In violazione dell'art. 117 della costituzione sui “livelli essenziali delle prestazioni”
Il dl Infrastrutture discrimina il Meridione

Il 2 settembre il Consiglio dei ministri ha approvato il Decreto legge 121 Infrastrutture, che a detta del ministro per le Infrastrutture e la mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, “in linea con la nuova missione del Ministero, semplifica le procedure per investimenti in infrastrutture, introduce norme per aumentare la sicurezza delle persone e migliorarne la qualità della vita”. Tra le misure previste dal dl c'è anche “una nuova procedura per orientare gli investimenti finalizzati a ridurre le disuguaglianze territoriali in termini di dotazione infrastrutturale”.
Quest'ultima è una misura che confligge di fatto con l'articolo 117 della Costituzione, uno degli articoli della controriforma federalista del 2001 del Titolo V, approvata in fretta e furia dall'allora governo di “centro-sinistra” per ingraziarsi la Lega fascista e razzista di Bossi e staccarla dall'alleanza con Berlusconi, senza peraltro riuscirci. Articolo che al 2° comma lettera m assegna allo Stato la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (i cosiddetti LEP, ndr) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Nella sostanza questa misura, che cancella di fatto i LEP e spartisce la podestà dello Stato sui fondi per il riequilibrio territoriale coi governatori regionali, andrà a penalizzare pesantemente il Sud per quanto riguarda l'assegnazione e l'allocazione dei fondi per le infrastrutture (ferrovie, strade e autostrade, porti e aeroporti, trasporti e così via), anche nel quadro del Piano nazionale di ripresa e resilienza che deve distribuire i miliardi europei.
Lo ha denunciato un articolo de Il Fatto Quotidiano del 13 settembre, unico tra tutta la stampa borghese, notando i cambiamenti introdotti nel dl Infrastrutture riguardo alla gestione del “Fondo perequativo infrastrutturale”, rispetto alla legge di Bilancio 2021 che lo aveva istituito. Si tratta di un fondo da 4,6 miliardi, di cui solo 100 milioni nel 2022, e poi in quote a crescere fino al 2033, che dovrebbe andare a finanziare interventi infrastrutturali differenziati proprio per riequilibrare lo svantaggio delle regioni del Meridione e delle isole e le aree interne più arretrate delle regioni in generale.
 

Cancellati i LEP per favorire il Nord “produttivo”
La legge di Bilancio 2021, all'articolo 1 comma 815, “al fine di assicurare il recupero del deficit infrastrutturale tra le diverse aree geografiche del territorio nazionale, anche infra-regionali”, e in particolare per la destinazione del suddetto fondo perequativo da 4,6 miliardi, attribuiva al governo, e segnatamente al Presidente del Consiglio, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie e con il Ministro per il Sud e la coesione territoriale, la “ricognizione delle dotazioni infrastrutturali esistenti riguardanti le strutture sanitarie, assistenziali, scolastiche, nonché la rete stradale, autostradale, ferroviaria, portuale, aeroportuale, idrica, elettrica e digitale e di trasporto e distribuzione del gas”. La ricognizione, si specificava, “si avvale dei dati e delle informazioni forniti dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome”. Cioè le regioni fornivano solo i dati, ma era il governo centrale a decidere poi come ripartire il fondo. Anche perché la legge affidava al governo la definizione degli “standard di riferimento per la perequazione infrastrutturale in termini di servizi minimi per le predette tipologie di infrastrutture”, cioè la determinazione dei LEP.
Nel decreto del 2 settembre, invece, quest'ultima facoltà è sparita, cioè non si fa più riferimento ai livelli essenziali di prestazioni (in questo caso infrastrutture) da assicurare come prima cosa alle regioni e territori più svantaggiati, come previsto dall'articolo 117 della Costituzione. Inoltre sono stati cambiati la lettera e lo spirito dell'articolo sulla ricognizione delle dotazioni infrastrutturali, che non spetta più esclusivamente al governo centrale e ai ministri competenti, bensì solo per quanto attiene alle infrastrutture statali, mentre la ricognizione su tutte le altre infrastrutture spetta alle “regioni e province autonome di Trento e Bolzano, nonché agli enti locali e gli altri soggetti pubblici e privati competenti”.
Può sembrare una modifica puramente formale, ma non è così. Quello che si è voluto fare infatti, cancellando il riferimento ai LEP e sdoppiando tra governo centrale e regioni (e perfino enti e imprese privati) i poteri di ricognizione sulle infrastrutture esistenti, è accogliere le pressioni dei governatori delle Regioni, e segnatamente di quelli del Nord che hanno più peso politico, per trattare direttamente col governo, in una logica prettamente federalista e aziendalista, la ripartizione dei miliardi del fondo per la perequazione delle infrastrutture, sottraendola al ministero del Mezzogiorno e della coesione territoriale e al meccanismo automatico dei LEP, che avrebbe altrimenti destinato la maggior parte di questo fondo al Sud. Non ci può essere altra spiegazione che questa.
Si tratta in tutta evidenza di un anticipo della controriforma federalista dell'”autonomia differenziata” invocata da tempo dai governatori leghisti Zaia e Fontana, rispettivamente del Veneto e della Lombardia, e dal governatore PD dell'Emilia-Romagna, Bonaccini. Il banchiere massone Draghi, di concerto col ministro del Mise, il leghista Giorgetti, ha voluto evidentemente dare loro un segnale che questo governo è “sensibile” alle loro richieste e a quelle dei “ceti produttivi” del Nord e che intende andare in quella direzione.
 

Stravolta la gestione dei fondi per il riequilibrio regionale
Il fatto è che i LEP, previsti anche nella legge n. 42 del 2009 istitutiva del federalismo fiscale, per “mitigare” gli effetti devastanti dell'autonomia fiscale delle regioni ricche del Nord ai danni delle regioni svantaggiate del Sud e delle isole, non sono mai stati ancora applicati. Solo adesso si comincia appena a parlare dei LEA (Livelli essenziali di assistenza) nella sanità, quasi da nessuno assicurati, tanto meno al Sud, mentre per quanto riguarda scuola, trasporti, infrastrutture e servizi sociali le ripartizioni avvengo ancora sulla base “storica”, sistema che ovviamente favorisce le regioni più ricche e penalizza quelle più povere.
Secondo il rapporto di Bankitalia di luglio, nell'ultimo decennio la media pro-capite degli investimenti è stata di 780 euro nel Mezzogiorno, contro oltre 940 euro degli abitanti del Centro-Nord (-17%). Sempre nell'ultimo decennio al Sud, dove risiede il 34,4% della popolazione, è andato solo il 30% dei fondi, mentre per riequilibrare lo svantaggio occorrerebbe che andasse una quota sensibilmente superiore a quella della popolazione, calcolata almeno al 45% del totale per diversi anni a venire. Ma secondo noi occorrerebbe una quota ben maggiore, e comunque almeno il 75% dei fondi del PNRR, rispettando la parità di genere.
Va tenuto presente, infatti, che le risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC), che insieme ai Fondi strutturali europei è – come recita una nota della stessa presidenza del Consiglio - lo strumento principale “per la rimozione degli squilibri economici e sociali in attuazione dell’articolo 119, comma 5, della Costituzione italiana e dell’articolo 174 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea”, dovrebbe essere ripartito per legge per l'80% alle aree del Mezzogiorno e per il 20% a quelle del Centro-Nord.
In realtà, per quanto riguarda il fondo perequativo infrastrutturale da 4,6 miliardi, già la legge di Bilancio 2021 aveva cancellato tale vincolo stabilendo che ad esso non si applica l'articolo 7-bis del dl n. 243/2016 che assegna al ministro per il Mezzogiorno e per la coesione territoriale l'applicazione del principio di assegnazione differenziata delle risorse aggiuntive a favore del Sud “come definito dalla legge nazionale per il Fondo per lo sviluppo e la coesione”. La stessa clausola, che sottrae il fondo perequativo infrastrutturale al controllo del ministero del Mezzogiorno e cancella di fatto l'obbligo della ripartizione dell'80% a favore del Sud, è stata non a caso riportata pari pari anche nel dl Infrastrutture del 2 settembre.
Si sta puntualmente avverando quanto abbiamo denunciato fin dalla formazione del governo Draghi: che cioè non era un caso che questo governo fosse composto per la stragrande maggioranza di ministri del Nord, e quindi nato per rappresentare gli interessi esclusivi della borghesia finanziaria e industriale delle parte più ricca e “produttiva” dell'Italia, quella meglio collegata con l'Europa e con le maggiori opportunità di reggere la feroce competizione economica sui mercati esteri, destinando ad essa la stragrande maggioranza degli oltre 200 miliardi europei del PNRR.

6 ottobre 2021