Conferenza dell' ONU a Glasgow sul clima
Fallita la Cop26: Il carbone rimane, i paesi più poveri non vengono risarciti
Greta: Soltanto bla bla bla
Lottare contro il capitalismo e i suoi governi per arrestare il cambiamento climatico

Dopo il G20 di Roma e la PreCop milanese, Glasgow è stata teatro dal 31 ottobre scorso e fino al 14 novembre della ventiseiesima Conferenza dell'Onu sul clima, l'appuntamento più importante dal summit di Parigi ad oggi proprio perchè avrebbe dovuto dare gambe alle politiche ambientali di tutti i Paesi firmatari per contrastare il riscaldamento globale.
Alla conferenza hanno partecipato 196 Paesi, oltre all'Unione Europea, con un totale di poco meno di 40mila delegati arrivati con oltre 400 aerei; presenti in forze anche Cina e Russia, nonostante i loro leader Xi Jinping e Putin non si siano recati personalmente in Scozia.
 

Le premesse della Cop26
Il pianeta arriva enormemente provato a questo appuntamento, con una urgentissima necessità di veder mantenuto entro 1,5 gradi l'aumento delle temperature, anche se i piani d'azione nazionali che sono ad oggi stati presentati tracciano un aumento a fine secolo di ben 2,7 gradi, il che rappresenterebbe, senza mezzi termini, una catastrofe.
Le carenze dell'accordo di Parigi, che noi abbiamo denunciato fin dalla sua firma, sono più che mai evidenti, e nascono sia dagli obiettivi di per sé insufficienti, sia dalla mancanza di impegni vincolanti al loro rispetto; per questo la conferenza di Glasgow era chiamata a fissare regole chiare per il cosiddetto “mercato del carbonio” attraverso il quale le imprese potrebbero scambiarsi i permessi di inquinamento assegnati dai governi o generati da progetti di assorbimento di CO2 (vedi riforestazione), che però hanno avuto al momento scarsa efficacia e ripercussioni gravose soprattutto per le popolazioni locali, e l'Amazzonia ne è un esempio.
Inoltre all'ordine del giorno nel summit scozzese c'era anche la determinazione del finanziamento a sostegno dei Paesi in via di sviluppo per la transizione “verde”, quei 100 miliardi di dollari di contributi promessi dai Paesi ricchi entro il 2020 che sono ancora un miraggio, e sussidi di mitigazione ai Paesi più duramente colpiti dagli effetti del riscaldamento climatico. Sicuramente però l'elemento centrale sulla quale la Cop26 non poteva fare passi indietro era la questione dell'uscita dal fossile, fulcro di tutta la questione climatica.
Alla vigilia del summit però il G20 romano appena concluso non aveva previsto una data per la neutralità del carbone limitandosi a un vago “metà del secolo”, e non ha accettato di impegnarsi a metter fine all'estrazione di carbone; una nota dolente che aveva allarmato climatologi e ambientalisti, già sfiduciati, su quello che sarebbe stato l'esito finale della conferenza scozzese
 

Il documento finale salva il carbone e limita ancora finanziamenti e indennizzi ai Paesi poveri
Stavolta ci sono volute due settimane e tre bozze per mettere tutti d'accordo sul nulla. Il Glasgow Climate Pact, perchè così è stato chiamato l'accordo, ha fallito tutti i suoi obiettivi dichiarati, in primis quelli sopraelencati ai quali doveva dare gambe dopo la Cop21 parigina.
In molti l'hanno chiamato “annacquato”, altri un “compromesso”, ma noi siamo d'accordo con chi ha denunciato l'ultima kermesse del “bla, bla bla” un vero e proprio fallimento sia perchè dista anni luce dal porre un termine all'utilizzo di fonti fossili, sia perchè non determina niente di ciò che era necessario.
Adesso tutti puntano il dito sull'India che ha messo l'ultimo veto, senz'altro grosso come un macigno, portando a casa la riformulazione utilizzando l’espressione “ridurre gradualmente” invece che “eliminare gradualmente” il ricorso all’energia derivante dallo sfruttamento del carbone che rimane la principale fonte inquinante; eppure anche senza questa ulteriore genuflessione al fossile e al profitto, la Cop26 sarebbe stata comunque solo fumo negli occhi in un contesto ormai noto che nei fatti non vincola nessuno al rispetto degli impegni, nemmeno i firmatari.
Continuano infatti ad essere assenti i fondi di ristoro per perdite e danni ai Paesi poveri colpiti dalla crisi climatica, la vera applicazione dello stesso fondo da 100 miliardi di dollari previsto dall'accordo di Parigi, e l’impegno dei ricchi a “considerare un raddoppio” dei finanziamenti previsti è naturalmente privo di alcun obbligo formale.
Il testo mantiene l’obiettivo di tenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi dai livelli pre-industriali, ma con i tagli alle emissioni che rimangono al 45% entro il 2030 e zero emissioni nette al 2050, già insufficienti per la stragrande maggioranza della scienza di settore, e che in ogni caso rimangono pura fantasia se rapportate sia ai piani nazionali, sia alle dichiarazioni stesse dei grandi Paesi inquinatori. Inoltre nel testo finale c’è un’attenuante sul rispetto di certi impegni poiché si terrà “conto delle differenti circostanze nazionali”; un inciso che sarà colto e giustificato dai più per trovare scuse a rallentare l’azione.
Insomma, è rimasto in piedi un limite irraggiungibile, buono solo per i giornali che potranno così tessere le lodi dei grandi Paesi capitalistici.
L'unico passo in avanti in ambito normativo significativo – e non a caso - è sul mercato globale delle emissioni di CO2, con regole che fanno avanzare lo stato di implementazione dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi consentendo ai Paesi di raggiungere, ma solo in parte, i loro obiettivi climatici acquistando quote di emissioni da Stati virtuosi; quindi via alla borsa della CO2, soprattutto quando è noto a tutti che certe regole, ancora una volta troppo flessibili, offrono scappatoie di grande interesse speculativo e finanziario capaci di compromettere esse stesse i target climatici, avvantaggiando i grandi inquinatori, come già accennato.
 

Le reazioni indignate del mondo ambientalista e il greenwashing dei paesi ricchi
Il fallimento di Glasgow è stato ribattezzato dal movimento Fridays for Future “Flop26”, perchè i potenti del mondo hanno tradito ancora una volta le loro aspettative. Non è stato centrato neanche l'elemento principale, e cioè quell'impegno preciso di tagliare drasticamente l'uso dei combustibili fossili.
Pochi istanti dopo la quadra dell'intesa, Greta Thunberg chiosa sui social: "La Cop è finita, ecco un breve riassunto: bla, bla, bla. Ma il vero lavoro continua fuori da queste sale. E non ci arrenderemo mai, mai". Anche Vanessa Nakate, attivista ugandese e portavoce di quell'Africa che ospiterà la prossima Cop27 in Egitto rincara la dose affermando: "Non possiamo adattarci alla fame. Non possiamo adattarci all'estinzione. Non possiamo mangiare carbone. Non possiamo bere petrolio. Non ci arrenderemo".
I giovani e le giovani ambientaliste criticano duramente anche coloro – in particolare politici e media – che si affanneranno nelle prossime ore nel vedere il bicchiere mezzo pieno. “Ora che la Cop26 sta volgendo al termine – ha scritto su Twitter l'attivista svedese – fai attenzione allo tsunami di greenwashing e tirate dei media per inquadrare in qualche modo il risultato come ‘buono’, ‘un progresso’, ‘ottimista o come ‘un passo nella giusta direzione’”.
La direttrice esecutiva di Greenpeace International, Jennifer Morgan, ha definito l'accordo “debole e che manca di coraggio”, avvertendo a ragione che questo continuo rimando peggiorerà la situazione, e in questo modo il prossimo anno per risolvere la crisi – se sarà ancora possibile – serviranno obiettivi ben più stringenti di quelli che sarebbero dovuti essere fissati in Scozia.
Secondo Legambiente l'accordo è “inadeguato” per fronteggiare l'emergenza climatica, anche se le dichiarazioni rilasciate dal presidente nazionale Stefano Ciafani, individuano nel testo anche “aspetti positivi” accontentandosi che l'accordo “citi” il carbone; si accontenta di poco anche il WWF internazionale che nei fatti plaude ai “progressi fatti” nell'intesa”. Commenti che confermano e rafforzano le posizioni ultra istituzionali di queste associazioni dai vertici complici fattivi della catastrofe planetaria.
Il presidente della conferenza, Alok Sharma, aprendo l'ultima riunione plenaria, aveva lanciato un appello ai delegati presenti a Glasgow ad accettare la bozza della dichiarazione osservando che è "equilibrata" e che è un passo avanti "per tutti". Poi si è dato alle stesse lacrime di coccodrillo che hanno reso celebre in Italia la ministra Fornero ai tempi della sua antioperaia riforma sulle pensioni; una strategia che non guasta se devi far digerire un boccone indigesto come un macigno.
Dello stesso stampo l'intervento del vicepresidente della commissione europea Timmermans che ha chiesto l'adesione al protocollo “per il futuro dei nostri figli e nipoti”, quando sapeva benissimo che proprio per loro sarebbe stato necessario tutt'altro esito del summit scozzese.
Oltre alla delusione espressa dal segretario generale dell'ONU Antonio Guterres che ha definito l'accordo “un compromesso che riflette gli interessi, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi. È un passo importante, ma non basta”, dei rappresentanti dei Paesi poveri come Antigua, Barbuda e delle Isole Marshall e Fiji, e di pochi altri Paesi, si sono susseguite una serie di dichiarazioni celebrative dei Paesi inquinatori, i primi interventi di “greenwashing” ai quali facevano riferimento i Fridays nelle loro conclusioni.
Ecco infatti che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il premier inglese Boris Johnson e l'inviato Usa per il Clima, John Kerry, per dirne alcuni, hanno evidenziato la sottoscrizione dell'accordo di tutti i 197 Paesi ONU parlando di testo “molto buono”, e in effetti lo è per le lobby petrolifere e industriali delle quali essi fanno gli interessi, non certo per il clima, per la Terra e per i popoli di tutto il mondo.
 

Fuorvianti e inconsistenti accordi ai margini della Cop
Nei giorni precedenti all'uscita del documento finale, la cui difficoltà di delibera ha necessitato di un prolungamento di due giorni del summit, se da un lato i Paesi poveri riuniti nel PMA hanno portato avanti compattamente le loro rivendicazioni, i maggiori inquinatori del globo hanno lavorato alacremente per gettare ulteriore fumo negli occhi degli ambientalisti e degli scienziati di tutto il mondo, siglando numerosi accordi – chiaramente non vincolanti nel suo rispetto – parziali e insufficienti.
Lo “sforzo” parallelo dei paesi inquinatori è stato quindi quello di accordarsi a schemi variabili sulla base della propria produzione di questa o quella fonte fossile e alle necessità delle multinazionali dell'energia rispettivamente più influenti, in accordi specifici.
Così UE e USA hanno dato vita ad esempio ad un cartello di 100 Paesi responsabili del 50% delle emissioni di metano (il secondo responsabile del riscaldamento climatico dopo la CO2) che si “impegna” nella riduzione di produzione e consumo, senza l'adesione di Russia, India e Cina che insieme ne producono un terzo.
Appena 20 Paesi fra i quali Gran Bretagna, USA, Canada, Danimarca e Italia, hanno dichiarato di interrompere i finanziamenti internazionali per la produzione di combustibili fossili entro la fine del 2022, ben precisando però che questo cartello oltre a non essere come gli altri vincolante, permetterebbe ancora il sostegno alle imprese straniere di combustibili fossili e prevederebbe alcune “esenzioni” che la dicono lunga sulla reale efficacia.
Lo stesso carbone, re del fossile inquinante, e il suo stop definitivo, è stato oggetto di un nuovo “impegno” di altri 40 Paesi fra i quali Polonia, Vietnam e Cile che si è guadagnato ampie colonne su tutti i quotidiani internazionali, ma che non raggiunge la sufficienza scientifica nelle modalità che prevederebbero la cessazione al 2040 per i Paesi meno sviluppati e al 2030 per gli altri, Polonia inclusa. Nonostante questi tempi insufficienti anche se fossero effettivamente rispettati, Australia, Cina, India e USA, super potenze mondiali del carbone ne rimangono fuori.
Nulla di diverso rappresenta il protocollo USA – Cina, annunciato anch'esso in pompa magna il 10 di novembre che prevede un gruppo di lavoro bilaterale che si riunirà a partire dalla metà del 2022 per “potenziare l’azione sul clima” nel decennio in corso. L'obiettivo è già al ribasso: non 1,5 gradi ma mantenere l’aumento delle temperature sotto i 2 gradi a fine secolo.
Sullo sfondo di questo moltiplicarsi di inutili protocolli che servono solo a far giubilare i media al servizio della borghesia internazionale, smentendoli di fatto, rimane la prevista costruzione di centinaia di nuove centrali a carbone in Cina, India, Indonesia, Turchia, Bangladesh e nello stesso Vietnam; per non parlare poi dei Paesi OPEC, l'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, che sostengono lo stoccaggio sotto terra della CO2 per il semplice motivo che in questo modo si potrebbe continuare a produrla senza necessità di abbandonare alcuna fonte fossile.
Insomma, nulla di più di altri modi per sfoggiare un ambientalismo che non c'è, rimanendo ben saldi nel favorire ciascuno per propria sfera di influenza, e cioè quelle 887 società petrolifere e del gas vere trionfatrici anche a Glasgow che rappresentano più del 95% della produzione totale di idrocarburi, che hanno investito ben 168 miliardi di dollari per esplorare nuovi giacimenti e che attualmente possiedono 212 mila chilometri di infrastrutture tra oleodotti e gasdotti in tutto il mondo in via di sviluppo.
Interessi enormi, ben sostenuti da banche e compagnie assicurative internazionali dell'alta finanza che nonostante le loro dichiarazioni “verdi” e di rispetto dei contenuti della Cop21 di Parigi, proprio dal 2016 al 2020, hanno investito nel fossile oltre 3.300 miliardi di euro (fonte rapporto Fare banca sul caos climatico). Quelle stesse compagnie petrolifere che hanno ricevuto nel solo 2020 sussidi pubblici per 5.900 miliardi di dollari, secondo il Fondo monetario internazionale.
 

Lottare contro il capitalismo e i suoi governi per fermare il riscaldamento globale
In un testo postato qualche giorno prima della fine del summit sul sito dei Fridays for Future di tutto il mondo, la fondatrice Greta Thunberg ha tacciato il summit di fallimento, accusando i governi di non voler far nulla contro il riscaldamento globale, ma di preferire i profitti delle aziende che essi servono con fedeltà al punto da non rendersi conto del danno irreparabile al pianeta che è di tutti.
I giovani ambientalisti rappresentano, a ragione, di quanto l’emergenza climatica e ecologica sia solo uno dei sintomi di una crisi di sostenibilità in senso molto più ampio; una crisi sociale, fatta di disuguaglianze, che risale al colonialismo e oltre, una crisi basata sull’idea che alcune persone meritano più di altre e che, di conseguenza, hanno il diritto di rubarsi e sfruttare le risorse e le terre altrui, fino a sostenere addirittura che sia “ingenuo pensare di risolverla senza andare alla radice (…) senza dimenticare che possiamo ancora capovolgere la situazione, se siamo pronti a cambiare.”.
Noi marxisti-leninisti italiani condividiamo appieno questa analisi. Riteniamo però sbagliato e illusorio l'auspicio con il quale il documento si chiude, e cioè che “ci sarebbe solo bisogno di qualcuno – un leader mondiale o un Paese ricco o un importante canale TV o giornale che decidesse di essere onesto, di trattare la crisi climatica come la crisi che effettivamente è. Un leader che tenga conto di tutti i numeri per poi intraprendere azioni coraggiose al fine di ridurre le emissioni secondo il ritmo e le proporzioni che la stessa scienza chiede. Allora tutto potrebbe essere orientato verso l’azione e la speranza, con determinazione e risolutezza”.
Le giovani e i giovani, studentesse e studenti che hanno saputo indirizzare la battaglia per il clima in una direzione avanzata, indipendente e progressista, che sono stati capaci di formulare critiche antimperialiste così convincenti e che non si sono fatti ingannare dalle parole al miele dei capi di stato di turno smentite anche dalla pratica e dalla scienza, non possono illudersi dell'avvento del governo borghese “illuminato”, che rinunci a razzie e profitto per il bene comune e per l'ambiente.
Un governo di questo tipo assieme al suo leader non potrà mai esserci, poiché il problema reale è il capitalismo e le sue dinamiche di produzione e di sfruttamento. La strada che i giovani e le giovani di tutto il mondo devono iniziare a percorrere è quella della lotta contro il capitalismo, causa di tutti i mali sociali e della devastazione dell'ambiente, e dei suoi governi. Poi prima l'anticapitalismo si trasformerà in lotta di classe per il socialismo, meglio sarà, perchè solo il socialismo saprà conciliare la salute e il benessere dell'essere umano, con quelli degli animali e dell'ambiente, per la salvaguardia del Pianeta e del clima, in un mondo senza sfruttamento, senza profitto, senza colonialismo, senza fascismo, senza razzismo e senza miseria e fame in ogni angolo del globo.
Un'altra via non c'è, soprattutto se interna – appunto – al sistema capitalista che riduce tutto a merce, inclusa la salute pubblica, l'ambiente e la natura della quale anche l'uomo fa parte.
Teniamo a mente queste, fra tante altre, parole di Engels: “Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato” (Dialettica della natura, Opere Complete Marx – Engels, Editori Riuniti, vol.XXV, p.468) . Questa, in sostanza è la differenza principale fra il socialismo e il capitalismo per quanto riguarda il rapporto degli esseri umani con la natura.

17 novembre 2021