Ex Ilva di Taranto: disastro ambientale
Condannati i Riva e Vendola ex governatore della Puglia
Nazionalizzare e bonificare l'azienda e l'area e produrre acciaio non inquinante

 
La notizia era attesissima in tutta l'Italia ambientalista, sociale e del lavoro, e l'esito dell'inchiesta ha certificato il quadro sconcertante che da oltre un decennio ritrae Taranto e i tarantini come vittime sacrificali del capitalismo italiano e delle istituzioni borghesi complici.
I punti fondamentali della sentenza pronunciata lunedì 31 maggio dalla Corte d'Assise di Taranto per il processo “Ambiente svenduto” riguardano le condanne, alcune di esse pesanti, per disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, nel periodo che va dall'avvento dei Riva, sino al 2013: 20 anni per Fabio Riva e 20 per Nicola Riva, ex proprietari e amministratori, 4 anni per Adolfo Buffo, allora direttore del complesso di Taranto e ora direttore generale di Acciaierie d'Italia (la nuova società di ArcelorMittal Italia e la rappresentanza statale di Invitalia), 21 anni a Luigi Capogrosso, altro ex-direttore dello stabilimento pugliese, poi 21 anni e 6 mesi a Girolamo Archinà, consulente dei Riva nei rapporti istituzionali e 2 a Giorgio Assennato, ex direttore generale di ARPA Puglia, organismo di controllo ambientale regionale per favoreggiamento nei confronti di Vendola.
Sì, perché anche l'ex-governatore della regione Puglia, l'imbroglione trotzkista, ora liberale, Nichi Vendola, è stato condannato a 3 anni e mezzo per concussione aggravata, per aver cioè esercitato pressioni su ARPA Puglia affinché ammorbidisse i suoi rapporti critici sulle condizioni dell'impianto tarantino.
 

L'inconsistente difesa dei Riva e di Vendola
All'indomani della sentenza che trova apprezzamento dalla popolazione tarantina e dalle associazioni ambientaliste, arrivano le reazioni del WWF che parla di “soddisfazione” per una sentenza che conferma studi scientifici che dimostravano da tempo e in modo inequivocabile gli impatti dell'Ilva sull'ambiente e sulla salute umana e che avrebbero salvato vite umane se presi in considerazione per tempo. Legambiente la definisce una “sentenza storica” che raccoglie istanze già promosse negli anni 80, quando la proprietà era ancora pubblica con Italsider.
Di tutt'altro tono sono invece i tentativi di difesa degli avvocati dei Riva (dei quali Fabio già condannato nel 2014 per truffa ai danni dello Stato attuata attraverso l'Ilva e l'allora neocostituita Ilva sa che gli fruttò attraverso un gioco di dilazioni di pagamento e crediti qualcosa come 100 milioni di euro) che senza dignità e con una mastodontica faccia di bronzo, continuano ad affermare come non ci sarebbe mai stata alcuna forma di dolo, bensì “lo sforzo continuo di adeguare gli impianti e il loro operato ai limiti sempre più stringenti delle normative ambientali, sempre rispettati”.
Per gli avvocati della difesa dunque la gestione dei Riva avrebbe sempre operato e prodotto rispettando tutte le normative vigenti “come certificato dall'ARPA”.
Ed infatti in questo assist alla complicità istituzionale, c'è tutta la sostanza della condanna all'ex segretario di Sinistra Ecologia (sic) e Libertà, Nichi Vendola, che piange lacrime di coccodrillo ribellandosi ad “una giustizia che calpesta la verità”, come afferma sulla stampa.
La disperata arringa difensiva proposta ai media del narcisista borghese che amava spacciarsi per “comunista”, continua parlando di “condanna senza l'ombra di una prova” per “noi che dai Riva non abbiamo preso un soldo”, cita una “giustizia profondamente malata” che avrebbe offerto a Taranto “non dei colpevoli, ma degli agnelli sacrificali”. Eppure le carte sono lì che lo smentiscono nei fatti.
 

Una indagine durata 13 anni fra complicità e coperture istituzionali
Le indagini di questo processo, forse il più importante fra quelli che si sono occupati di ambiente, nascono da un esposto sulla presenza di diossina nel tarantino presentato da PeaceLink, un'associazione di volontariato nata su rete telematica nel 1991 che si occupa anche di difesa dell'ambiente, che fa arrivare alla Procura della Repubblica nel 2008 un pezzo di pecorino prodotto da ovini che pascolavano nei pressi del siderurgico, e che risultava contenere quantitativi enormi del pericoloso cancerogeno. Nel 2009 alla diossina si aggiungono anche evidenze del superamento dei livelli di un altro cancerogeno come il benzo(a)pirene, che testimoniavano il reato di avvelenamento di acque e di sostanze alimentari.
Stavolta oltre ai Riva e a Vendola, i fatti preoccuparono anche il governo Berlusconi che infatti nel 2010 si affrettò a cambiare la legge sospendendo quel limite, e consentendo così ai Riva di continuare a inquinare.
Nel 2011 fu il turno delle cozze degli allevamenti limitrofi che risultarono gravemente contaminate, eppure la copertura all'Ilva continuò a essere così forte al punto che la stessa Legambiente aderì pubblicamente alle numerose degustazioni di cozze locali che furono ripetutamente organizzate per allontanare lo spettro della diossina.
In quello stesso anno è la ministra berlusconiana Stefania Prestigiacomo a rilasciare una AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) a maglie larghe, ben lontane da quelle che avrebbero dovuto costringere la proprietà ad adottare le migliori tecnologie disponibili in tutti gli impianti, e in particolare in quelli a caldo che oggi sono stati confiscati dalla magistratura.
Oggi, grazie all'indagine epidemiologica chiesta dal GIP Patrizia Todisco, è emerso non solo che esiste un oggettivo eccesso di malattie e di morti sul territorio, ma anche che esse sono direttamente riconducibili al siderurgico.
Eppure, nonostante in passato sia stata richiesta più volte questo tipo di indagine, la Regione governata dal 27 aprile 2005 dalla “sinistra” di regime prima con i due mandati Vendola e successivamente con Emiliano e il suo attuale bis, non l'ha mai commissionata. Una chiara copertura bipartisan, come bipartisan sono gli interessi dei politicanti borghesi con quelli del malaffare dei capitalisti che questa vicenda riassume perfettamente. Non si tratta purtroppo di un caso isolato, o di un “conflitto fra la magistratura da un lato e un pezzo dello Stato deviato dalla mala politica” come alcuni esponenti di PeaceLink hanno affermato, bensì di un esempio che rappresenta purtroppo una costante dell'andazzo generale del marcio e corrotto sistema capitalista vigente.
 

Associazioni e comitati pronti a proseguire la battaglia
Dopo questo importante risultato, la battaglia di PeaceLink e del fronte ambientalista pugliese continuerà proponendo un nuovo esposto alla Procura che riguarda il periodo successivo a quello preso in esame in questo processo, in particolare dal 2013 in poi, che chiamerà in causa anche la VIA (Valutazione Integrata Ambientale) del 2019 che ha accertato rischi enormi per il quartiere Tamburi di Taranto. L'obiettivo è quello di far avviare una nuova indagine, senza però quello scudo penale che in passato ha portato ad archiviare ben 45 esposti presentati.
Ad oggi infatti le stime accertate parlano di oltre trenta decessi all'anno riconducibili direttamente e senza dubbio alle emissioni dell'Ilva, e una aspettativa di esistenza costantemente al ribasso, stimata ad oggi con 1.340 anni di vita in meno rispetto alla vicina Bari.
 

Nazionalizzare, bonificare e riconvertire l'Ilva
La storia dell'Ilva è fatta di speculazioni, corruzione, morte e licenziamenti, ma anche da lotte e da scioperi per rivendicare un lavoro sicuro e sano. Dini e Prodi avviarono la privatizzazione dell'allora più grande acciaieria d'Europa dai bilanci in attivo, svendendola ai Riva per una cifra ben al di sotto del suo valore reale. Della fabbrica erano già note le dinamiche che evidenziavano lo sfruttamento generalizzato di impianti e lavoratori oltre le capacità, la segregazione di fatto di quelli più combattivi nella famigerata palazzina LAF che costò i domiciliari al “re dell'acciaio”, il patron Emilio Riva, e i ripetuti atti di corruzione di politici e amministratori affinché tacessero o taroccassero i dati sull'inquinamento.
Poi, data la catastrofe economica, sanitaria e ambientale, la cessione ad ArcelorMittal gestita con la regia del primo governo Conte – più volte contestato a Taranto -, ha confermato la stessa linea precedente, e cioè quella di consentire ad un altro padrone di sfruttare l'impianto traendone profitto, continuando ad inquinare e licenziando migliaia di lavoratori. Taranto ha continuato nel tempo a vivere nel ricatto perenne fra salute e lavoro, tra produzione e ambiente, poiché la chiusura dell'impianto, calcolando l'indotto, getterebbe sul lastrico 15 mila lavoratori solo a Taranto e 20 mila in tutta Italia a partire da Genova, Novi Ligure, Milano e Marghera. Un esito inaccettabile, che però fu opportunisticamente cavalcato anche da Beppe Grillo che in piena campagna elettorale nel 2017 in Puglia affermò “faremo un parco giochi al posto delle acciaierie”.
Più volte abbiamo toccato il tema sulle pagine del nostro giornale, e siamo stati banali profeti nel prevedere che la nuova cessione dell'Ilva ai privati dopo il breve periodo di amministrazione controllata da parte dello Stato non avrebbe portato nulla di buono all'ambiente e all'occupazione, e i nodi dell'inquinamento e dei licenziamenti si sarebbero ripresentati come e più forti di prima.
Anche alla luce di queste condanne, intendiamo ribadire che un segmento così strategico dell'industria italiana, che alimenta una serie di numerose altre attività e che ha un forte impatto economico sull'economia pugliese e nazionale necessita di una politica ambientale rigorosa e dispendiosa, drasticamente opposta a quella tenuta finora. Come già detto in passato, né ArcelorMittal né altri colossi privati saranno mai in grado di tener fede a certi impegni senza intaccare una quota considerevole del loro profitto, che rappresenta l'unica ragione del loro impegno economico. Ecco perché tutto finisce nello stesso modo, con lo sfruttamento, i licenziamenti e l'avvelenamento ambientale, oppure con processi che portano alla chiusura degli impianti per eliminare un concorrente nel mercato dell'acciaio, lasciano solo macerie dietro la multinazionale di turno.
Noi marxisti-leninisti non abbiamo mai condiviso la posizione di alcuni comitati che vorrebbero appunto la chiusura dello stabilimento escludendo a priori che si possa produrre acciaio senza avvelenare una città come Taranto, anche perché altre esperienze come Bagnoli a Napoli dimostrano che le chiusure affamano i lavoratori e impoveriscono tutto il territorio, e anche i denari delle bonifiche finiscono nelle tasche di faccendieri e mafiosi, i terreni nelle mani degli speculatori, e i veleni rimangono sotto il tappeto mantenendo tale la bomba ecologica e la città non risanata.
L'unica soluzione infatti è riportare al più presto l'ex Ilva sotto la gestione statale, nazionalizzandola e ponendola sotto il controllo della popolazione e dei lavoratori, pur consapevoli che nelle condizioni del capitalismo essa non risolve tutti i problemi in maniera definitiva. In ogni caso questa è la strada da percorrere per salvaguardare salute, ambiente e posti di lavoro, individuando nuove fonti rinnovabili che alimentino gli altiforni e ripristinando la sicurezza negli impianti. E occorre rapidamente e seriamente bonificare la fabbrica e l'intera area cittadina dalla montagna di veleni accumulatasi in decenni di selvaggia e criminale gestione della produzione dell'acciaio. Coniugando lavoro e salute, salvaguardia della salute dei lavoratori e della popolazione e difesa dell'occupazione.
 

Produrre acciaio non inquinante
Purtroppo però neanche i miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), della “transizione ecologica e energetica” danno alcuna garanzia; nel documento infatti non si parla direttamente dell’ex Ilva, ma si preferisce un riferimento generico alla decarbonizzazione del settore siderurgico, mancante dunque di obiettivi e strategie ben definiti.
Recentemente a livello internazionale si punta forte sull'idrogeno, quantomeno per ridurre drasticamente le emissioni durante il processo di riscaldamento degli altiforni sostituendo il carbonio, e quindi eliminando la produzione di CO2, risolvendo potenzialmente tutta una serie di problemi ambientali. Tuttavia produrre idrogeno richiede una grande quantità di energia che a sua volta deve essere realmente “pulita”, altrimenti il processo diventa inutile. Ad oggi in Italia l’energia è prodotta principalmente da centrali termoelettriche alimentate da fonti fossili; è questo infatti il primo passo che dovrebbe essere fatto, il bando del fossile e lo sviluppo di energie rinnovabili, su tutte l'idroelettrico e il solare, le cui fonti non mancano certo nel nostro Paese.
Per centrare l'obiettivo della nazionalizzazione dell'ex Ilva e della sua riconversione in produttrice di acciaio non inquinante, che va nell'interesse oggettivo della popolazione, è necessaria anche una grande, qualificata e unitaria mobilitazione dei lavoratori e di tutta la popolazione tarantina, che coinvolga tutto il mondo sindacale confederale e di base, poiché la lotta di classe rimane l'unico strumento di lotta efficace del quale dispongono le masse popolari in lotta per i propri diritti e interessi.

9 giugno 2021