Patto di 25 anni fra Cina e Iran
Teheran entra nel gioco del socialimperialismo cinese
Pechino controllerà importanti risorse iraniane e la parte di costa che si affaccia sul mar di Oman

 
Un accordo della durata di 25 anni che prevede investimenti cinesi per 400 miliardi di dollari in molti settori strategici iraniani, dalle infrastrutture alle vie di comunicazione, alle telecomunicazioni e fino alla cooperazione militare e delle rispettive industrie degli armamenti in cambio di sconti sull'acquisto di petrolio e gas, che era in discussione tra Pechino e Teheran da circa quattro anni sembra arrivato in dirittura di arrivo e in piena estate il quotidiano americano New York Times ha diffuso le prime notizie sulla bozza di partenariato strategico tra i due paesi. Si tratta di un patto sbilanciato a favore del socialimperialismo cinese che si compra a suon di dollari il controllo di importanti risorse iraniane e di basi lungo la costa sul mar di Oman e nel Golfo Persico, lungo il percorso della nuova Via della Seta; si compra l'alleanza con l'Iran, influente potenza egemonica regionale legata alla Russia di Putin e alla Turchia di Erdogan ma attualmente in difficoltà per la pesante offensiva a colpi di embargo, provocazioni e azioni militari da parte del gruppo concorrente dei paesi imperialisti guidato dagli Usa di Trump.
L'assassinio del generale Soleimani il 3 gennaio scorso all'aeroporto Internazionale di Baghdad e l'annuncio di nuove sanzioni economiche per impedire il legittimo sviluppo del programma di ricerca nucleare iraniano sono gli ultimi due significativi episodi di uno scontro tra l'imperialismo americano e il governo di Teheran che viaggia da anni sotto traccia con la partecipazione attiva anche dei sionisti di Tel Aviv. Embargo, crisi economica, crisi sanitaria per il coronavirus sono la miscela che avrebbero spinto il governo iraniano a stringere i tempi della trattativa con la Cina, una trattativa che non è filata liscia a Teheran dove il via libera ricevuto dalla guida suprema Ali Khamenei non avrebbe smontato le ragioni di una opposizione, di cui fa parte anche l'ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, che vede il pericolo di un paese ridotto a provincia del nuovo impero cinese.
D'altra parte anche Xi Jinping non ha tenuto finora il piede sull'acceleratore per chiudere l'intesa certamente vantaggiosa con Teheran cui lui stesso aveva dato il via durante la visita a Teheran nel gennaio 2016, quel viaggio che era però iniziato a Riad, presso la monarchia saudita con la quale la Cina ha accordi di cooperazione tenuti da delegazioni governative di alto livello. Relazioni simili le ha costruite nel tempo con gli Emirati Arabi che con l'Arabia Saudita e i sionisti di Tel Aviv sono i principali nemici dell’Iran. Xi Jinping non si muove come un elefante in un negozio di cristalli, non usa la tattica spaccatutto del rivale imperialista americano Trump per giungere allo stesso fine e ha accompagnato il rilancio dell'accordo con l'Iran con lo sviluppo dei rapporti coi paesi membri della Lega Araba, segnato dalla riunione dei ministri degli Esteri del 6 luglio scorso ad Amman in Giordania per la nona conferenza tra la Cina e il Forum di cooperazione tra gli Stati Arabi (CASCF).
L’alleanza strategica con l'Iran serve al socialimperialismo cinese come punto di snodo delle vie della seta terrestri e marittime e come passaggio importante per la sua penetrazione in Medio Oriente, che si presenta certamente più foriero di successi di quello costruito con difficoltà col governo filoamericano di Baghdad che viaggia col freno a mano tirato da Washington. Dalla Casa Bianca nulla possono per impedire l'intesa tra Pechino e Teheran, si preoccupano per la presenza cinese ad Abadan, sull’estuario di Tigri ed Eufrate, e per i progetti portuali a Jask e sull’isola di Qeshm, sotto gli occhi della V Flotta degli Usa acquartierata nel Golfo Persico a sorvegliare la via d'acqua dove passa un quinto del petrolio mondiale e possono rispondere solo rafforzando lo schieramento avverso guidato da Israele e Arabia Saudita.

23 settembre 2020