Ennesima giravolta del M5S
Via libera del parlamento alla riforma del Mes
Le masse non ne avranno alcun beneficio

Il 9 dicembre Giuseppe Conte si è recato in parlamento per comunicazioni sulla linea del governo in vista della riunione del Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre. Diversi i temi in discussione e sottoposti alla votazione di Camera e Senato. Tra questi la lotta alla pandemia e il Next generation UE , il fondo europeo di ripresa economica, detto anche Recovery fund , che stanzia 209 miliardi per l'Italia, appena sbloccato dal veto di Polonia e Ungheria, il piano verde europeo, la sicurezza e la lotta al terrorismo, i rapporti Europa-Usa e le relazioni future tra Europa e Regno Unito dopo la Brexit. Ma il tema di sicuro più spinoso da affrontare e superare per il premier era quello della riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità sul quale la maggioranza di governo rischiava di andare in frantumi a causa di una seria spaccatura nel M5S.
A pochi giorni dal cruciale appuntamento, infatti, una quarantina di deputati e una dozzina di senatori del M5S avevano espresso in una lettera l'intenzione di non votare in aula la risoluzione della maggioranza che autorizzava Conte a dare il consenso italiano alla riforma del Mes, che recepisce alcune richieste italiane sulle condizioni di utilizzazione del cosiddetto salva-Stati e sul sistema bancario, e quindi al proseguimento del suo iter fino all'approvazione finale nel 2022, prima della definitiva ratifica da parte dei parlamenti dei singoli Stati. Tra questi un nutrito gruppo di parlamentari della corrente di Di Battista e Casaleggio capeggiati dall'ex ministra per il Sud, Barbara Lezzi, e della destra nostalgica del governo con la Lega, come il trumpiano Raphael Raduzzi; ma tra i contrari anche personaggi di spicco come il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, il senatore Elio Lannutti, e altri.
Per questi cosiddetti “irriducibili”, il no al Mes era un principio identitario irrinunciabile del M5S, caduto il quale il movimento avrebbe finito di esistere, e non si contentavano della linea espressa dal reggente Crimi, da lui sintetizzata nella direttiva: “l'Italia non ha bisogno del Mes. Al contempo non impediamo l'approvazione delle modifiche al trattato”. Linea mutuata direttamente da quella di Conte, che nel tentativo di disinnescare l'insidiosa mina aveva ribadito in più di un'intervista, anche a costo di irritare PD, IV e LeU, che in ogni caso l'Italia non avrebbe utilizzato il Mes, neanche quello per la sanità formalmente privo di condizioni: “Il Mes non ci serve, l'Italia non ne ha bisogno”, andava infatti ripetendo ad ogni occasione il premier.
 

Rischio concreto di caduta del governo
Interveniva per sedare gli animi anche Di Maio, chiamando al telefono ad uno ad uno i riottosi, da una parte blandendoli col dichiararsi d'accordo con loro che la riforma del Mes era addirittura “peggiorativa”, dall'altra minimizzando l'importanza del sì alla sua approvazione perché il Mes “non avrà mai i numeri in aula”. Tradotto: votiamo sì oggi sennò il governo cade e si va a votare (sottotesto: e pochi di noi saranno rieletti, vuoi per aver esaurito i due mandati come il sottoscritto, vuoi per il taglio dei parlamentari da noi voluto e per il crollo dei consensi al M5S), tanto lo potremo sempre bocciare al momento della ratifica finale in parlamento.
Tra rassicurazioni, blandizie e minacce di espulsione dal movimento, la spaccatura rischiava di aggravarsi con un post di Grillo che galvanizzava la minoranza antieuropeista del movimento: il Mes, sentenziava il “garante” del M5S, “è uno strumento inadatto e del tutto inutile, sono soldi a debito, incaponirsi è una perdita di tempo”. Come se anche i soldi del Recovery fund non fossero altrettanto a debito, almeno per la maggior parte, mentre per il resto non fossero già stati pagati in parte con le quote italiane al bilancio europeo. È dovuto intervenire a questo punto Conte a cercare di raddrizzare la barca del M5S, che rischiava di sbandare pericolosamente verso la crisi di governo: “Guido un governo europeista – sottolineava il premier -, saremo protagonisti della riforma del Mes e del Recovery fund insieme a Berlino e Parigi, e il M5S sta completando la svolta pro-UE”.
Il momento era grave, e rischiava di portare dritti alla caduta del governo e alle elezioni anticipate, perché la maggioranza per il sì era risicata, soprattutto al Senato, e per il governo non c'era nemmeno da sperare nei voti di Forza Italia, dato che Berlusconi, per non rischiare una grave spaccatura della coalizione di “centro-destra”, aveva dovuto allinearsi alla posizione di rigido no al Mes imposta da Salvini e Meloni. Una bocciatura della riforma del Mes in parlamento avrebbe voluto dire infatti il fallimento dell'euro summit e dello sblocco del Recovery fund , e in una legislatura che Mattarella considera europeista, messa in crisi da una maggioranza antieuropeista, il capo dello Stato non avrebbe potuto che considerarla senza sbocco e mandare il Paese al voto.
 

L'escamotage per far ingoiare il Mes ai riottosi
Con questa spada di Damocle sulla testa, si è così arrivati all'ultimo tuffo, dopo un'estenuante trattativa tra i partiti di governo, ad un accordo per un compromesso che potesse essere digerito almeno dalla maggioranza del gruppo dei dissidenti senza perdere troppo la faccia, ripetendo lo schema degli ormai ben noti precedenti del Tap, dell'Ilva, della Tav e di tutte le altre bandiere “irrinunciabili” già ammainate vergognosamente dal M5S. Così che la nuova risoluzione della maggioranza, nel prendere atto delle modifiche apportate al Mes, ribadiva che tale riforma “non può considerarsi conclusiva”, e pertanto nell'invitare il governo “a finalizzare l'accordo politico” in sede di Eurogruppo sulla riforma del Mes, lo invitava anche a “sostenere la profonda modifica del patto di stabilità e crescita prima della sua reintroduzione”, a “superare il carattere intergovernativo dello stesso Mes” (sottraendolo al controllo dei governi per metterlo sotto quello meno arbitrario della Commissione europea, ndr) e a verificare “lo stato di avanzamento dei lavori di questi temi in agenda” prima della ratifica parlamentare del nuovo Mes. La risoluzione impegnava inoltre il governo affinché ogni decisione sul ricorso al Mes sanitario “sia assunta solo a seguito di un preventivo ed apposito dibattito parlamentare”.
Con questo escamotage, riassumibile sostanzialmente con la formula: ingoiamo oggi il rospo del vecchio Mes già un po' migliorato, ma con la promessa che sarà tramutato in principe in corso d'opera prima della ratifica finale, grazie al nuovo clima che si è creato in Europa per reagire alla pandemia, il grosso del dissenso interno ai 5 stelle è rientrato, a cominciare dai big Lezzi, Morra e Lannutti. E la risoluzione della maggioranza sul Mes è potuta passare alla Camera con 297 sì, 256 no e 7 astensioni; e, sia pure in maniera più risicata, anche al Senato con 156 sì, 129 contrari e 2 astenuti.
Ciononostante una pattuglia di “irriducibili” pentastellati, ma sempre di una certa consistenza, è rimasta sulle sue posizioni ed ha votato contro o non ha voluto partecipare al voto: 9 assenti e 2 contrari al Senato, e ben 13 contrari alla Camera, in tutto una decina di senatori e circa 25 deputati che hanno votato contro o non hanno partecipato al voto. Quattro deputati sono poi usciti dal movimento accusandolo di aver “tradito il programma” e sono approdati nel gruppo misto. Nel frattempo se ne erano già andati quattro euro deputati capeggiati da Ignazio Corrao, fedelissimo di Di Battista. A dimostrazione del fatto che la crisi del M5S è inarrestabile e che questo movimento sta andando verso la frantumazione e l'estinzione man mano che si integra irreversibilmente col potere politico e il regime capitalista neofascista.
 

La crisi si sposta sulla fronda di Renzi
Solo i rappresentanti di Italia Viva non hanno voluto firmare la risoluzione sul Mes, riservandosi di dare il sì in aula solo dopo aver sentito l'intervento di Conte. Il quale in aula non ha fatto altro, in sostanza, che ripetere e inzuccherare ulteriormente i passaggi della risoluzione di compromesso. Il fatto è che mentre rientrava la fronda pentastellata stava montando quella di Renzi contro Conte, accusato dal leader di IV, sempre in cerca di maggior spazio nel governo, o in alternativa di un pretesto per farlo cadere e aprire la strada ad un “governissimo” strizzando l'occhio a Berlusconi e persino a Salvini, di voler creare con la sua idea di struttura piramidale del Recovery plan un “governo parallelo” per accentrare tutta la gestione dei 209 miliardi ed ignorare i vari ministri competenti, il parlamento, le Regioni, i Comuni e persino le Onlus e i sindacati.
Questa ed altre accuse al premier Renzi le ha ripetute in aula con un intervento durissimo (a tratti surreale dato che molte delle cose di cui accusava Conte le aveva fatte prima lui da premier), accompagnato da applausi e incitamenti provenienti dai banchi della destra, ma anche da diversi senatori del PD capeggiati da Zanda. E alla fine Salvini è andato a complimentarsi con lui. Il suo intervento, oltre a mandare all'Eurogruppo un Conte fortemente indebolito dalla sua stessa maggioranza, ha riaperto una crisi di governo che sembrava risolta dopo il tamponamento della falla nel M5S. Anche perché stavolta Zingaretti e Di Maio non hanno fatto quadrato attorno al premier: il primo perché da tempo dava segni di insofferenza per il protagonismo di Conte e il suo continuo rinviare i dossier più scottanti, il secondo per la ben nota rivalità personale con Conte. Tutto ciò ha portato alla cosiddetta “verifica” che è attualmente in corso tra i partiti di governo per cercare di disinnescare le minacce di Renzi di uscire dalla maggioranza.
 

Il voto sul Mes è un'altra stretta al cappio sull'Italia
Da parte sua Salvini, fiutando la possibilità di nuovi scenari politici, ha fatto al contrario un intervento insolitamente “misurato”, lasciando ai suoi mastini antieuropeisti Borghi e Bagnai e alla ducetta Meloni e i toni truculenti e le accuse di “traditori della patria” agli avversari, e passando già a nuovi temi in agenda. Tant'è che dopo aver elencato una serie di problemi urgenti da affrontare, dai ristori ad artigiani e commercianti alla scuola, dall'Ilva agli spostamenti per Natale, ha così concluso il suo intervento: “Presidente Conte, se ha voglia di parlare di questo e non di rimpasti e poltrone, la Lega e l'intero centrodestra sono a disposizione”. Pare infatti, come dimostrerebbero certe reazioni allarmate della Meloni e quelle invece compiaciute di Berlusconi, che l'aspirante duce, considerato chiuso anche per lui il capitolo Mes, spinto anche da Giorgetti stia riprendendo in considerazione l'idea di un “governo di larghe intese”, e che stia intensificando i contatti con Renzi attorno a questa ipotesi.
Resta il fatto che con il voto del 9 dicembre, dopo quello del 19 luglio 2012 in cui le Camere approvarono il Mes insieme al famigerato “fiscal compact”, già accettato peraltro nel 2011 dal governo Berlusconi di cui faceva parte anche la Lega, è stato stretto ulteriormente il cappio al collo all'Italia. Questo perché il Mes, con o senza la riforma approvata dal parlamento, resta sostanzialmente quel meccanismo perverso che ha già messo in ginocchio la Grecia e che per un Paese come il nostro, con un debito pubblico che ha raggiunto il 160% del Prodotto interno lordo, può rappresentare un vero e proprio capestro, consegnando ad un gruppo ristretto di Paesi europei “forti” il potere insindacabile di ristrutturare il nostro debito facendone pagare il prezzo in lacrime e sangue ai lavoratori e alle masse popolari italiane, con pesanti tagli alle pensioni, ai servizi sociali, ai salari e ai diritti sindacali.

16 dicembre 2020