Verso il Conte 3? Se non è zuppa è pan bagnato
Solo il socialismo e il potere politico del proletariato possono salvare l'Italia

Avevamo lasciato i due galli che si becchettano per la supremazia nel pollaio del capitalismo, Conte e Renzi, a poco prima di Natale, quando il leader di Italia Viva aveva recapitato il suo ultimatum al premier su tutta una serie di richieste “irrinunciabili”: da una raffica di modifiche al Recovery plan alla rinuncia alla delega ai servizi segreti, dall'uso del Mes per la sanità su cui pende il veto del M5S alle “riforme” istituzionali e della giustizia. Dandogli appuntamento alla Befana per avere risposte soddisfacenti, altrimenti avrebbe staccato la spina al governo ritirando la delegazione di IV, le due ministre Bellanova e Bonetti e il sottosegretario Scalfarotto.
Nel frattempo però Renzi ha continuato ad alzare la posta, mostrando di non accontentarsi di avere una voce in capitolo decisiva sul piano di rilancio economico finanziato coi soldi europei e di un rimpasto di governo a suo netto vantaggio, a cui Conte si era pur rassegnato ad adattarsi, ma di mirare più in alto, all'estromissione dello stesso Conte da Palazzo Chigi, dal quale lo separa ormai un'avversione politica oltreché personale. Almeno così sembra, a giudicare dall'escalation di dichiarazioni, attacchi, minacce e provocazioni che il leader di IV ha inscenato ogni giorno all'indirizzo del premier.
A cominciare, il 28 dicembre, dalla presentazione di una sorta di suo contropiano al Recovery plan di Conte e Gualtieri, da lui definito un piano “senz'anima”, un “collage raffazzonato di pezzi di diversi ministeri”. Un contropiano che lui aveva denominato “Ciao”, acronimo di “Cultura, Infrastrutture, Ambiente, Opportunità”, ma diretto chiaramente a suonare come un beffardo messaggio alle orecchie di Conte. Seguìto dalle dichiarazioni della Bellanova che “questo governo è al capolinea”; dalle dichiarazioni della delegazione di IV, al termine dell'incontro con i ministri Gualtieri e Amendola sulle modifiche al Recovery, che “le distanze con il governo rimangono abissali”; dalla richiesta provocatoria del capogruppo di IV al Senato, Faraone, di inserire nel Recovery il ponte sullo stretto di Messina e così via. Il tutto alternato con reiterate riproposizioni del Mes, per finire con il ritirare fuori, con l'occasione dell'assalto dei trumpiani al parlamento di Washington e della debole e reticente risposta di Conte, la vicenda della visita che il procuratore americano, William Barr, fece ai nostri servizi segreti nell'estate 2019 per trovare prove a conferma di un complotto ai danni di Trump sull'affare Russiagate; servizi che Conte mise a sua disposizione ottenendone in cambio il famoso tweet di appoggio all'”amico Giuseppi”.
 

Le tre opzioni del nuovo Ghino di Tacco
Gli scenari a cui Renzi stava mirando erano tre. Il primo, quello minimo, è un governo Conte 3, con una compagine ministeriale completamente rinnovata e magari l'inserimento di un vicepresidente del PD per limitare i poteri di Conte. Ma vuole che prima quest'ultimo dia le dimissioni aprendo una crisi formale, per poi aprire la trattativa su ministri e programma. Conte però, memore del famoso “Enrico stai sereno”, non si fida del “bomba” di Rignano, teme che una volta dimessosi quest'ultimo ponga il veto sul suo nome nelle trattative per formare il nuovo governo.
Infatti il secondo scenario, e probabilmente quello su cui Renzi punta di più, è un nuovo governo con la stessa maggioranza ma senza Conte, con un premier del PD come per esempio Franceschini. Da quel giocatore d'azzardo che è, si è convinto che né il PD né il M5S vogliano le elezioni anticipate, e siano disposti perciò a sacrificare Conte e accettare questa soluzione piuttosto che rassegnarsi ad andare al voto. In entrambi gli scenari punta ovviamente ad ottenere ministeri di peso per i suoi fedelissimi, con in testa Rosato e la Boschi.
Il terzo scenario, un po' più astratto al momento, è quello di un governo di unità nazionale o di scopo, possibilmente a guida Draghi, con la partecipazione del “Centro-destra” o almeno di suoi pezzi, visto che la Meloni ha già messo il suo veto. Scenario gradito a Berlusconi e che forse attirerebbe anche Salvini, scettico sulla possibilità di andare al voto in questa situazione, tanto che il dialogo segreto tra i due Mattei, con la mediazione del galeotto Verdini, non è mai stato così intenso come ora.
In tutti e tre i casi Renzi sarebbe l'ago della bilancia e il dominus della situazione. Una strategia che ha imparato dal suo maestro Craxi, da cui ha ripreso e rivestito i panni del bandito Ghino di Tacco, fin da quando ha deciso di uscire dal PD, poco dopo la nascita del governo Conte 2 da lui stesso voluto, proprio per tenersi le mani libere in vista di situazioni come queste.
 

La tentazione parlamentare di Conte
Quanto a Conte la sua sorte è quantomai incerta. La sua strategia si basava su due fronti: galleggiare sulle contraddizioni tra il PD e il M5S, rinviando tutte le questioni più invise a quest'ultimo (decreti Salvini, Mes, legge elettorale ecc.) e accentrare il più possibile il potere nelle proprie mani, approfittando dello stato di emergenza per blindarsi a Palazzo Chigi e intanto preparare il suo partito per le prossime politiche. Finché però non ha fatto il passo falso della fondazione sulla cybersicurezza per aumentare il suo controllo personale sui servizi segreti e della struttura piramidale per prendere direttamente in mano la gestione del Recovery plan, dando a Renzi il pretesto per mettere in discussione la sua capacità di governo e di essere all'altezza dei problemi del Paese. Anche perché stavolta il PD, stufo della strategia dilatoria e accentratrice di Conte, tutto sommato gradiva un suo ridimensionamento e almeno in un primo tempo ha dato corda alle intemerate di Renzi.
Sentendosi con le spalle al muro Conte ha avuto - e continua ad avere tutt'ora anche a causa dei continui rilanci della posta da parte di Renzi - la tentazione di uscirne sfidandolo ad un confronto in Senato, come fece con Salvini nell'agosto 2019, accarezzando l'idea di trovare in aula i voti che gli mancherebbero se IV gli togliesse la fiducia. Voti che potrebbero arrivare da una manciata di “responsabili” transfughi di Forza Italia e altri gruppi minori di marca Udc come Mastella.
Uno scenario, questo della resa dei conti in Senato, che preoccupava non poco Mattarella, con la prospettiva della caduta del governo in aula e delle elezioni anticipate in piena pandemia e col Recovery e altri provvedimenti urgenti che salterebbero, oppure di un governo sostenuto da una maggioranza raccogliticcia e di corto respiro. E preoccupava anche il PD, che metteva in campo i suoi mediatori, il capo delegazione Franceschini e il consigliere di Zingaretti, Goffredo Bettini, per convincere il premier a trattare su certe richieste, condivise anche dal Nazareno, come le modifiche al Recovery e la delega ai servizi, e convincere Renzi ad accettare un patto di legislatura e una “crisi pilotata” che potesse portare senza rischi ad un Conte 3 con una compagine e un programma nuovi. Per Zingaretti, infatti, era assolutamente da evitare una “crisi al buio dagli sviluppi imprevedibili” ed occorreva invece “un rafforzamento della maggioranza attorno al presidente Conte e un patto di legislatura”.
 

Gli sforzi del PD e di Mattarella per un Conte 3
È così che a poco a poco Conte ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Ha dato via libera a Gualtieri per trattare con IV e gli altri partiti della maggioranza sulle modifiche al Recovery plan, che non conterrà per adesso il tema della struttura di gestione; via dal piano anche la fondazione sulla cybersicurezza e i suoi 2,5 miliardi di finanziamento, che Conte aveva tentato di reintrodurre con un diverso nome. E Conte si dichiarava disposto anche a cedere la delega ai servizi, probabilmente alla Lamorgese, liberando l'Interno per un ministro del PD o di IV, e così via.
Renzi aveva chiesto anche che tutti i soldi in prestito fossero destinati a nuovi progetti anziché in parte a progetti già in essere. Gualtieri era contrario perché avrebbe fatto aumentare troppo il debito pubblico, ma lo ha accontentato in buona misura dato che i progetti “aggiuntivi” salgono da 52 a 143 miliardi e i “sostitutivi” scendono da 75 a 66. Si inverte anche, rispetto alla prima bozza, il rapporto investimenti/incentivi, con i primi che salgono al 70% e i secondi che scendono al 21,4%.
Tutte queste trattative, beninteso, avvenivano durante la prima decade di gennaio sempre sotto il fuoco incrociato delle dichiarazioni e delle minacce di Renzi e dei suoi tirapiedi e dei continui ripensamenti di Conte, sempre tentato di andare alla conta in parlamento con l'idea (o l'illusione, alimentata dal suo consigliere Casalino secondo cui Renzi sarebbe stato “asfaltato” in aula) di sbarazzarsi di lui una volta per tutte. Al punto che ancora alla vigilia del Consiglio dei ministri del 12 gennaio, che avrebbe dovuto votare sul Recovery plan modificato ed inviato ai partiti della maggioranza per esaminarlo, Renzi confermava che avrebbe ritirato le sue ministre e aperto la crisi proprio in quel cdm. Ciò spingeva Mattarella ad intervenire con la sua “moral suasion” per convincere Renzi a votare almeno il Recovery in cdm e metterlo in sicurezza permettendo la sua presentazione e approvazione in parlamento, prima di provocare una crisi al buio.
Questo avrebbe dovuto dare anche il tempo alle forze di maggioranza per esplorare i margini per una “crisi pilotata” e una sua rapida soluzione con la formazione di un Conte 3. Ma Renzi su questo non si impegnava e garantiva solo che le sue ministre avrebbero votato o al limite si sarebbero astenute sul Recovery, continuando a non scoprire le sue carte sulle sue vere intenzioni.
 

La via maestra è sempre la lotta di classe
È a questo punto che Conte, a poche ore dal Cdm, ha deciso di andarle a vedere quelle carte, con la mossa di un duro comunicato di Palazzo Chigi che così recitava: “Se il leader di IV Matteo Renzi si assumerà la responsabilità di una crisi di governo in piena pandemia, per il presidente Giuseppe Conte sarà impossibile rifare un nuovo esecutivo con il sostegno di IV”.
Una dichiarazione di guerra in piena regola, subito sostenuta e rilanciata da diversi esponenti del M5S ma accolta con sconcerto al Quirinale e dal PD, perché confermava che ormai Conte preferiva la pericolosa strada della sfida in parlamento piuttosto che quella della trattativa. Da parte sua Renzi ha raccolto la sfida, ironizzando sul “governo Conte-Mastella” che sta per nascere, e dopo aver fatto astenere in Cdm le sue due ministre sul Recovery cambiato, con il pretesto che “non conteneva il Mes”, non le ha ritirate subito, ma ha annunciato una conferenza stampa per il pomeriggio del 13 (non ancora avvenuta mentre scriviamo) in cui chiarirà se ritirerà la sua delegazione dal governo o se ci sarà ancora qualche margine per trattare per un Conte 3.
Quel che si può già dire è che dal punto di vista di classe, se anche ce la facesse a nascere, il governo Conte 3 sarebbe altrettanto e ancor più trasformista, liberale e al servizio del capitalismo dell'attuale Conte 2, e con molti più galli stavolta a contendere la supremazia al dittatore antivirus Conte, che ne uscirebbe comunque indebolito. Peggio ancora se il governo Conte 2 sopravvivesse grazie ad una provvidenziale stampella di Berlusconi tramite un manipolo di “responsabili”.
Se non è zuppa è pan bagnato, insomma. Gli squallidi giochi di potere nel pollaio del capitalismo a cui stiamo assistendo confermano che non la via elettorale e parlamentare, ma solo la lotta di classe è la via maestra per il proletariato e tutte le masse lavoratrici e popolari per difendere giorno per giorno i propri diritti e i propri interessi di classe e strappare migliori condizioni di vita, di lavoro e di salute. E sul piano strategico che solo il socialismo e il potere politico del proletariato possono salvare l'Italia da un futuro di maggior sfruttamento, miseria e fascismo a cui il capitalismo cercherà di portarla per sopravvivere alla crisi.

13 gennaio 2021