Da 50 anni ogni giorno instilla una goccia di veleno anticomunista
"Il manifesto'' trotzkista rimpiange il PCI revisionista
Castellina: ''Mettiamo a frutto il genoma Gramsci"

Nostalgia del partito revisionista di Gramsci, Togliatti e Berlinguer: si può riassumere così l'operazione politica che “il manifesto” trotzkista ha fatto con l'inserto di 12 pagine nel numero del 21 gennaio dedicato al centenario della fondazione del PCI. L'inserto, dal titolo “Profondo rosso”, per alludere forse alla situazione disastrosa attuale della “sinistra” erede di quel partito, ospita articoli di ex dirigenti politici, storici, economisti e filosofi della sinistra riformista, caratterizzati infatti, in vario modo e misura, da questo rimpianto nostalgico di quello che fu il PCI e di ciò che sarebbe potuto diventare oggi se non si fosse autoliquidato nel 1991.
 

Castellina, il “genoma Gramsci” e la “sciagura di Livorno”
La trotzkista Luciana Castellina, per esempio, a oltre cinquant'anni dalla sua espulsione con il gruppo del Manifesto, rivaluta ed esalta il PCI revisionista e la sua strategia riformista, rispondendo così a chi gli chiede perché a distanza di 100 anni dalla sua fondazione si dice ancora comunista: “Innanzitutto per via della storia dei comunisti italiani, entro cui metto naturalmente anche i comunisti del Manifesto e del PdUP, che ne hanno costituito un arricchimento. Nonostante errori anche gravi, sono stati i soli che hanno cercato di avviare quel lungo processo che avrebbe potuto portare anche in Occidente alla costruzione di una società alternativa”. Un “lungo processo” riformista per una “società alternativa” non meglio specificata: parole che ben si attagliano alla strategia del PCI revisionista di Togliatti e Berlinguer, e che sono l'opposto della via leninista della rivoluzione socialista.
E a chi gli chiede che cosa oggi “è ancora valido dell'esperienza del PCI” e che può essere trasmessa alle giovani generazioni, da buona trotzkista risponde: “Mettete finalmente, pienamente a frutto il 'genoma Gramsci' che finora ci ha protetto ma ha ancora riserve inesplorate da sfruttare”. Che poi sarebbero “l'idea gramsciana del partito come 'intellettuale collettivo' impegnato a ridurre via via la distanza tra dirigenti e diretti, e che la coscienza la costruisce insieme”, e le “ipotesi consiliari” portate avanti a Torino dal suo gruppo dell'Ordine Nuovo . Anche se le fabbriche dei Consigli degli anni '70 non ci sono più, aggiunge Castellina, “ancor più feconda potrebbe essere questa ipotesi in rapporto a territori dove si intrecciano soggetti sociali frantumati e diversi, espressione di contraddizioni non omogenee. I consigli potrebbero essere organismi riunificanti, forme di organizzazione in qualche modo simili al 'sindacato di strada' di cui Maurizio Landini ha parlato nel suo primo discorso da segretario della Cgil”.
La sua è quindi la concezione revisionista gramsciana del partito di massa, adatto alla lunga “guerra di posizione” per la conquista dell'”egemonia” della società (da cui Togliatti ha rielaborato la “via italiana al socialismo”), in contrapposizione alla concezione leninista dell'avanguardia cosciente e organizzata del proletariato per guidare le masse all'abbattimento del capitalismo e alla conquista del potere politico. Così come l'idea dei Consigli, che per Gramsci non avevano la funzione rivoluzionaria dei Soviet ma erano inquadrati nella suddetta strategia riformista, viene riciclata oggi da Castellina per surrogare in chiave spontaneista, movimentista e trotzkista l'idea stessa di partito del proletariato che lei considera estinta per sempre insieme al PCI revisionista. Non per nulla a Ezio Mauro, che la intervista nel suo video trasmesso da Rai3 per condannare storicamente e politicamente la scissione di Livorno, Castellina esprime il suo giudizio su quell'evento usando le parole di Gramsci: “Una rottura necessaria e insieme una sciagura”.
 

Tortorella e la nostalgia di Berlinguer
Se Castellina si rifà alle radici gramsciane del PCI per evitare di affrontare il tema del suo revisionismo di destra, Aldo Tortorella, ultimo presidente del PCI prima della sua liquidazione, lo rivendica invece con orgoglio, affermando che il PCI di Togliatti al suo ritorno in Italia alla fine del 1943, “aveva un programma e un'organizzazione rovesciata, rispetto al 'Partito comunista d'Italia, sezione italiana dell'Internazionale comunista'”. Infatti Togliatti non porta con sé solo la “svolta di Salerno”, ma anche “l'idea di un 'partito nuovo' cui si aderisce per programma e non per ideologia. E il programma non è più la 'dittatura del proletariato', ma la 'democrazia progressiva'”. “La difesa della Costituzione – aggiunge Tortorella - diventa la politica del PCI. Il capolavoro di Togliatti fu nell'unione delle due anime – la destra e la sinistra, i riformisti e i rivoluzionari – del movimento di origine socialista”. Le aveva riunite nel revisionismo e nel riformismo, cioè ritornando al PSI di Turati nella sostanza e mantenendo di comunista solo il nome, aggiungiamo noi.
Quanto a Berlinguer, conclude Tortorella con palese nostalgia, egli “verrà scelto come il più fedele interprete della linea togliattiana, e la teoria del 'compromesso storico' lo conferma”. Cercò poi di rifondare il partito sulla base della “democrazia valore universale” e sulla “fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d'Ottobre” per evitare la sua liquidazione, ma questo processo finì con la sua morte e l'ascesa delle destra governista che compì l'opera. In realtà Berlinguer fu uno dei principali anelli della catena revisionista e riformista che da Gramsci e Togliatti porta fino alla stagione neoliberale dei Napolitano, Occhetto, D'Alema, Fassino e compagnia bella che si incaricò di celebrare ufficialmente le esequie del PCI.
 

Troppo lenta l'adesione della sinistra al liberismo per Rodano
Anche per Giorgio Rodano, economista della Sapienza e figlio di Franco storico dirigente cattolico del PCI revisionista, “dopo la svolta togliattiana, il progetto politico non era più quello di 'fare come in Russia', ma diventava quello di lavorare per realizzare in Italia un regime democratico e progressivo”. Semmai la critica che rivolge alla politica economica del PCI revisionista è di destra, di stampo liberista, in quanto il partito togliattiano sbagliò la politica verso le partecipazioni statali, e invece di incoraggiare il loro ruolo come regolatore e stimolatore del mercato (capitalista, ndr), le considerò come strumenti “per perseguire finalità sociali”. Col risultato che queste continuarono “a coltivare spazi di mercato e, come contropartita, a finanziare la politica”. “Dentro il PCI il cammino verso l'accettazione del mercato è stato molto lento”, si rammarica Rodano, ed è probabile “che anche questo abbia contribuito al declino del PCI”. Insomma, la sua adesione al liberalismo è stata troppo lenta ed è avvenuta troppo tardi per evitare la sua liquidazione.
 

Canfora e il rimpianto della socialdemocrazia
Anche lo storico Luciano Canfora sostiene come Tortorella che il PCI è altra cosa dal PCd'I di Livorno, e che “nasce veramente nel 1944 con una dimensione nazionale”, senza negare però che nel rifondarlo Togliatti si ispirò “largamente” al pensiero di Gramsci. Ma il PCI non riuscì poi a intercettare le istanze del Sessantotto, Berlinguer fu “ondivago” e Occhetto fu “folle” a decidere il suo scioglimento. “In un certo senso – è questo il rimpianto di Canfora – il vero disastro della storia politica italiana è stata la scissione di Saragat che ha reso sconveniente un termine nobilissimo come socialdemocratico, il nome del partito di Engels e Marx, di Kautsky, di Rosa Luxemburg”. In realtà, caro professor Canfora, esso fu reso “sconveniente” ben prima, quando giustamente Lenin smascherò Kautsky e i socialdemocratici, anche italiani, come traditori del movimento operaio e servi della borghesia, al punto di condurre il proletariato e i contadini europei come vittime sacrificali nel macello della prima guerra mondiale imperialista.
 

Il rimpianto della DC e dei vecchi liberali
Per Michele Prospero, docente di Filosofia della Sapienza, editorialista e membro della Direzione di Sinistra italiana, che fa risalire anche lui la vera nascita del PCI al 1944 col partito di massa togliattiano, che sceglie la “democrazia rappresentativa” e gli “elementi di socialismo graduali, il realismo politico e il radicamento nella società, l'insediamento nella cultura” ecc., a differenza di Tortorella non data la fine del partito alla morte di Berlinguer ma all'elezione di Occhetto alla segreteria.
Una svolta, quella di Occhetto, che cavalcando Tangentopoli, secondo Prospero ha avuto risvolti antesignani del populismo e dell'antipolitica, e che “ha avviato un'onda lunga che ha lesionato le strutture dell'organizzazione statale”: Una “parabola discendente da un sistema di partito in cui nei tempi migliori la sinistra alle elezioni aveva il volto di Berlinguer, De Martino, Magri e il centro moderato contava su Zaccagnini, La Malfa, Saragat, Zanone, oggi tocca scegliere tra Conte, Renzi, Salvini, Meloni”. Siamo arrivati a rimpiangere la DC e i vecchi liberali, repubblicani e socialdemocratici, insomma. E meno male che per i trotzkisti de il manifesto “non moriremo democristiani”!
 

Il “riformismo rivoluzionario” di Pintor
E a proposito di chi coniò quel famoso quanto incauto slogan nel lontano 1983: non poteva mancare la ripubblicazione di un editoriale di Luigi Pintor del 2001 in occasione dell'ottantesimo anniversario della scissione di Livorno (in quel periodo c'era il governo di “centro-sinistra” Amato, con democristiani come Mattarella alla Difesa, Franceschini sottosegretario alla presidenza del Consiglio e Letta all'Industria), in cui a un certo punto, a proposito della liquidazione del PCI di dieci anni prima, si afferma: “Avere reciso questa radice, questa particolarità della storia nazionale, è la colpa imperdonabile dei nipotini e bisnipotini del 1921. E' la causa dello snervamento, dello smarrimento, dell'anonimato della sinistra di oggi, ciò che le impedisce di prospettare o anche solo di desiderare una società giusta: di essere un'autentica forza riformatrice e perciò rivoluzionaria”.
Quindi già vent'anni fa i trotzkisti de “il manifesto” rimpiangevano il PCI revisionista , tanto da esaltarlo come modello “rivoluzionario” proprio in quanto riformista, in contrapposizione alla sinistra neoliberale degli allora DS al governo insieme agli ex democristiani e craxiani. E infatti fin da quando sono nati la loro funzione è stata quella di coprire a sinistra prima il PCI revisionista, e poi i suoi succedanei neoliberali PDS, DS e PD, seguendoli sempre d'appresso nel loro progressivo spostamento a destra. E per oltre cinquant'anni hanno instillato giorno per giorno una goccia di veleno anticomunista per avvelenare il proletariato, confondere le idee agli anticapitalisti e sinceri fautori del socialismo, e soprattutto per non far loro prendere coscienza che la storia del proletariato italiano non è finita con la liquidazione del PCI revisionista ma continua col PMLI.
 

27 gennaio 2021