In occasione dell'ottantesimo anniversario dell'occupazione nazifascista della Jugoslavia
Importante mostra sui crimini commessi dai soldati di Mussolini in Jugoslavia
Tra il 1941 e il '43 teste di partigiani slavi infilate nei pali, villaggi bruciati, bambini scheletrici reclusi nei campi di Arbe, strupri e deportazioni

A Trieste, in occasione dell'80° anniversario del bombardamento nazista di Belgrado del 6 aprile 1941, che diede il via all'occupazione e alla disgregazione della Jugoslavia da parte degli eserciti di Hitler e Mussolini, è stata inaugurata un'importante mostra in digitale che ricostruisce e documenta, per la prima volta in Italia a beneficio del grande pubblico e non dei soli storici, i crimini e le efferatezze compiute dall'esercito italiano nelle zone occupate, che furono la Slovenia del Sud con tutta la provincia di Lubiana, parte della Croazia e della costa della Dalmazia, il Montenegro.
In 10 sezioni comprendenti 54 pannelli, circa 200 fotografie e documenti d'epoca, e 81 interventi in video di studiosi italiani, sloveni e croati, si ricostruisce una storia terribile da sempre nascosta e sepolta sotto il mito creato ad arte degli “italiani brava gente”, facendo emergere i massacri di partigiani e di civili, i villaggi bruciati e saccheggiati, gli stupri e le deportazioni nei campi di internamento in cui trovarono la morte per fame, freddo e malattie migliaia di vecchi, donne e bambini. Crimini non inferiori a quelli ben più noti commessi dalle truppe naziste ma per i quali nessun responsabile italiano ha mai pagato.
La mostra, intitolata “A ferro e fuoco. L'occupazione italiana della Jugoslavia 1941-43” e visitabile sul sito: www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it, è stata organizzata dall'Istituto Ferruccio Parri, dall'Istituto regionale storia della Resistenza e dell'Età contemporanea del Friuli Venezia Giulia e dall'Università di Trieste, con la partecipazione della Biblioteca nazionale slovena e degli studi di Trieste e altri istituti sloveni e con il contributo della Regione FVG. Essa ha avuto anche il patrocinio della Camera dei deputati, e si spera che questa non sia solo un'iniziativa di facciata ma un primo passo per un'assunzione di responsabilità istituzionale verso il ristabilimento della verità storica.

L'invasione nazifascista e la nascita del movimento di resistenza
La mostra ricostruisce con estrema sintesi e chiarezza l'invasione della Jugoslavia e la spartizione del suo territorio tra la Germania e l'Italia e le nazioni confinanti alleate o satelliti dei nazifascisti (Ungheria, Albania, Bulgaria), la ribellione delle popolazioni occupate iniziata già all'indomani dell'invasione, quasi sempre guidata dai comunisti, e la strategia delle truppe occupanti italiane di appoggiarsi ai fascisti ustascia di Ante Pavelic in Croazia e Dalmazia, e ai nazionalisti cetnici serbi in Montenegro, organizzazioni ferocemente nemiche tra di loro e responsabili di sanguinosi massacri e pulizie etniche, ma usate entrambe dagli italiani per combattere contro i partigiani comunisti. Così come, per quanto riguarda la Slovenia, ricostruisce molto bene la feroce repressione della ribellione popolare, al di qua e al di là del confine, attraverso centinaia di condanne del tribunale speciale fascista, la fucilazione di decine di ostaggi, il ruolo della chiesa cattolica anticomunista e collaborazionista, la formazione di una milizia slovena anticomunista, fino ad arrivare alla fine del 1942, per ordine del generale Robotti, a circondare l'intera città di Lubiana col filo spinato per impedirne i contatti con la campagna, facendo di essa un gigantesco campo d'internamento.
Mano a mano che nei territori occupati cresce e si sviluppa la resistenza popolare e partigiana, cresce anche in maggior misura la ferocia della repressione da parte degli occupanti. Nel luglio 1941 in Montenegro la rivolta popolare si trasforma in insurrezione generale, guidata dai partigiani comunisti. Tutte le guarnigioni italiane vengono attaccate ed espugnate nel giro di due settimane, con un migliaio di morti e tremila feriti tra le truppe italiane. I comandi italiani inviano in Montenegro il generale Pirzio Biroli al comando di almeno 70.000 uomini che mette a ferro e fuoco la regione, riconquistandola a prezzo di almeno 5.000 vittime nella popolazione. Nel marzo 1942 vengono creati i campi d’internamento di Mamula (un’isola con un carcere-fortezza) e Prevlaka, ove vengono deportati ostaggi sospettati di collaborare con i partigiani, uomini e donne. Vi perdono la vita circa 500 detenuti, compresi gli ostaggi giustiziati per rappresaglia.
 

Le direttive brutali di Mussolini e degli alti comandi
Particolarmente ben documentata è la sezione dedicata alla repressione delle popolazioni occupate e alle stragi commesse dall'esercito fascista. La circolare 3C del 1° marzo 1942 inviata dal generale Roatta raccomanda per esempio di “internare, a titolo protettivo, precauzionale o repressivo, famiglie, categorie di individui della città o campagna, e, se occorre, intere popolazioni di villaggi e zone rurali”; di prendere ostaggi tra la popolazione e considerare corresponsabili dei sabotaggi gli abitanti delle zone vicine, deportare entrambi nei campi, confiscare il loro bestiame e bruciare le loro case: “Si sappia bene – concludeva questo criminale di guerra - che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti”.
La stessa ferocia spietata degna delle peggiori belve naziste si ritrova negli ordini del generale Robotti, che prescrive di passare tassativamente per le armi chiunque venga sorpreso “in atteggiamento sospetto”, “compie comunque atti di ostilità alle autorità o truppe italiane”, i “maschi validi trovati, in qualsiasi atteggiamento, in zona di combattimento... in abitazioni isolate, gruppi di case e centri abitati”, e così via: “Non ammetto che gente colpevole di quanto sopra venga deferita ai tribunali od internata; dev’essere soppressa”, precisa il comandante in capo delle truppe di stanza in Slovenia),
D'altra parte in quella stessa estate del 1942 era stato lo stesso Mussolini a dare queste direttive all'esercito: “Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta”. E nel 1943 così si rivolgeva ai soldati incitandoli a dare libero sfogo agli istinti più efferati contro le popolazioni slave “inferiori”: “So che a casa vostra siete dei buoni padri di famiglia, ma qui voi non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori.”
 

“Gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi”
E l'esercito fascista lo prende in parola: brucia i villaggi, spara ai civili e saccheggia tutto quello che può portare via. La mostra lo documenta in maniera inoppugnabile attraverso le immagini e soprattutto attraverso le lettere dei soldati, come questa agghiacciante di una camicia nera toscana nel luglio 1942: “Abbiamo distrutto tutto da cima a fondo senza risparmiare gli innocenti. Uccidiamo intere famiglie ogni sera, picchiandoli a morte o sparando contro di loro. Se cercano soltanto di muoversi tiriamo senza pietà e chi muore muore […] Anche questa notte vi sono stati cinque morti, due donne, un bambino e due uomini”. O quest'altra di un commissario civile del distretto di Longanatico: “Si procede ad arresti, ad incendi, [...] fucilazioni in massa fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti per il solo gusto di distruggere [...] La frase 'gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi', che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi”.
Nel novembre 1941 un soldato scrive alla famiglia: “Li lasciamo con quei pochi stracci che hanno addosso, tutto il resto è nostra preda. Dapprima catturiamo gli uomini, le pecore, le vacche, il pollame che ce n’è tanto! Poi andiamo a saccheggiare le case e ci prendiamo tutto quello che possiamo portarci sulle spalle, infine concludiamo la pagliacciata appiccando il fuoco alle case; ma noi delle compagnie mortai non abbiamo fortuna perché stiamo sempre dietro e ci resta poco. Sono arrivato in tempo per racimolare 3 kg di lana, 6 matasse …”.
Nel corso dei rastrellamenti le truppe italiane compiono veri e propri eccidi, tra cui quello terribile di Podhum, nei territori annessi alla provincia di Fiume, dove l’8 luglio 1942 un reparto italiano distrugge il paese, considerato una possibile base di appoggio per il movimento partigiano, fucilando tutti i maschi dai 16 ai 65 anni di età, per un totale di 108 persone. Gli altri abitanti, circa 900 tra donne, vecchi e ragazzi, vengono deportati. Case e stalle vengono prima saccheggiate, poi date alle fiamme.
 

La barbarie fascista e il riscatto dei soldati passati coi partigiani
Numerose immagini dell'epoca mostrano tutta l'efferatezza della repressione, con fucilazioni di partigiani e di civili accusati di sostenere l'Esercito popolare di liberazione jugoslavo. Impressionante la scena di una contadina condotta alla fucilazione dai soldati italiani, e ancor più la didascalia di commento scritta a mano sulla foto da un soldato che si premura di specificare “vecchia comunista”, come se il fatto di essere comunista attenuasse la disumanità del crimine. Semplicemente raccapricciante, ma che rende l'idea del grado di barbarie a cui è arrivato l'esercito fascista in Jugoslavia, è la foto di un soldato che esibisce al fotografo come un trofeo la testa di un partigiano conficcata in un palo.
La mostra dà ampio spazio alla guerra di resistenza partigiana, e dà conto anche del contributo dato alla resistenza jugoslava dai soldati italiani, protetti dai partigiani dalle rappresaglie naziste ed entrati nelle formazioni partigiane col disfacimento dell'esercito fascista dopo l'8 settembre 1943. In particolare documenta la formazione e le gesta della Brigata Garibaldi, unitasi alla I Brigata Proletaria dell'EPLJ, e della Brigata Matteotti, entrambe impegnate in durissime e prolungate operazioni militari, partecipando anche alla liberazione di Belgrado nell’ottobre 1944. Trasformate in Divisione Italia, continueranno a combattere fino alla fine della guerra, rientrando in Italia nel maggio 1945.
 

L'infamia dei campi di internamento
Particolarmente impressionante, per la crudezza delle immagini e delle testimonianze è la sezione dedicata ai campi di internamento creati dall'esercito di Mussolini su alcune isole dalmate e in territorio italiano, dove morirono circa 4.000 persone (ma altre fonti parlano di almeno in quadruplo). L’intera popolazione veniva rastrellata ed i villaggi rasi al suolo per fare terra bruciata attorno ai partigiani. Si calcola che siano state deportate nei lager italiani fino a 110 mila persone, per la maggior parte donne, vecchi e bambini, costretti a sopravvivere in condizioni durissime, in tendopoli esposte alla bora d'inverno, come sull'isola di Rab-Arbe, con la fame e le malattie che li riduceva a scheletri viventi, come le foto mostrano impietosamente.
A Gonars, in provincia di Udine, la fame e le malattie mieterono 500 vittime, tra cui 70 bambini. Una lettera di una deportata così descrive alla famiglia la tragedia che gli tocca vivere: “[…] Ora siamo nelle baracche, dove moriamo dal freddo e dalla fame. Vi scongiuro di mandarmi qualcosa da mangiare. Mia figlia Milenka è morta in Arbe; era soltanto pelle ed ossa; il 31 dicembre è morto pure mio padre, con altri 12 uomini. Liberaci da questo campo, dal Golgota della nostra vita…”
Il campo di Renicci, in provincia di Arezzo, ospitava alcune migliaia di deportati provenienti dai campi di Arbe e Gonars, ormai stracolmi. Anche qui si viveva nelle tende, nella neve e nel fango d'inverno e sotto il sole rovente d'estate. “Dunque, quell’inverno (1942-43) fu terribile. S’arrampicavano sulle querce, mangiavano le ghiande e poi morivano per male alla pancia. Ne morivano a decine ogni giorno e con il carro a quattro ruote portavano i cadaveri a Micciano, ma anche ad Anghiari”, racconta in una lettera un sorvegliante del campo.
 

Le manovre di Badoglio e De Gasperi per salvare i criminali di guerra
Molto importante e soprattutto illuminante è la decima e ultima sezione della mostra, che spiega molto bene quali furono le responsabilità politiche e i meccanismi che portarono ai mancati processi e all'impunità totale per i principali criminali di guerra italiani e alla cancellazione della memoria sui misfatti del regio esercito in Jugoslavia, sepolti sotto il mito del “buon italiano” costruito nel dopoguerra.
Le autorità jugoslave denunciarono 3.798 italiani alla Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra, la quale ne iscrisse 729 nelle sue liste come criminali di guerra. Dopo l’entrata in vigore del trattato di pace italiano nel 1947, Belgrado chiese direttamente a Roma la consegna di 45 criminali di guerra. In base ai trattati sottoscritti l’Italia doveva consegnare i suoi criminali di guerra ai paesi che li avevano richiesti perché vi fossero giudicati. Ma già il governo Badoglio si oppose all’arresto e all’estradizione dei criminali di guerra italiani con una strategia basata su quattro punti: processare i criminali di guerra italiani presso tribunali italiani; rivendicare il carattere umanitario dell’occupazione italiana; distinguere la condotta italiana da quella brutale dei tedeschi; colpevolizzare i partigiani (specie quelli comunisti) per l’imbarbarimento della guerra.
Nell'autunno 1944 il governo italiano cominciò anzi a raccogliere una controdocumentazione tesa a dimostrare che le autorità e l'esercito italiano di occupazione agivano con umanità e che le azioni dure erano solo conseguenza degli attacchi e delle atrocità dei partigiani, tra cui includevano anche le foibe, arrivando nel 1946 a stilare una lista di “criminali di guerra jugoslavi”, con in testa Tito e tutti i suoi più stretti collaboratori.
Per coprire la sua pretesa di non estradare i suoi criminali di guerra, nel 1946 il governo italiano istituì un’apposita commissione con il compito di vagliare le accuse e stilare una lista di criminali di guerra italiani da processare in patria, presieduta da Luigi Gasparotto. Furono iscritte nella lista 41 persone, di cui 33 responsabili di crimini commessi durante l’occupazione della Jugoslavia: fra questi figuravano i generali Mario Roatta, Alessandro Pirzio Biroli, Mario Robotti, Gastone Gambara, e i vertici dell’amministrazione civile fascista come Francesco Giunta e Giuseppe Bastianini, governatori della Dalmazia, o come l’alto commissario della Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli.
Conclusa l'istruttoria nel 1948 i processi potrebbero iniziare ma provvidenzialmente la rottura politica del revisionista Tito con Stalin e il suo avvicinamento all'occidente interviene a bloccare tutto, perché Tito non ha più interesse a fare pressioni sugli Alleati e questi ultimi non hanno più interesse a perseguire i criminali di guerra nazifascisti perché siamo già in piena guerra fredda contro l'Unione Sovietica. Resta solo l'impegno formale preso dal governo italiano di processare i criminali iscritti nella lista della commissione Gasparotto, ma anche questo viene aggirato dal governo De Gasperi appellandosi pretestuosamente all'art. 165 del codice penale di guerra, che condiziona i processi al vincolo della reciprocità, quindi alla disponibilità della Jugoslavia a processare i responsabili di “crimini contro gli italiani”. Cosa che ovviamente Tito rifiuta per cui nel 1951 tutte le inchieste vengono chiuse senza che neanche uno dei criminali di guerra italiani, pur riconosciuti come tali dal governo italiano, vada a processo.
 

Ristabilire la verità e abolire il “Giorno del ricordo”
“La mancanza di una 'Norimberga italiana' contro i responsabili dei crimini di guerra in Jugoslavia ha permesso il consolidarsi nella memoria pubblica dell’immagine benevola e autoassolutoria del 'bravo italiano'”, sottolinea il commento dell'ultimo pannello dedicato alla “rimozione”. Noi aggiungiamo che è proprio su questa voluta cancellazione dalla storia d'Italia di questa pagina di infamie e disonore che si è potuta innestare la sporca operazione neofascista di revisione e contraffazione della storia col “Giorno del ricordo” istituito dal parlamento nero nel 2004, per celebrare “le vittime delle foibe e l'esodo degli istriani, fiumani e dalmati”.
Una legge da sempre reclamata dai fascisti e passata solo grazie alla capitolazione e collaborazione dei rinnegati della “sinistra” borghese dopo la liquidazione del PCI revisionista, che cancella con un colpo di spugna prima decenni di persecuzione antislava del regime fascista in Slovenia e Croazia, e poi l'invasione della Jugoslavia da parte delle orde nazifasciste costata oltre un milione di morti (su 15 milioni di abitanti), di cui oltre 340 mila civili massacrati e fucilati tra l'aprile 1941 e il settembre 1943, 700 mila morti nella guerra di liberazione e 100 mila deportati solo nei campi di concentramento italiani. Per ridurre vigliaccamente tutto questo lungo e tragico periodo storico alla sola cosiddetta “tragedia delle foibe”, a cui i fatti storicamente accertati fanno risalire al massimo circa 500 vittime, in gran parte fascisti, nazisti e collaborazionisti eliminati dopo l'8 settembre 1943 e immediatamente dopo la Liberazione del maggio 1945; e all'“esodo” di circa 35 mila “esuli” italiani dalla Jugoslavia nel dopoguerra, in gran parte famiglie di elementi che avevano collaborato con gli occupanti nazifascisti durante la guerra. Facendo in tal modo passare le vittime per carnefici e viceversa.
Giustamente, con l'occasione di questa importante e meritoria mostra, l'Istituto Parri ha rivolto un appello (pubblicato a parte) alle istituzioni “per un riconoscimento ufficiale dei crimini fascisti durante l’invasione della Jugoslavia da parte dell’esercito italiano”, firmato da oltre 130 storici, giuristi e docenti universitari italiani, sloveni, croati e di altre nazionalità. Auspichiamo che queste lodevoli iniziative aprano finalmente la strada alla riaffermazione della verità storica, la quale però non potrà essere completa senza l'abolizione dello sporco e truffaldino “giorno del ricordo” che rappresenta il più subdolo ostacolo su questa strada.


14 aprile 2021