornata, sia in presenza che in assenza di contratto. Diffusione del “lavoro grigio” che non consente ai lavoratori di accedere alla disoccupazione agricola per la quale sono necessarie almeno 50 giornate lavorative annue registrate.
Aumento del cosiddetto fenomeno del “caporalato”: in prossimità di rotonde e svincoli autostradali, i braccianti vengono tutti i giorni reclutati e schiavizzati dai caporali, che in combutta con gli imprenditori agricoli, li caricano su furgoni che possono trasportare nelle campagne massimo 6 persone, al costo di 4 euro a viaggio.
A questo punto viene da chiedersi cosa hanno fatto negli ultimi anni le istituzioni borghesi, sia a livello nazionale che locale, per cercare di sanare le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti agricoli che continuano ad essere trattati come bestie? La risposta appare scontata: non hanno alzato un dito, li hanno abbandonati al loro triste destino.
Eppure, l’emergenza sanitaria nazionale causata dal Coronavirus avrebbe potuto rappresentare l’occasione giusta per regolarizzare centinaia di migliaia di migranti costretti a vivere in clandestinità, permettendo loro di iscriversi all’anagrafe, avere un’assistenza sanitaria, un permesso di soggiorno e sottrarli così al lavoro nero e al caporalato, ma tutto ciò non si è verificato. Il decreto “rilancio” ha miseramente fallito perché per l’ennesima volta si è deciso di mettere al primo posto i profitti dei grandi proprietari terrieri e della grande distribuzione.
Noi marxisti-leninisti continueremo a batterci affinché vengano abrogate tutte quelle normative che colpiscono duramente i diritti dei lavoratori stagionali e non, iniziando proprio dagli infami decreti sulla sicurezza e dal decreto rilancio. Allo stesso tempo sosteniamo tutti le iniziative dei braccianti agricoli per organizzarsi mettendo con forza all’ordine del giorno la lotta al caporalato, pretendendo a riguardo, interventi governativi efficaci a contrastarlo.
 
 

29 luglio 2020