Clamoroso caso di caporalato a Milano
Il pluripremiato Stagno d'Alcontres supersfruttava i braccianti africani
“Buoni, puliti e belli” era lo slogan della StraBerry, impresa cool

Lavoravano sotto la costante minaccia di essere licenziati i cento lavoratori della StraBerry di Cascina Pirola di Cassina de' Pecchi, a soli 16 km da Milano, sequestrata dai carabinieri che hanno portato alla luce un sistema di caporalato che andava avanti da anni. Il comune, pur trovandosi a pochi km dalla metropoli lombarda, grazie alla grande disponibilità di acqua, si trova in una zona con una antica vocazione agricola,.
Qui ha sede la società di proprietà del 32enne messinese di nobili origini ed ex bocconiano Guglielmo Stagno d’Alcontres. Un'azienda molto attiva nel promuovere il proprio marchio, con un accattivante nome inglese che richiama un famoso brano dei Beatles, “StraBerry field” (campi di fragole), premiata più volte dalla Coldiretti per le sue qualità agricole innovative, il rispetto dell’ambiente e l'utilizzo di energia rinnovabile. È molto conosciuta a Milano, dove le sue Apecar circolano per tutta la città coi loro prodotti a chilometro zero, e vanta più di sei milioni di follower su Instagram.
Ma in questo caso i campi di fragole non erano romantici e nostalgici come nella canzone, bensì erano lo scenario dove venivano supersfruttati i braccianti immigrati. I lavoratori hanno denunciato di essere stati costretti a “raccogliere e confezionare le fragole a 4,5 euro all'ora per più di nove ore al giorno in tempi impossibili”. Se non mantenevano i ritmi, “nei casi peggiori ci mettevano in punizione a casa due giorni o non ci facevano più lavorare”, hanno riferito i migranti ai finanzieri. Secondo gli inquirenti non sarebbero nemmeno state rispettate le misure anti-Covid (distanziamento, mascherine, igiene), ma non risultano casi di positività. L’indagine è durata due mesi.
La Guardia di Finanza ha messo sotto sequestro, su disposizione della magistratura, tutti i beni della società, consistenti in 53 immobili, tra terreni e fabbricati, 25 veicoli e 3 conti correnti e hanno nominato un amministratore giudiziario ai fini della continuità aziendale. Ci sono “sette denunciati per intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera”. I braccianti impiegati (un centinaio) avevano regolare permesso di soggiorno e provenivano dai centri di accoglienza tra Milano e la Brianza.
Dalle intercettazioni telefoniche emerge tutto il razzismo e l'arroganza del “nobille” Guglielmo Stagno e dei suoi scagnozzi che nei loro slogan pubblicitari si dipingevano “buoni, puliti e belli” ma in realtà operavano come ai tempi dello schiavismo. "Con loro devi lavorare in maniera tribale, tu devi fare il maschio dominante" spiegava al suo interlocutore il “capo grande”, come veniva chiamato; mentre Enrico Fadini era considerato il “capo piccolo”, l'esecutore degli ordini di Stagno.
“Negro, negro di merda, coglione, animali” erano le offese quotidiane indirizzate ai braccianti. Nella sua deposizione uno di loro, minacciato di licenziamento dal d'Alcontres, racconta: “ha iniziato a urlarmi in faccia che dovevo firmare la lettera, mi ha detto che siamo dei poveracci africani che non hanno niente e mi ha spintonato violentemente provando a buttarmi fuori dall’ufficio”.
Minacce e sospensioni a chi sgarrava le ferree regole imposte ai lavoratori: 10 ore di fila sotto il sole, senza neanche potersi fermare per bere un po' d'acqua o andare in bagno, pagati la metà del minimo sindacale, i contratti irregolari e le buste paga inesistenti. “Non ci permettevano di bere, non ci davano né mascherine né guanti. Era l'inferno.... ci dicevano solo veloce, forza, dai”, riferisce un testimone. .
Certo non si tratta di una novità, niente di nuovo sotto il sole verrebbe da dire. Quello che fa una certo scalpore è il fatto che ciò sia avvenuto a un passo da Milano e soprattutto che ad essere coinvolta è una cosiddetta start up , che si presentava come “la più grande realtà che in Lombardia coltiva frutti di bosco, nel parco agricolo sud, a 15 chilometri dal Duomo di Milano” azienda emergente e premiata da associazioni imprenditoriali come modello da imitare.
Una vicenda che dimostra come caporalato, lavoro nero, condizioni di semi-schiavitù, infiltrazioni mafiose nell'economia “regolare” e nella politica, non sono prerogative del profondo Mezzogiorno ma sono estesi anche nella “capitale economica” italiana. E come il mafioso non ha più la coppola e la lupara ma il “colletto bianco”, il padrone che schiavizza i lavoratori non ha sempre la faccia da cattivo, stile rozzo e poca cultura ma spesso ha studiato, ha la “faccia pulita” o addirittura, come in questo caso, proviene da un casato nobile.
 

9 settembre 2020