Lo documenta “Repubblica”
Il governo non ha preparato il Paese per la seconda ondata della pandemia Covid
Conte, punto sul vivo, respinge le accuse: “Ho studiato i dossier anche di agosto”

 
Il virologo Fabrizio Pregliasco, il consulente del Ministro della Salute Walter Ricciardi e, paradossalmente visto il disastro perpetrato nella sua regione, addirittura Attilio Fontana, nell'aprile scorso sottolineavano, seppur con diversi toni, il rischio, concreto di una seconda ondata di contagi dovuti al Covid-19.
Il Ministro Speranza, indirettamente rispondeva a tutti lo scorso luglio sostenendo: “Dobbiamo considerarla possibile. C’è stata in altri Paesi del mondo ed è avvenuta in passato rispetto ad altre epidemie. Credo anche però che il nostro Paese sia oggi più forte di quanto lo fosse a febbraio, in primis perché conosce meglio l’avversario con cui si confronta”. Insomma, rassicurava sul fatto che il governo si sarebbe fatto trovare pronto.
Con queste premesse, ed alla luce dei disastrosi risultati, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato recentemente un lungo e articolato documento che argomenta nei fatti l'impreparazione del governo Conte a questa seconda ondata.
Molti di questi avvenimenti li avevamo commentati al momento dei fatti, tuttavia il dossier ci dà l'occasione per riepilogare le principali cause e le tappe di questo sfacelo, dalla seconda metà di luglio ad ottobre.
Il documento di partenza per analizzare cosa avrebbe dovuto fare il governo (dopo aver già clamorosamente fallito l'intervento della prima ondata del virus costata decine di migliaia di morti), e cosa andava annunciando, è titolato “Prevenzione e risposta. Covid-19: evoluzione e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno- invernale”; un testo stilato dal ministero della Salute, dall’Istituto superiore di Sanità, dall’Inail e dalla Protezione civile, che indicava le otto “barriere” che avrebbero consentito di resistere all’urto della seconda ondata, quali il tracciamento, la sorveglianza, la tecnologia, il sistema di rilevamento, la nuova organizzazione sanitaria negli ospedali e sul territorio, l'implementazione dei servizi a partire da trasporti e scuole. Nei fatti, nulla è stato concretizzato e si ricominciano a contare i morti e a chiudere le città come nel marzo scorso quando il Covid si seminava contagi e morte, complici i ritardi e le sottovalutazioni dei nostri governanti borghesi.
 

Il colpevole silenzio estivo
Il governo, anziché far tesoro dell'esperienza maturata sulla pelle della popolazione e degli errori, ha nuovamente perso tempo proprio nel momento in cui, complice la tregua dei contagi, doveva intervenire adeguatamente per attrezzare il Paese davanti alla nuova probabile ondata. I mesi di luglio e soprattutto di agosto registrano un nulla di fatto in termini di attività e provvedimenti; mesi nei quali si perdono le tracce anche di quel Conte apparso così tranquillo ed esultante nell'ultima conferenza stampa del 21 luglio, per aver incassato i 209 miliardi del Recovery Fund.
Nello stesso periodo gli unici provvedimenti istituzionali sono stati le riapertura delle discoteche sarde ad opera della regione che si è piegata ai voleri dei milionari padroni della movida, nonostante domenica nove agosto negli Stati Uniti l’epidemia era già al galoppo, mentre in Francia e Spagna si registravano focolai sempre più estesi.
Nessun misura di contrasto al virus nemmeno a settembre, nonostante vi siano già numerosi cluster in Sardegna e le prima avvisaglie di pericolo a Roma e Milano. Nei fatti occorre addirittura arrivare al 15 ottobre per vedere un sollecito governativo per un vertice urgente finalizzato a fronteggiare l'ormai evidente ripresa del virus.
 

Il fallimento del tracciamento e della sorveglianza
Il 22 ottobre a pandemia già evidente con gli oltre 15 mila contagi giornalieri, Conte ripiega sull'ennesimo DPCM che inizia a richiudere l'Italia, mentre Speranza ammette di non sapere dove si siano contagiati la metà dei casi positivi dichiarando che, di fatto, “È saltato il sistema di tracciamento praticamente in tutte le regioni”. Eppure proprio il tracciamento era in cima a tutte le priorità d'intervento, l'elemento di base, essenziale, per fronteggiare la seconda ondata; era lo stesso decreto “Cura Italia” pubblicato in Gazzetta ufficiale il 19 maggio, che lo sottolineava presentando la nuova figura dei “tracer” che sarebbero stati in grado di tracciare il virus, individuare le catene di contagio e isolare tutti i nuovi positivi.
Nello stesso Decreto il governo aveva promesso il rafforzamento dei dipendenti dei servizi di prevenzione, che all'inizio della pandemia erano 8.900, con almeno il 30 per cento in più di addetti; invece, a fronte di 3 mila annunciati, ne sono stati assunti appena 341.
E non è tutto. Il problema di fondo, il fatto vergognoso, è che l'Italia a 10 mesi dall'inizio della pandemia, non ha ancora un sistema di tracciamento unico o quantomeno interconnesso fra le varie appendici, il che naturalmente rende vani quasi tutti gli sforzi per rispondere a domande banali in questo contesto, come capire da dove avvengono i contagi, quali sono le areei più a rischio, e quali sono i quartieri delle grandi città da tenere sotto stretto controllo sanitario. Un altro fallimento è rappresentato poi dai risultati della plurisponsorizzata app Immuni, i cui dati custoditi da provider privati, non hanno nessun processo automatico di analisi e nessuna integrazione coi risultati dei tamponi. Insomma, ancora oggi, a quasi un anno dalla comparsa del virus, si procede colpevolmente solo per tentativi.
 

Immobilismo sanitario
E pensare che lo stesso articolo 1 del Decreto Rilancio del maggio scorso prevedeva per le regioni la realizzazione dei cosiddetti “dipartimenti di prevenzione” con una nuova sorveglianza attiva dei medici di famiglia, pediatri, guardie mediche, USCA (le unità per le cure domiciliari), al fine di identificare, isolare e trattare i casi positivi; così come disponeva con specifici 61 milioni di euro, l'assunzione di altri “infermieri di comunità” (8 ogni 50 mila abitanti) che avrebbero avuto il compito di supportare le USCA stesse.
Altri 10 milioni, a dire il vero una cifra misera se paragonata alle necessità, erano destinati all'assunzione di infermieri che avrebbero dovuto affiancare i medici di famiglia nei loro studi, per arrivare a quel totale generale di circa 3 miliardi che Speranza stesso decantò come “l'inversione di rotta” rispetto ai decenni precedenti di tagli alla sanità pubblica. Tre miliardi in più contro i 38 tagliati in soli dieci anni. Sostanzialmente nulla, e infatti oggi l'assistenza territoriale è ferma, colpevolmente paralizzata, e lo è maggiormente quella domiciliare che avrebbe evitato il convergere di tutti i pazienti nei pronto soccorso e negli ospedali, fino alla rianimazione, che stanno nuovamente esplodendo dall'immenso flusso di contagiati.
Speranza e Conte mentono, ma i fatti li mettono entrambi con le spalle al muro; fino ad oggi di infermieri di famiglia e di comunità ne sono stati assunti meno di mille, circa un decimo rispetto a quelli per i quali erano stati stanziati i fondi. Le regioni poi hanno prodotto documenti con le linee di indirizzo sanitario solo a settembre, quando il virus era già tornato nuovamente forte, ed in assenza di strutture che potessero consentire di farli funzionare, ma anche su questo punto le carenze erano ben note da tempo al governo che ha glissato rimandando o ignorando l'enorme entità del problema.
 

Nuovi ospedali al palo, medici che mancano e pazienti non Covid dimenticati
Le ambulanze in fila in attesa infinita per poter affidare i pazienti ai pronto soccorso, i ricoveri bloccati, le terapie intensive in sofferenza raccontano anche di un sistema ospedaliero ancora una volta in grande affanno. Non si approntano letti in più. Non si fronteggia il super afflusso di pazienti ai pronto soccorso. Non si avviano strutture esterne, in fiere o capannoni, tranne in qualche rarissimo caso, e ciò comporta la riduzione degli spazi e dell’attività destinata agli altri malati: ogni giorno infatti, con una media nazionale di circa 1.200 ricoveri, vengono chiusi 60 reparti di medicina, chirurgia generale, gastroenterologia, pneumologia e altre specialità per lasciare spazio alle persone colpite dal coronavirus; un fatto di una gravità inaudita, che proietta il nostro Paese nel terzo mondo dell'assistenza sanitaria pubblica.
Ma d'altra parte, secondo il ministero della Salute, al 25 di ottobre – ed a partire da marzo - sono stati assunti 36.355 operatori, dei quali 7.650 medici, 16.570 infermieri, 7.730 operatori socio sanitari e 4.385 altri professionisti; tuttavia quel numero che sbandierato alla Camera o nei TG come importante, in realtà è assolutamente insufficiente. Relativamente ai medici ad oggi non è noto quanti di essi – assunti allora con contratti da liberi professionisti per sfruttarli durante l'emergenza e poi poter dar loro il benservito senza particolari problemi – siano ancora in servizio, mentre per quanto riguarda gli infermieri ospedalieri il numero è di poco superiore agli esodi pensionistici nel Servizio Sanitario Nazionale del 2019 e del 2020.
In sostanza, l'unica cosa che è aumentata nella sanità italiana è il precariato e nulla più; infatti la capacità di assistenza ospedaliera è rimasta quella esistente prima del Covid. È inaccettabile pensare che nel 2009 i medici negli ospedali pubblici erano addirittura 6 mila in più degli attuali.
Direttamente collegata a questa carenza, è anche la misera dotazione di posti letto: nel decreto Rilancio ad esempio si prevedevano 3.500 posti in terapia intensiva in più e 4.225 di sub intensiva che sono svaniti nel nulla per la mancanza di spazi ma anche di personale per farli funzionare, poiché servono tra i 2 mila ed i 2.500 tra anestesisti, infettivologi e pneumologi ad oggi inesistenti, per attivarli.
Conte e Speranza, al di là delle parole, consolidano lo stato di carenza causato dai tagli degli scorsi decenni, non facendo nulla in concreto per sottrarre l'Italia dalla situazione di insufficienza grave che rende più difficile affrontare questa nuova ondata di epidemia. I numeri parlano chiaro: di posti letto destinati a patologie “acute”, escluse cioè le riabilitazioni e le lungodegenze, oggi ce ne sono 3,2 per mille abitanti, cioè circa 192 mila su tutto il territorio nazionale; in pratica 90 mila in meno rispetto al 2000 e 45 mila in meno rispetto al 2010. Rispetto ad altri Paesi capitalisti la situazione italiana è peggiore considerati ad esempio gli 8 posti per mille abitanti in Germania, i 7 in Austria ed i 6 in Francia.
 

Il fallimento sui trasporti, vettore principale del virus, e sulle scuole
In una situazione così critica e carente dal punto di vista dell'accoglienza sanitaria, Conte ed i suoi Ministri non sono stati capaci neanche di prevenire i contagi intervenendo sui principali e globalmente riconosciuti, luoghi di contagio come i mezzi di trasporto pubblico.
Le fabbriche aperte, così come gli uffici e, soprattutto, la riapertura delle scuole, lanciavano un allarme forte e chiaro, evidente per tutti, ma non per Palazzo Chigi poiché il governo è oggi nuovamente costretto a ridurre al 50 per cento la presenza su autobus e treni, senza però averne un maggior numero sufficiente per garantire il servizio. Per quanto riguarda il peso sui trasporti di studentesse e studenti di medie superiori ed universitari, il problema è stato eliminato alla radice chiudendo le scuole e relegando tutti a mesi e mesi di didattica a distanza, con tutte le sue conseguenze denunciate più volte dagli studenti, sindacati del settore, docenti e famiglie.
Per i mancati investimenti in questo settore Conte rimpalla le responsabilità alle regioni nascondendosi dietro ad un dito quando sostiene che solo 120 dei 300 milioni messi a disposizione erano stati effettivamente utilizzati dai governatori; il dato è vero, ma è vero anche che quei soldi non sono mai arrivati poiché non sono stati ancora approvati i relativi decreti attuativi. Nei fatti le Regioni avrebbero dovuto anticiparli ed ottenere i rimborsi nella prossima finanziaria.
Anzi, l’8 settembre quando il decreto “trasporti aggiuntivi” è in Gazzetta ufficiale il governo aumentava la capienza degli autobus dal 50 per cento, come deciso nella primavera del lockdown , all’80 per cento nonostante la contrarietà del Comitato tecnico scientifico. Come in discoteca.
Nonostante il disastro primaverile nel settore della scuola e università, abbiamo assistito per tutte l'estate al teatrino dei banchi monoposto che sono stati consegnati a partire dal 30 di ottobre nelle scuole ancora aperte; a novembre infatti solo il 63% di essi era all'interno di una classe e, anche se fossero arrivati tutti e consegnati per tempo, ne sarebbero mancati altri 900 mila. E inoltre scandalosi sono i ritardi nella nomina dei docenti
 

Conte è colpevole ma, risentito, respinge le accuse
All'indomani della pubblicazione dell'importante articolo di Repubblica, Conte tentava di salvare la faccia replicando in una lunga lettera alle accuse che gli sono state mosse, e lo faceva mettendo nero su bianco il proprio risentimento, quasi offendendosi delle critiche ricevute, ed infarcendo la risposta di quel trasformismo del quale è un assoluto campione.
Fingendo di voler “ascoltare la critica costruttiva”, in realtà giustifica in tutti i modi se stesso ed il suo governo che hanno, a suo dire, il merito di non aver mai concesso pause alle attività istituzionali, non potendo accettare “che passi il messaggio di un presidente e di un governo che hanno abdicato ai propri doveri approfittando della pausa estiva, e che un solo weekend passato al mare o una singola cena a margine di un appuntamento istituzionale vengano così strumentalmente sottolineati”.
Insomma, Conte ci tiene a sottolineare che “il governo la scorsa estate non è mai andato in vacanza”, e, in mezzo a questo disastro, si bea di poter oggi “permetterci interventi mirati e differentemente dosati in base alle condizioni di effettiva criticità dei territori” anziché ripiombare nel lockdown generalizzato, proprio perché “non ci siamo mai fermati”. Eppure il disastro è sotto gli occhi di tutti: oggi mezza Italia è in zona “rossa” con gravi criticità di rischio sanitario, le morti si moltiplicano e gli italiani sono prigionieri del lockdown e del coprifuoco. Contemporaneamente i profitti delle grandi aziende, a partire dalle farmaceutiche, dalle sanitarie private e dalle RSA ancora una volta al centro di nuovi focolai, continuano a crescere, i grandi capitali non vengono neanche sfiorati e si susseguono decreti come il “Rilancio” ed il “Ristori” che finiscono per dare soldi agli alti fatturati e solo mance alla parte più colpita da questa situazione quali sono le piccole attività, le partite IVA, i piccoli studi e, naturalmente, le lavoratrici, i lavoratori, le donne ed i disoccupati. E intanto, nel pieno della seconda ondata, c'è chi mette già in allerta per una terza a partire dal prossimo febbraio.
Invece di risolvere la devastazione economica, sociale e umana provocata dalla pandemia, la dittatura antivirus del governo Conte è preoccupata unicamente di salvaguardare i profitti capitalistici e non certo la salute e il benessere dei lavoratori e della popolazione.

25 novembre 2020