La “riforma” delle tasse non dà niente alla fascia più bassa e solo briciole a quella medio-bassa
esonero dalla tassazione per i redditi fino a 25 mila euro

Il 5 ottobre il Consiglio dei ministri ha approvato il Disegno di legge delega per la “riforma” fiscale, dopo l'accordo raggiunto nella “cabina di regia” con Draghi, il ministro dell'Economia Franco, che ha messo a punto il provvedimento e i rappresentanti dei partiti della maggioranza.
Pezzo forte del Ddl delega è la “riforma” della tassazione, per la quale sono stati stanziati in tutto 8 miliardi, di cui 7 per la riduzione dell'Irpef e 1 per il “superamento graduale” dell'Irap, la tassa sulle attività produttive che va a finanziare la sanità regionale, la cui abolizione è da sempre chiesta a gran voce dalla Confindustria e che Draghi aveva promesso in linea di principio all'ultima assemblea dell'associazione padronale. Nella fattispecie il miliardo, troppo esiguo per l'abolizione in toto, è stato destinato ad abolirla solo agli autonomi, ditte individuali, persone fisiche e start up.
Per quanto riguarda la rimodulazione dell'Irpef, già annunciata pomposamente a febbraio da Draghi nel discorso di insediamento alle Camere come una “revisione profonda, con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività”, in realtà, data la pochezza dello stanziamento a fronte di tanto ambizioso obiettivo, è stato deciso semplicemente di concentrare i 7 miliardi per abbassare le tasse al cosiddetto “ceto medio”. Lasciando invece beffata e a bocca asciutta la grande massa dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, che come confermato dal direttore dell'Agenzia delle entrate Ruffini, contribuiscono per ben il 90% all'intero ammontare dell'imposta sulle persone fisiche. Tale decisione è stata presa all'unanimità nella “cabina di regia” del 25 novembre tra il ministro Franco e i rappresentanti dei partiti che sostengono il governo, recependo le indicazioni della commissione Finanze della Camera presieduta dal renziano Marattin, e sarà formalizzata in un emendamento del governo alla legge di Bilancio.

Una “riforma” regressiva che rafforza l'iniquità
Attualmente ci sono 5 aliquote di prelievo: 23% sui redditi fino a 15mila euro; 27% tra 15 e 28mila; 38% fra 28 e 55mila; 41% tra 55 e 75mila; 43% al di sopra di tale cifra. A questa distribuzione, caratterizzata da una forbice assai ridotta tra le aliquote minima e massima, si è arrivati dopo le controriforme fiscali liberiste degli anni '80, e proseguite anche negli ultimi decenni dai governi sia di “centro-destra” che di “centro-sinistra”, che hanno demolito gradualmente l'assetto stabilito nel 1974, fino a ridurre gli scaglioni di reddito da 32 agli attuali 5, e altrettanto la progressività (il principio per cui il prelievo aumenta in percentuale all'aumentare del reddito), che andava originariamente dal 10% al 72% (cioè 62 punti di progressività), riducendola fino all'attuale forbice 23%-43%: cioè appena 20 punti di progressività.
Questa “riforma” non solo non inverte tale tendenza, come lo spaventoso aumento delle disuguaglianze degli ultimi decenni, accentuatesi ulteriormente con la pandemia, richiederebbe; ma addirittura la consolida, e per di più all'interno dell'attuale assetto opera una detassazione a favore dei redditi medio-alti. E ciò in base al principio, accampato con suprema faccia tosta da Marattin, che è giusto tagliare le tasse al ceto medio, dal momento che i redditi più bassi pagano già meno tasse!
Dal 2022, infatti, le aliquote diventerebbero 4. Nessun cambiamento per il primo scaglione del 23% fino a 15mila euro. Il secondo scaglione resterebbe uguale (15-28mila euro) ma si applicherebbe il 25% anziché il 27%. Il terzo scaglione si restringerebbe di poco (28-50mila euro) ma con un’aliquota che scende dal 38% al 35%. Sparirebbe l’aliquota del 41% e il 43% si applicherebbe così dai redditi oltre 50mila euro. Sarebbero riviste anche le detrazioni, su cui non sono state fornite molte informazioni, tranne che si prevederebbe il riassorbimento del bonus Renzi, arrivato da 80 a 100 euro, e l'aumento della no tax area, ma solo per gli autonomi, da 4.800 a 5.500 euro.

Sgravi concentrati nella fascia 35-65 mila euro
Dalla tabella acclusa, anche se non tiene conto delle suddette variabili, si possono comunque giudicare gli effetti regressivi della “riforma”. Essa non concede infatti alcuno sgravio ai redditi sotto i 15.000 euro, dove si raggruppano milioni di pensionati al minimo, lavoratori precari, in particolare giovani e donne, agricoltori, piccole partite iva, ecc. Concede poche centinaia di euro di sgravi alla gran massa di lavoratori dipendenti e pensionati delle fasce più basse tra i 20.000 e i 30.000 euro, e concentra la maggior parte delle poche risorse stanziate sui redditi tra i 35.000 e i 65.000 euro, con 470 euro di sgravio per queste due fasce, fino ad arrivare ad un massimo di 920 euro per la fascia 50-55 mila euro. In termini percentuali gli sgravi più significativi, diciamo uguali o superiori almeno a circa un punto percentuale, si realizzano nell'intervallo tra 30.000 euro e 60.000 euro, con un massimo di 1,84% per lo scaglione 50-55 mila euro.
Notare che quest'ultimo sgravio, per quanto modesto in assoluto, è più del triplo di quello per lo scaglione 20-25 mila (pari a solo mezzo punto percentuale), e quasi doppio di quello dello scaglione 25-30 mila (pari ad un punto percentuale). Notare altresì che anche i redditi eccedenti i 75.000 euro godono comunque di uno sgravio, grazie all'alleggerimento del carico fiscale sulla parte di reddito fino a tale cifra. Uno sgravio sia pure ridotto a 270 euro fissi (e a decrescere in percentuale), ma pur sempre superiore in cifra assoluta a quello concesso ai redditi fino a 30.000 euro. Un premio del tutto gratuito di 270 milioni di euro al milione di contribuenti al di sopra dei 75 mila euro di reddito, che tra l'altro è diventato oggetto di una vergognosa pantomima tra Draghi, che proponeva di congelarlo per un anno per destinarlo ad alleviare gli enormi aumenti delle tariffe di gas ed elettricità previsti da gennaio - una sorta di “contributo di solidarietà” per offrire un contentino ai sindacati dopo la rottura seguita all'incontro del 2 dicembre - e la Lega e Forza Italia, spalleggiate da Italia Viva, ormai passata armi e bagagli nel campo della destra parlamentare, che invece hanno bocciato a spada tratta la proposta considerando perfino questa una “patrimoniale mascherata”.

Niente contro l'evasione fiscale e le rendite parassitarie
Per valutare tutta l'iniquità dell'attuale sistema di tassazione, compreso e a maggior ragione quello “riformato” da Draghi, basti pensare che se dal 2022 un reddito medio-basso di 28.000 euro verrà tassato con un'aliquota media del 25%, a metà degli anni '70 lo stesso reddito medio-basso, equivalente a circa 4,5 milioni di lire dell'epoca, era tassato con un'aliquota media del 13%, ovvero quasi la metà di oggi. Va poi aggiunto che, a parte l'enorme evasione fiscale - che fa sì che, sempre secondo Ruffini, oltre la metà dei 41 milioni di contribuenti Irpef dichiari meno di 20 mila euro, solo 40 mila (lo 0,1%) dichiari più di 300 mila, e solo 3 mila più di un milione di euro – il sistema tributario è tanto esoso sui redditi da lavoro quanto invece generoso con la rendita parassitaria, incluse le eredità e le donazioni in vita che in Italia sono tra le meno tassate al mondo (solo l'1% sui lasciti superiori a 10 milioni, sei volte meno dell'aliquota media del 1995).
Lo ha rilevato anche l'Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), con un documento che giudica la “riforma” di Draghi e Franco ispirata a “principi e criteri troppo indeterminati” e mancante di elementi di indirizzo “fondamentali per un ridisegno complessivo e organico del sistema tributario”. Tra questi l'Upb cita la “revisione delle imposte patrimoniali” e i “regimi agevolati sui redditi da capitale”, quali la cedolare secca sugli affitti, i rendimenti dei titoli di Stato e altri dividendi a lungo termine, e per quanto riguarda il “superamento” dell'Irap, mancano le necessarie garanzie sul “finanziamento del fabbisogno sanitario”.
Perfino la Confindustria, per bocca del falco Bonomi, ha criticato la manovra fiscale del governo. Certamente perché dopo l'abbuffata di miliardi del PNRR alle imprese avrebbe voluto che anche l'intero pacchetto di 8 miliardi fosse stato destinato ad abbattere l'Irap alle industrie. Tuttavia perfino lui, in un'intervista al Corriere della Sera del 27 novembre, non ha potuto non rilevare che per l'Irpef “non c'è un reale sostegno alle fasce deboli mentre lo sconto maggiore si concentra sulla fascia di reddito tra 40 e 45 mila euro”, e che “non c'è nulla per giovani e donne, ma si dà il grosso del taglio delle tasse a fasce sociali che non sono le più deboli”.

La Cisl capitola, Cgil e Uil proclamano lo sciopero generale
Negli incontri a Palazzo Chigi i sindacati chiedevano che tutti gli 8 miliardi fossero destinati a lavoratori e pensionati aumentando le detrazioni, e soprattutto a sostenere la fascia sotto i 15 mila euro, completamente ignorata invece dal governo, ampliando la no tax area. Ma Draghi ha tirato diritto rifiutandosi di invertire il segno alla “riforma” che ignora o dà solo briciole alle fasce più basse e concentra le poche risorse sulle fasce medio-alte. Dopo la rottura del 2 dicembre, nel tentativo di evitare uno scontro coi sindacati con qualche piccola concessione, Draghi e Franco hanno messo sul piatto 1,5 miliardi per ridurre, solo per un anno, il prelievo contributivo sugli stipendi e le pensioni fino a 35 mila euro, nonché l'aumento di qualche centinaio di euro della no tax area per i pensionati, che sale a 8.500 euro. Briciole insomma, ma che sono bastate a ottenere il consenso del segretario della Cisl, Luigi Sbarra, che si è dichiarato soddisfatto in generale della manovra di bilancio del governo, dissociandosi dall'idea dello sciopero generale e ribadendo la necessità “della partecipazione e della concertazione, verso quel patto sociale indicato anche dal presidente Draghi”.
Il segretario della Cgil Landini e quello della Uil Bombardieri non hanno invece ritenute sufficienti le risposte del governo, non solo sul fronte del fisco ma anche – hanno sottolineato in un comunicato - “sul fronte delle pensioni, della scuola, delle politiche industriali e del contrasto alle delocalizzazioni, del contrasto alla precarietà del lavoro soprattutto dei giovani e delle donne, della non autosufficienza, tanto più alla luce delle risorse, disponibili in questa fase, che avrebbero consentito una più efficace redistribuzione della ricchezza, per ridurre le diseguaglianze e per generare uno sviluppo equilibrato e strutturale e un’occupazione stabile”. Pertanto hanno indetto uno sciopero generale di 8 ore per il 16 dicembre, con manifestazione a Roma e altre 4 manifestazioni a carattere interregionale.
Salutiamo con soddisfazione questa decisione, che arriva dopo ben 7 anni dall'ultimo sciopero generale deciso contro il Jobs Act di Renzi. Anche se andava presa molto prima, dal momento che la linea liberista e antisindacale di Draghi sul fisco e su tutti gli altri fronti richiamati da Landini e Bombardieri era già delineata chiaramente nella legge di Bilancio presentata due mesi fa. Giustamente, infatti, la Fiom aveva già indetto autonomamente lo sciopero generale per il 10 dicembre, e anche nella scuola Cgil, Uil e altri sindacati di settore avevano già proclamato uno sciopero generale per la stessa data.
Comunque, meglio tardi che mai. Da parte nostra con l'occasione rilanceremo con forza le nostre rivendicazioni sul fisco, a cominciare dall'attuazione di una vera ed effettiva progressività nella tassazione dei redditi, attraverso una lotta rigorosa all'evasione, erosione ed elusione fiscale e l'unicità di imposta per tutte le fonti di reddito, l'abolizione graduale delle imposte indirette a cominciare dall'Iva sui beni e sui servizi di prima necessità e l'esenzione dall'Irpef dei redditi sotto i 25 mila euro annui indicizzati.
Viva lo sciopero generale CGIL e UIL del 16 dicembre. Si associno i “sindacati di base”


8 dicembre 2021