Il primo incontro con i sindacati non promette niente di buono
Pensioni: per il governo la Fornero non si tocca
Senza mettere in discussione il sistema contributivo e le “compatibilità sociali ed economiche” rimarranno età alta e assegni bassi. L'obiettivo minimo di Cgil-Cisl-Uil dovrebbe essere l'abolizione della legge Fornero

 
Il 12 gennaio si è svolto il primo di una serie d'incontri tra governo e sindacati sul tema delle pensioni. La trattativa si era bruscamente interrotta il mese precedente quando Draghi si alzò dalla sedia e irritato lasciò il tavolo della contrattazione perché Cgil-Cisl-Uil avevano giudicato insufficienti le misure dell'esecutivo sul fronte della previdenza, del sistema fiscale e del lavoro precario. Dopo quella rottura c'è stato lo sciopero generale del 16 dicembre, ma i leder confederali fin dal giorno dopo si erano detti disponibili a riprendere il negoziato con i rappresentanti del governo, e quest'ultimi avevano rimandato la data a dopo l'approvazione della Legge di Bilancio.
E così è stato, riscuotendo gli apprezzamenti dei dirigenti sindacali con cui sono stati concordati una prima serie di tavoli da gennaio al 7 febbraio, data in cui si dovrebbe fare un primo bilancio. L'ottimismo di Cgil-Cisl-Uil non è però giustificabile perché la questione non è tanto quando e come si svolgeranno questi incontri, ma su che cosa si ha intenzione di trattare e fino a che punto si vuol mettere mano a interventi radicali nel sistema previdenziale italiano, visto che il governo ha fatto capire chiaramente che la Fornero non si discute. Ma probabilmente i sindacati confederali si accontentano di poco poiché non chiedono nemmeno la sua abrogazione, ma parlano solo di riforma o di “superamento” della famigerata legge varata dal governo Monti ed entrata in vigore oramai da 10 anni. È vero che quello del 12 gennaio è stato un primo incontro interlocutorio e veloce, durato appena un paio di ore, ma le premesse, per le lavoratrici, i lavoratori e i futuri pensionati, sono tutt'altro che buone.
Al vertice per il governo erano presenti il ministro del Lavoro Andrea Orlando (PD) e due uomini di stretta osservanza draghiana, il ministro dell'Economia Daniele Franco e l'esperto di previdenza e consigliere di Palazzo Ghigi, Marco Leonardo. Orlando ha esordito dicendo che si dovrà tenere di conto delle diverse aspettative di vita, delle caratteristiche del lavoro, del lavoro di cura e domestico delle donne, della discontinuità dell'attività lavorativa, dei salari bassi che creano pensioni inadeguate, del sistema integrativo e complementare. Il tutto però legato “alla natura contributiva e all'equilibrio finanziario del sistema”. Il che sta a significare che i capisaldi della Fornero come il calcolo contributivo non si toccano e in ogni caso non si dovranno chiedere al governo grandi sforzi finanziari.
Quella che si prospetta è un operazione di maquillage a costo zero, con alcuni ritocchi che dovranno rimediare agli squilibri più macroscopici causati dalla Fornero, ma con le stesse risorse, da destinare ad alcuni futuri pensionati togliendole ad altri. Un po' come successo con il nuovo Assegno Unico, dove per dare gli assegni familiari a chi non ne aveva finora diritto, come autonomi e partite IVA, si sono andate a togliere detrazioni e denari ai redditi medio bassi dei lavoratori dipendenti. Una operazione che in ultima analisi è avvallata dagli stessi dirigenti confederali. Bombardieri della Uil ha dichiarato: “nessuno pensa di cambiare il sistema contributivo... ci misureremo dunque sulla compatibilità sociale e su quella economica". Per Sbarra della Cisl: "L’obiettivo è cambiare e trasformare il sistema pensionistico, conferendo maggiore sostenibilità sociale, tanta inclusività soprattutto per giovani e donne, più flessibilità e stabilità”; dello stesso avviso Roberto Ghiselli della Cgil, che si pone “l’obiettivo di arrivare ad una riforma previdenziale che dia stabilità al sistema e che cambi l’attuale impianto, nell’ambito di un percorso che conferma l’approdo ad un sistema contributivo”.
I sindacati sono partiti con il piede sbagliato perché qui non si dovrebbe discutere di qualche modifica, ma di come recuperare quel profondo balzo all'indietro, quel gap pesantissimo subito dalle pensioni nel nostro paese causato dalle controriforme previdenziali messe in campo da tutti i governi: di centrodestra, di “centrosinistra” e “tecnici”. In meno di venti anni si è passati dall'età pensionabile di 55 anni o 30 anni di contributi per le lavoratrici e di 60 anni di età o 35 anni di contributi per i lavoratori, a requisiti quasi identici per uomini e donne che richiedono 67 anni di età o 43 anni di contributi (entrambi variabili al rialzo). Inoltre il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo ha ridotto l'assegno pensionistico da una quota che si aggirava intorno all'80-85% del salario, a quella dei futuri pensionati che andrà a coprire a malapena il 50-60% dello stipendio.
Se non si mettono in discussione il sistema contributivo e la “sostenibilità economica e sociale”, i margini di manovra diventano minimi e infatti le stesse proposte sindacali sono del tutto insufficienti a recuperare il terreno perduto dalle pensioni sia sul piano normativo (età e contributi) che su quello economico. In sostanza Cgil-Cisl e Uil propongono che alcune misure oggi provvisorie diventino strutturali. Stiamo parlando ad esempio dell'opzione donna, che permette alle lavoratrici di andare in pensione a 58 anni con almeno 35 anni di contributi ma con un assegno fortemente decurtato, o dell'Ape sociale per andare in pensione a 63 anni con 30 anni di contributi riservata a persone in gravi difficoltà. Tra le proposte sindacali la possibilità di uscire dal mercato del lavoro a 62 anni o 41 di contribuzione. In questo caso però Cgil-Cisl-Uil, che si appellano alla flessibilità, non dicono che rimanendo con il contributivo l'assegno pensionistico sarà minore. Perciò se fino al 2000 bastavano 60 anni di età o 35 di contributi (di meno per le donne) per ottenere una pensione “intera”, anche nella lontana ipotesi che la proposta confederale fosse accettata si otterrebbe, pur con requisiti più penalizzanti, una pensione decurtata.
Con queste prospettive, con questa copertura fatta di pensioni da fame, è quasi inevitabile che alla fine si vada a discutere di pensione integrativa. Anziché chiedere l'abolizione della Fornero e il ritorno al più dignitoso sistema pensionistico ottenuto con le lotte operaie degli anni '60 e '70, si preferisce lasciare quasi intatte le attuali normative e dirottare una quota degli stipendi dei lavoratori verso la cosiddetta “seconda gamba”, ovvero il sistema previdenziale privato fatto di fondi di categoria gestiti dagli enti bilaterali (sindacati confederali-associazioni padronali) o da grandi gruppi assicurativi, da affiancare al sistema pubblico universale, che in questa maniera, come un cane che si morde la coda, riceve sempre meno fondi e, al pari di quanto succede alla sanità pubblica con il welfare aziendale, è destinato al ridimensionamento.
Il minimo che Cgil-Cisl-Uil dovrebbero chiedere è l'abolizione della Fornero, ma come abbiamo già detto non ci sono le premesse che facciano pensare a passi avanti significativi in questo senso. Staremo a vedere, ma ci sta che il tutto si concluda con un nulla di fatto, anche perché i partiti adesso sono tutti presi dalla prossima elezione del nuovo presidente della Repubblica.

19 gennaio 2022