Le linee guida del Recovery Plan sacrificano lavoro, Mezzogiorno, sanità e scuola alla competitività capitalista
Forti condizionamenti liberisti della Ue, delle lobby industriali e dei ministeri clientelari

Il 15 settembre il governo ha inviato al parlamento la bozza di linee guida del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ossia il cosiddetto Recovery plan per il rilancio economico e sociale del Paese e per renderlo più resistente alle crisi improvvise. Il documento di 72 pagine contenente le linee guida, che è stato elaborato sulla base degli “Stati generali” promossi da Conte lo scorso giugno e del Piano Nazionale di Riforme 2020, ed è attualmente al voto delle Commissioni parlamentari, sarà steso in forma definitiva tenendo conto dei pareri e dei suggerimenti del parlamento e di Regioni e Comuni, e dovrebbe essere presentato alla Commissione europea il 15 ottobre, insieme alla Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef) e alla bozza di Legge di Bilancio per il 2021.
Esso farà a sua volta da base per la stesura del piano vero e proprio che l'Italia avrà tempo fino a gennaio 2021 di presentare per avere accesso ai miliardi del Next Generation Eu : il piano di finanziamenti - parte sotto forma di sovvenzioni e parte di prestiti garantiti da strumenti di debito comuni – stanziati per far fronte alle conseguenze della pandemia, che per l'Italia vale 208,6 miliardi complessivi, spalmati in tre anni a partire, se va bene, dalla metà del 2021. O più precisamente 191,4 miliardi, di cui 63,8 a fondo perduto e 127,6 di prestiti, perché gli altri 17,2 miliardi riguardano finanziamenti aggiuntivi a fondi già esistenti, come per la coesione territoriale, la ricerca e innovazione, gli investimenti, lo sviluppo rurale ecc.
 

Obiettivi ambiziosi e aumento del debito
Si tratta di un documento ancora molto generico, costituito fondamentalmente da un elenco di obiettivi e di enunciazioni di principio, alcune anche auspicabili sulla carta, altre assolutamente no, ma comunque tutte senza programmi specifici né cifre, per prestarsi ad un'analisi approfondita e ad un giudizio di merito. Tuttavia, in attesa della versione definitiva che sarà presentata in sede Europea, alcune considerazioni possono farsi sull'impostazione politica ed economica delle linee guida.
Prima occorrerà fornire una descrizione il più possibile sintetica di questa bozza di linee guida. Il piano del governo si propone tutta una serie di ambiziosi “obiettivi economico-sociali di lungo termine”, a cominciare dal raddoppio del tasso di crescita, dallo 0,8% dell'ultimo decennio almeno fino al 1,6% della media Ue, un aumento degli investimenti pubblici almeno fino al 3% del Pil, e un aumento del tasso di occupazione di 10 punti, per arrivare all'attuale media Ue del 73,2%. Seguono poi altri buoni propositi da libro dei sogni come aumentare gli “indicatori benessere, equità e sostenibilità ambientale”; “ridurre i divari territoriali di Pil, reddito e benessere”; promuovere “una ripresa del tasso di fertilità e della crescita demografica”; “abbattere l'abbandono scolastico e l'inattività giovanile”; aumentare il numero di diplomati e laureati e rafforzare la “sicurezza e resilienza alle calamità naturali, cambiamenti climatici e crisi epidemiche”. Il tutto garantendo “la sostenibilità e la resilienza della finanza pubblica”.
Già quest'ultimo punto getta un'ombra di incongruenza con la sostenibilità di tutti gli altri, specie considerando che in coda al documento, dove si parla della politica di bilancio, si dice che “Il programma dovrà essere compatibile con gli obiettivi di finanza pubblica del governo”, e che “in ogni caso, il miglioramento dei saldi di finanza pubblica dovrà garantire la sostenibilità del debito pubblico”. E si ricorda che se i sussidi a fondo perduto “non dovrebbero costituire maggior deficit... viceversa, i prestiti contribuiranno all'indebitamento netto e all'accumulo di debito lordo”.
 

“Sostenibilità del debito” e tagli alla spesa
Che cosa intende il governo con “garantire la sostenibilità del debito pubblico” in rapporto al PNRR? È interessante notare che in una prima versione della bozza, presentata al parlamento il 7 settembre, nello stessa pagina della politica di bilancio, si leggeva questa frase, poi cancellata nella versione del 15 settembre: “La riduzione del rapporto debito/Pil richiederà un significativo miglioramento del saldo primario di bilancio nei prossimi anni”. Significa semplicemente che i 127 miliardi in prestito, che faranno ulteriormente aumentare il rapporto debito/Pil (già salito dall'attuale 137,6% al 158%, secondo la stessa Nadef, per effetto del crollo del Pil e dei 100 miliardi già stanziati coi tre decreti anticovid), andranno compensati con equivalenti tagli alla spesa pubblica, continuando la politica di “austerità” basata sui risparmi di bilancio perseguita negli ultimi anni da tutti i governi per rientrare nei parametri imposti dalla Ue. Questo anche se il rispetto dei parametri europei è stato formalmente sospeso a causa della pandemia.
Nella seconda versione questa frase è sostituita con un'altra che pone l'accento su “un forte aumento degli investimenti, pubblici e privati”, che il PNRR dovrà produrre per aumentare il Pil e così ridurre per questa via il rapporto debito/Pil. In altre parole il governo preferisce scommettere (e far credere al Paese) che il nuovo debito sarà ripagato con la crescita dell'economia stimolata dal Recovery plan , piuttosto che dai tagli alla spesa, ma c'è da credergli? Su questo punto le raccomandazioni specifiche della Commissione europea all'Italia non sono per niente rassicuranti. Né quelle emesse dopo la pandemia, né quelle già inviate nel 2019, che sono state riproposte e aggiunte a quelle 2020: tra quelle vecchie ci viene detto per esempio di “attuare pienamente le passate riforme pensionistiche (Fornero, ndr) onde ridurre il peso della spesa pensionistica”, mentre in testa alla lista delle nuove raccomandazioni si sottolinea la necessità, “superata la fase critica”, di “continuare ad assicurare la sostenibilità del debito pubblico”.
 

Le “raccomandazioni” liberiste della Commissione europea
Ci sono poi altre raccomandazioni capaci come queste di condizionare fortemente in senso restrittivo e liberista il Recovery plan italiano, come per esempio, tra quelle 2019, “ridurre gli ostacoli alla concorrenza, in particolare nel commercio al dettaglio e dei servizi alle imprese” e “favorire la ristrutturazione dei bilanci delle banche”, con le quali si insiste nella sciagurata politica europea delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni delle imprese partecipate, nonché delle ristrutturazioni delle banche decotte a spese dei correntisti. O come quelle, post pandemiche, che raccomandano di promuovere “il lavoro flessibile”, rafforzare “l'apprendimento a distanza” e “fornire liquidità all'economia reale”: cioè accelerare la deregulation del mercato del lavoro e far fare allo Stato da bancomat per le imprese e i lavoratori autonomi; come si è visto con i decreti antivirus di Conte, che dei 100 miliardi stanziati ben 60 sono andati direttamente o indirettamente alle imprese, comprese quelle che non hanno avuto una contrazione dei profitti durante la pandemia.
A quest'impostazione liberista della Ue il governo Conte ci aggiunge poi del suo, con l'impegno dichiarato a “incentivare la produttività del lavoro con il rafforzamento degli incentivi fiscali al welfare contrattuale e la promozione della contrattazione decentrata” (due cavalli di battaglia confindustriali che mirano a distruggere la contrattazione collettiva e quel che resta dei servizi pubblici universali); nonché con l'applicazione delle procedure accelerate del “decreto semplificazioni” anche per l'impiego dei soldi del PNRR (assegnazioni senza gare, codice appalti “semplificato”, deresponsabilizzazione e depenalizzazione per i decisori pubblici).
 

Ripartizione squilibrata degli stanziamenti
Le linee guida del piano sono distribuite tra 6 “missioni”, che sono le seguenti: 1) Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; 2) Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3) Infrastrutture per la mobilità; 4) Istruzione, formazione, ricerca e cultura; 5) Equità sociale, di genere e territoriale; 6) Salute. Ognuna di esse contiene a sua volta una serie di “cluster” che definiscono gli ambiti tematici sui quali il piano dovrà intervenire, per un totale di circa una sessantina di obiettivi da conseguire, tutti nominalmente importanti e di valore strategico, ma per adesso solo un elenco di propositi generici.
Senza entrare in merito ad essi, cosa che converrà fare quando ci sarà il documento definitivo per la Commissione europea, ci possiamo già fare però una domanda: Come potranno bastare i pur ingenti fondi europei a finanziare una tale mole di interventi? E se non basteranno, come sembra evidente, in quali interventi il governo sceglierà di concentrarli? Il dubbio è lecito e confermato anche dalle prime cifre fornite sulla possibile ripartizione dei fondi europei fornite dal ministero degli Affari europei diretto da Vincenzo Amendola, che da agosto coordina i lavori del Comitato interministeriale per gli Affari europei (Ciae) che ha elaborato la bozza di linee guida. Secondo questi primi dati il 37% dei fondi, circa 70 miliardi, sarebbero riservati ai progetti del Green Deal (le “riforme verdi” europee) e alla transizione ecologica (decarbonizzazione, economia circolare ecc.), di cui la gran parte andrebbe a finanziare il prolungamento nei tre anni del superbonus edilizio del 110%. Un 20%, pari a circa 40 miliardi, sarebbe riservato alla digitalizzazione, dove i progetti per la banda larga faranno la parte del leone. Queste sono infatti le due missioni da privilegiare sulle altre secondo le raccomandazioni europee.
Alle infrastrutture per la mobilità, cioè essenzialmente all'estensione della rete dell'alta velocità ferroviaria, a partire dal completamento dei corridoi europei TEN-T, tra cui la Tav Torino-Lione, e per lo sviluppo della rete autostradale, porti e aeroporti, logistica, andrebbe il 10%, pari a circa 20 miliardi. Un altro 10%, pari a circa 10 miliardi ciascuno, sarebbe riservato al piano per il ciclo integrato delle acque e ad un piano per la riqualificazione e il miglioramento delle città. In pratica ben il 77% dei fondi europei, poco meno di 150 miliardi, sarebbe concentrato su metà delle missioni più due progetti. Il restante 23%, appena 44 miliardi, se lo dovrebbe spartire tutto il resto. Tra cui ci sono capitoli giganteschi da affrontare e che dovrebbero avere invece priorità assoluta, come il lavoro, il Mezzogiorno, la sanità e la scuola.
 

Pressioni delle imprese sui ministeri per i fondi Ue
Ma c'è di più. Le linee guida elaborate dal Ciae risultano dalla scrematura di oltre 600 progetti pervenuti dai vari ministeri, per un totale di tre volte l'ammontare dei fondi europei. Facile immaginare che ogni ministero farà fuoco e fiamme per partecipare al banchetto e pretendere la sua fetta di torta per accontentare le rispettive lobby di riferimento. Vedasi per esempio l'intervento del ministro M5S Patuanelli all'assemblea di Confindustria in cui ha promesso al padronato il “potenziamento di misure che consideriamo strategiche, a partire dagli incentivi 4.0” (crediti di imposta molto oltre il 100% per investimenti in nuove tecnologie, ndr), o le ossessive promesse di Di Maio di usare i fondi Ue per tagliare le tasse e per finanziare a fondo perduto le Pmi. È noto d'altra parte che il falco di Confindustria Bonomi ha già messo pesantemente i piedi nel piatto pretendendo a gran voce che tutte le risorse del Next Generation Eu vadano esclusivamente alle imprese e non per “interventi a pioggia”, leggi per sostenere il reddito dei lavoratori e dei disoccupati.
Un altro esempio di quanto i ministeri e le rispettive clientele di riferimento possano condizionare il Recovery plan dirottandone a proprio favore i finanziamenti è dato dalla richiesta dell'Aiad al governo, la federazione membro di Confindustria che rappresenta le aziende italiane del settore Aerospazio, Difesa e Sicurezza presieduta da Guido Crosetto, di avere uno spazio adeguato nel PNRR, con programmi finanziabili fino a 25 miliardi. Richiesta che trova orecchie estremamente sensibili al ministero della Difesa, contando sul fatto che non è facile distinguere, tra le innovazioni tecnologiche, quelle che possono avere applicazioni militari o no.
In conclusione, per quanto il piano di impiego dei fondi europei del governo Conte sia ancora ben lontano dal vedere la luce, da quello che si può già capire dalla cornice politica ed economica in cui è inquadrato, esso proseguirà la logica liberista dei decreti anticovid, privilegiando le imprese piuttosto che i lavoratori e le masse popolari, e sacrificando come sempre il lavoro, il Mezzogiorno la sanità e la scuola sull'altare della competitività capitalista.

14 ottobre 2020