Elezioni comunali a Torino
Astensionismo ben oltre il 50%. Nelle periferie sfiora il 70%. Mazzata ai partiti del regime capitalista neofascista
Il 53,7% dell’elettorato si astiene, più 8,7% rispetto alle elezioni precedenti. Il neosindaco Lo Russo (PD) eletto sindaco con appena il 24,5% dei consensi. Crolla il M5S e perde la poltrona di sindaco e i tre quarti dei suoi elettori. Arretra la Lega. FdI non sfonda. Fallimento dei partiti a sinistra del PD
Contro l’elettoralismo borghese pratichiamo l’astensionismo come un voto dato al PMLI e al socialismo

Torino era una delle grandi città attese all’esito delle urne nella tornata elettorale delle amministrative parziali del 3 e 4 ottobre e poi del ballottaggio del 17 e 18 ottobre. In questa città, oltre che a Roma, si era consumata la prima eclatante vittoria del M5S che aveva strappato al “centro-sinistra” il capoluogo di regione piemontese con l’elezione a sindaco di Chiara Appendino. Qui si poteva testare la tenuta della destra rispetto alle significative affermazioni alle europee 2019 e alle regionali 2020 ottenute in Piemonte. Qui si poteva valutare la tenuta o la ripresa del “centro-sinistra” e di un PD per la prima volta targato Enrico Letta.
Il primo dato che ha oscurato e condizionato tutto il resto è stata invece la clamorosa affermazione dell’astensionismo (diserzione dalle urne, scheda annullata o lasciata in bianco) che già al primo turno volava oltre il 50% degli elettori, e precisamente il 53,7%, con un incremento rispetto alle precedenti elezioni comunali del 2016 di 8,7 punti percentuali. Nel dettaglio sono stati il 51,9% degli elettori che non si sono recati nemmeno alle urne, la scelta più aperta, coraggiosa e radicale, mentre l’1,8% ha annullato la scheda o l’ha lasciata in bianco. Al ballottaggio la diserzione si è ulteriormente impennata attestandosi al 57,9% con un incremento del 5,9% rispetto al primo turno. Il richiamo alle urne per far prevalere il candidato del “centro-sinistra” su quello della destra e viceversa non è servito a convincere né gli elettori che si erano astenuti né una grandissima parte di quelli che avevano votato altre liste al primo turno.
È un dato che non ha precedenti nella storia elettorale di questa città. Ancora nel 2011 la diserzione dalle urne non superava il 33,5%. In appena dieci anni si è impennata di ben 18,4 punti passando al 51,9%.
 
La diserzione nelle periferie
Come già rilevato in altre grandi città, anche a Torino protagoniste assolute del successo dell’astensionismo sono state le periferie.
Fino al 2014 gli elettori delle zone operaie e periferiche votavano massicciamente il “centro-sinistra”, mentre gli elettori benestanti della collina e del centro storico erano orientati a destra. Poi la tendenza si è completamente invertita. Il PD è divenuto il partito del centro storico, della cosiddetta “ztl”, mentre delusi e arrabbiati gli elettori delle periferie, specie quella Nord, hanno creduto di punire il “centro-sinistra” votando in parte la Lega e soprattutto il M5S decretandone il successo nel 2016 e poi alle politiche 2018 e alle europee 2019. Nel 2016 in questa area periferica, che conta oltre centomila abitanti, la diserzione fu drenata proprio dal M5S. Qui la diserzione si fermò al 44,9%, un dato inferiore rispetto alla media cittadina, e ciò determinò l’inattesa rimonta e il successo di Chiara Appendino sul candidato del PD e sindaco uscente Piero Fassino.
Quest’anno invece le cose sono andate diversamente. Se la media cittadina della diserzione è stata del 51,9% degli elettori, si scopre che nella circoscrizione 1 (Centro e Crocetta) ha disertato le urne il 48,5%, mentre nella circoscrizione 5 e 6 (Barriera di Milano, Rebandendo) la diserzione si è impennata rispettivamente al 56,6% e al 57,4%. Al ballottaggio il distacco è ancora più ampio, rispetto a una media del 57,9%, a Barriera di Milano ha disertato le urne il 68%, due elettori su tre, con uno scarto di quasi 10 punti percentuali fra il primo e il secondo turno.
La periferia Nord era l’anima della Torino operaia, con le Fonderie Fiat e la Fiat Grandi Motori poi smantellate ed è quella che più ha pagato le conseguenze della deindustrializzazione, di una politica tutta incentrata sul centro città “vetrina”, sulla riconversione a città turistica, dei “grandi eventi”, a uso e consumo delle classi medio e alto borghesi, che è andata a sostituire la città che in assoluto più di ogni altra in Italia aveva una storica vocazione industriale e operaia.
I vari governi che si sono succeduti, compreso quello del M5S della Appendino, hanno ignorato gli interessi e i bisogni dei lavoratori e delle masse popolari torinesi, abbandonato le periferie, lasciato che qui imperasse la disoccupazione specie giovanile, che i servizi sociali e sanitari, i trasporti fossero sempre più scarsi e malfunzionanti, che la povertà e il degrado sociale la facessero da padroni.
Ora gli elettori stanno rimettendo il conto disertando in massa le urne, negando il proprio consenso, sostegno e avallo alla politica antipopolare di tutti i partiti del regime capitalista neofascista anche di quelli che li avevano illusi sulla possibilità di un vero “cambiamento”.
In questi quartieri elettoralmente prevale la destra sul “centro-sinistra” ma solo perché si è recato alle urne appena il 32% dell’elettorato. L’elettorato di sinistra ha disertato quasi in massa le urne.
 
I voti di lista
Ne fanno le spese un po’ tutti i partiti del regime neofascista. Il M5S in primis perché da primo partito (dopo l’astensionismo) precipita al quarto posto dietro a PD, Fratelli d’Italia e Lega. Soprattutto perde i tre quarti del suo elettorato rispetto al 2016 passando da oltre 107 mila voti ai 24 mila attuali. Secondo l'Istituto Cattaneo il 50% degli elettori del M5S si è quest'anno astenuto.
Poi perde anche la Lega neofascista e razzista di Salvini che sperava di confermare il buon risultato delle passate regionali. Guadagna circa 9 mila voti rispetto al 2016, ottenendone 29 mila, pari al 4,3% degli elettori, ma perde un terzo dei voti che era riuscita ad ottenere alle europee 2019 quando di voti ne aveva totalizzati oltre 106 mila.
Voti che in parte sono andati a ingrassare la fascista doc Giorgia Meloni e il cui partito ha incrementato i propri voti anche rispetto alle europee 2019 dove già aveva ottenuto un discreto risultato, totalizzando 31.490 voti pari al 4,6% dell'intero corpo elettorale. Forza Italia continua a essere in caduta libera e precipita al 2,3% degli elettori.
I dirigenti del PD spacciano il risultato come una vera e propria vittoria. Non ci pare che possa essere giudicata tale. È vero che il PD è tornato ad essere il primo partito (dopo l’astensionismo), con il 12,5% degli elettori, ma ha comunque lasciato per strada migliaia di voti. Rispetto al 2016 ne perde un quinto, ossia quasi 21 mila voti. Ne perde 33 mila rispetto alle politiche 2018 e ben 46.749 rispetto alle europee. Perdite solo in parte compensate dal risultato della lista civica del candidato sindaco Lo Russo. Vale il fatto che la coalizione di “centro-sinistra” capitanata dal PD ha ottenuto al primo turno 132.254 voti mentre nel 2016 i voti della stessa coalizione furono 150.276 ossia quasi 20 mila voti in più. Stefano Lo Russo è stato eletto sindaco al ballottaggio con 168.997 voti. Nel 2016 Piero Fassino, che pure dovette cedere il passo alla Appendino, ottenne gli stessi voti, ossia 168.880, ma allora non poteva contare sui voti del M5S al secondo turno, come è avvenuto quest’anno.
Insomma se il M5S e la destra piangono, il “centro-sinistra” e il PD hanno poco da ridere.
 
Sindaco votato da una minoranza
Stefano Lo Russo viene eletto sindaco passando dal 43,9% sui voti validi del primo turno al 59,3% del secondo e batte il candidato della destra Paolo Damilano. Se però rapportiamo i voti presi all’intero corpo elettorale, il suo quasi 60% equivale ad appena il 24,5% dell'elettorato avente diritto, nemmeno un quarto dei torinesi chiamati alle urne che erano quasi 690 mila. Fra il primo e il secondo turno Lo Russo guadagna 28 mila voti in gran parte provenienti dal bacino elettorale del M5S. Ottiene 169 mila voti, quando la Appendino nel 2016 di voti ne aveva ottenuti oltre 200 mila.
Lo Russo è tutt'altro che un volto nuovo della scena politica e governativa torinese.
Ha 46 anni ed è docente di geologia al Politecnico di Torino ma già a 30 anni viene eletto in consiglio comunale nella lista dell'Ulivo. In precedenza, ha fatto l'arbitro semiprofessionale e si è dedicato al volontariato alla scuola del salesiano e cappellano del Torino calcio Don Aldo Rabino che resta il suo maestro spirituale e politico e al quale ha dedicato la vittoria elettorale. Viene rieletto nel 2011 nella lista PD e dal 2013 ricopre l'incarico di assessore all'urbanistico nel governo Fassino. Capogruppo del PD nel consiglio comunale dalle elezioni 2016.
 
Alla sinistra del PD
Una riflessione merita anche il risultato dei partiti a sinistra del PD. A Torino erano presenti diverse liste: PRC, Sinistra Anticapistalista e Dema riunite sotto il cartello elettorale “Sinistra in Comune” che aveva come candidato sindaco Angelo D'Orsi appoggiato anche dalle liste PdP e PCI. A sé correvano poi il PC di Rizzo e il PCL. Nessuno conquista una poltrona in consiglio comunale. La coalizione di Angelo D'Orsi si è fermata al 2,3% dei voti validi, pari a 7.006 voti, anche se molti sondaggi la davano sopra la soglia del 3%.
Il PC di Rizzo ottiene 1.552 voti e si ferma allo 0,52% dei voti validi, ossia la metà di quelli ottenuti nel 2016, e quasi un terzo di quelli ottenuti alle europee 2019.
Il PCL ottiene 360 voti, pari allo 0,1% dei voti validi. Nel 2016 i voti ottenuti erano 615.
Insomma un vero e proprio fallimento elettorale per stessa ammissione dei protagonisti. Una delusione che è sfociata anche in uno scontro interno là dove il candidato sindaco Angelo D'Orsi all'indomani del primo turno si è spinto in un'intervista, e senza consultare le forze politiche che lo avevano candidato, a dare di fatto indicazione di votare Lo Russo al ballottaggio, rivendicando e teorizzando la politica del “meno peggio”.
Anche questa ennesima esperienza dovrebbe far capire che per Torino e per l'Italia intera, il problema per il proletariato e le masse popolari non sta fra chi dei partiti del regime capitalista neofascista guiderà il governo della città o del Paese. La pratica ha dimostrato che qualsiasi sia il governo borghese e qualsiasi sia il partito del regime che ne abbia la maggioranza, sia questo di “centro-sinistra” o di destra, ivi compreso il M5S, non è possibile nessun vero cambiamento fermo restando il capitalismo.
L’unica posizione da cui è possibile difendere gli interessi del proletariato e delle masse popolari è quello dell’opposizione al governo locale e centrale e alle istituzioni rappresentative borghesi che innanzitutto si esprime nella lotta di classe e di piazza, nelle fabbriche, nelle scuole e università, nei quartieri popolari e nelle periferie urbane, per difendere e imporre le proprie rivendicazioni e i propri diritti. Sul piano elettorale tale opposizione si esprime abbandonando definitivamente ogni illusione elettorale, parlamentare, governativa, costituzionale, riformista e pacifista e impugnando l'arma dell’astensionismo tattico qualificato come un voto dato al PMLI e al socialismo. L'altra arma politica e organizzativa è quella delle istituzioni rappresentative delle masse fautrici del socialismo fondate sulla democrazia diretta.
Questo può essere fin da subito un terreno di discussione, di dialogo, di confronto e di unità fra tutti i partiti alla sinistra del PD.

3 novembre 2021