Documento del Comitato centrale del PMLI
La condizione della donna oggi in Italia e i compiti del PMLI sul fronte femminile
Un documento marxista-leninista storico, fondamentale della linea femminile del PMLI
Qui di seguito pubblichiamo il documento del Comitato centrale dal titolo “La condizione della donna in Italia e i compiti del PMLI sul fronte femminile”, adottato il 1° marzo 1987. Si tratta di un documento marxista-leninista storico, fondamentale della linea femminile del PMLI.
Il compagno Giovanni Scuderi, nelle applauditissime conclusioni della 3a Sessione plenaria del 3° Comitato centrale del PMLI che ha adottato il documento, ha detto che "esso costituisce una sintesi, una sistematizzazione e un salto di qualità della linea femminile del Partito. Esso fornisce a tutto il Partito e alle donne coscienti una potente arma di lotta per combattere con successo la schiavitù e l'oppressione delle masse femminili”.
Inoltre ha affermato che la compagna Monica Martenghi per il suo Rapporto, che poi è stato trasformato in documento del CC, e “per tutta la sua opera politica, giornalistica e organizzativa ha apportato un contributo decisivo alla elaborazione e alla realizzazione della linea femminile del Partito”.
Ed ha aggiunto: “I meriti che ella ha acquisito in questo campo, nonché nella compartecipazione alla direzione del Partito e dei suoi militanti rimarranno immortali. Ella incarna in maniera esemplare i caratteri di fondo del Partito e dei suoi militanti: assoluta dedizione alla causa del Partito, del proletariato, del socialismo e dell'emancipazione femminile; assoluta fedeltà agli insegnamenti dei grandi maestri del proletariato internazionale, Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao, e alla linea politica del Partito, fiducia incondizionata nelle masse proletarie, popolari, femminili, e giovanili; determinazione e perseveranza nella lotta di classe”.
Sono passati ben 35 anni e ancora adesso, nonostante le vicissitudini di salute, professionali, familiari e di età, la compagna Monica Martenghi mantiene gli stessi caratteri di allora, come, in genere, le altre compagne cofondatrici del PMLI e delle generazioni immediatamente successive. Una grande forza marxista-leninista per tutto il nostro amato PMLI.
Il nostro auspicio è che le nuove compagne seguano le loro orme acquisendo a fondo il marxismo-leninismo-pensiero di Mao, la linea del PMLI, specie quella femminile. Ne hanno un'occasione leggendo, studiando e applicando il documento che qui pubblichiamo.

 

 
Fra pochi giorni festeggeremo l'8 marzo, giornata internazionale della donna. Una grande ricorrenza storica che la borghesia vuol cancellare dal calendario a causa della sua origine proletaria e marxista-leninista, e dei ricordi, della carica e dello spirito di lotta che essa suscita. Noi però non glielo permetteremo perché I'8 Marzo è patrimonio inalienabile del proletariato internazionale, delle masse sfruttate e oppresse e di tutte le donne progressiste della Terra e perché la questione femminile è ancora aperta in Italia e nel mondo.
L'8 Marzo di quest'anno è per noi un'ottima occasione per fare un bilancio della condizione della donna oggi in Italia e stabilire i compiti del Partito sul fronte femminile.
Troppe menzogne e falsità seminano il governo e la borghesia per deformare, addolcire e nascondere la realtà della condizione femminile.
Troppa confusione regna fra le masse femminili e nell'intera società a causa della campagna mistificatoria e soporifera di Craxi sulla cosiddetta "Italia che cambia" e per via del grave processo di deideologizzazione, decomunistizzazione e socialdemocratizzazione portato avanti dal vertice del PCI che gradualmente disarma persino la parte più cosciente e avanzata del proletariato femminile e maschile.
È quindi tempo di andare a vedere come stanno effettivamente le cose, ristabilire la verità, sbugiardare pubblicamente il governo e rendere giustizia alle masse femminili schiacciate e abbrutite dalla disoccupazione, dal lavoro nero, dalla schiavitù salariata e domestica, dall'oppressione e discriminazione sociale, culturale e di sesso.
Non ci limiteremo solo alla denuncia, ma approfitteremo di questa occasione per riproporre la linea del Partito sull'emancipazione femminile.
 

1 - La condizione della donna dall'unità d'Italia ad oggi

DALL'UNITA' D'ITALIA FINO ALLA DITTATURA FASCISTA
All'atto dell'unificazione nazionale e dell'avvento della borghesia al potere, le masse femminili sono ancora in gran parte condizionate dall'economia feudale essenzialmente agricola. Esse collaborano all'attività familiare nei campi o nel lavoro a domicilio e dipendono interamente dalla famiglia di tipo patriarcale che subordina le donne, mogli, madri e figlie in tutto e per tutto alla patria potestà.
Con l'industrializzazione del Paese, anche se ancora arretrata rispetto ad altri paesi europei e non diffusa su tutto il territorio, si assiste all'ingresso in massa delle donne nelle fabbriche. Avviene cioè quello che già Marx ed Engels avevano avuto modo di analizzare. L'uso delle macchine permette "di fare a meno della forza muscolare(...) di adoperare operai senza forza muscolare o di sviluppo fisico immaturo. Quindi lavoro delle donne e dei fanciulli è stata la prima parola dell'uso capitalistico delle macchine" . (C. Marx, Il Capitale, voi. I, tomo 2, Ed. Riuniti).
Così il capitalismo in Italia si afferma principalmente sulla pelle delle donne. L'industria tessile, il più importante settore industriale italiano fino ai primi anni del '900, impiega la stragrande maggioranza di mano d'opera femminile, che nel 1901 ammonta ben al 79% del totale.
Le donne lavorano al pari degli uomini dalle 12 alle 16 ore giornaliere compresa la notte, ma i loro salari sono pressoché dimezzati rispetto a quelli maschili. Il ricatto di essere sostituiti dalle donne serve al capitalista per tenere bassi anche i salari maschili. Le condizioni di lavoro sono bestiali, minano precocemente il fisico delle operaie costrette a lavorare anche gravemente malate e fino all'ultimo giorno di gravidanza, per tornare al proprio posto solo 2 o 3 giorni dopo il parto.
Nonostante ciò la partecipazione delle donne al lavoro di fabbrica le rende indipendenti economicamente e le strappa dalla ristretta cerchia della famiglia patriarcale, e con ciò apre loro la strada per l'emancipazione.
Tale fenomeno non si riscontra nelle campagne e soprattutto nel Mezzogiorno. Tuttavia anche qui qualcosa è cambiato: la disoccupazione dilagante nel Sud, l'emigrazione forzata degli uomini verso le città del Nord e l'estero costringono le donne a farsi carico da sole del lavoro nei campi, a divenire capifamiglia e a vendere la propria forza-lavoro come braccianti a giornata. Le donne del Sud vengono impiegate persino nei lavori più massacranti, tipo quello delle miniere di zolfo della Sicilia, sbugiardando nei fatti l'ipocrita tesi borghese della "fragilità" della donna.
Muta quindi il ruolo della donna del Sud, ma non abbastanza per porla sullo stesso piano di quella del Centro e del Nord Italia, dove è pure impegnata nel lavoro agricolo che però andava in queste zone modernizzandosi e meccanizzandosi. Il mancato ingresso delle donne meridionali nelle industrie, salvo per quelle emigrate verso il Nord, ha segnato indelebilmente le loro condizioni economiche, sociali e familiari condannandole a una realtà di estrema arretratezza, abbandono e a rapporti familiari e sociali per molti versi ancora di tipo feudale.
Il massiccio ingresso delle donne nel lavoro produttivo industriale non le ha comunque liberate dalla schiavitù domestica. Alla quale il capitalismo ha finito per aggiungere la schiavitù salariata. Le operaie si massacrano di fatica in fabbrica oltre che in casa. Ciò è funzionale al capitalismo, poiché la forza lavoro sfruttata e logorata all'inverosimile ha bisogno ogni giorno di rigenerarsi e anche di essere poi sostituita con forze fresche. Alle donne quindi spetta il compito di produrre e riprodurre la forza lavoro necessaria al capitale che contemporaneamente assegna loro anche il ruolo di esercito di forza-lavoro di riserva da utilizzare nei momenti di espansione produttiva e da espellere nei momenti di crisi. E ciò si è ripetuto puntualmente nella storia del capitalismo italiano fino ai nostri giorni. Assorbite all'inizio dal capitalismo, le donne vengono espulse alle prime crisi di sovrapproduzione, che colpiscono soprattutto l'industria tessile nel primo decennio del '900, per essere poi nuovamente assunte durante la prima guerra mondiale in sostituzione degli uomini impegnati al fronte.
Attraverso lo Stato, il diritto, la morale e i governi che si susseguono, il capitalismo italiano si assicura il pieno controllo delle masse femminili per mantenerle completamente succubi e subordinate ai suoi interessi economici e sociali. In ciò la borghesia italiana fu favorita giacché si era ben guardata da introdurre grandi sconvolgimenti sul piano economico, sociale e del diritto che pure avevano caratterizzato l'avvento della borghesia in altri paesi.
Il nuovo Stato unitario non sancisce neanche a livello di principio un progresso della condizione delle masse femminili. Il nuovo codice civile, elaborato fra il 1861 e il 1865, recepisce i codici più conservatori esistenti negli staterelli in cui era suddivisa la penisola prima dell'Unità, quali quello borbonico (1819) e quello sabaudo (1838). Le donne della Toscana e del Lombardo-Veneto perderanno così persino il diritto di voto amministrativo e quello di divorzio acquisiti prima dell'unificazione.
Il codice civile e le nuove leggi dello Stato unitario in particolare escludono le donne da tutti i diritti politici e ripristinano !"'autorizzazione maritale", che negava alla donna di disporre dei propri beni, dell'eredità e persino della propria dote senza l'autorizzazione del marito. Solo gradualmente si introducono modifiche legislative alla tutela del lavoro femminile, vanificata però in concreto dai capitalisti, e all'accesso delle donne alle categorie medio alte, nonché all'istruzione e agli impieghi pubblici. Bisognerà aspettare il 1919 - non a caso dopo che durante la guerra mondiale la donna aveva dato grandi contributi produttivi e prova delle sue capacità in sostituzione degli uomini - per vedere approvata la "legge sulla capacità giuridica della donna" che abolisce la potestà maritale e allarga le funzioni tutelari della donna, ammette le donne all'esercizio di certe professioni pubbliche, anche se tale esercizio viene ristretto, da un regolamento successivo, alle sole mansioni d'ordine e di servizio e in certi settori del pubblico impiego con l'esclusione però della magistratura, dei pubblici poteri e delle Forze armate.
Particolarmente dibattuta fu la questione del diritto di voto alle donne. Proposte di legge in questo senso si registrano fin dal 1863, ma il parlamento italiano si rifiutò sempre di accordarlo con la motivazione di una presunta incapacità fisica e intellettuale e instabilità emotiva della donna, nonché il rischio di minare l'unità e l'armonia della famiglia.
Nonostante l'inferiorità e la subalternità della donna sancita nelle leggi dello Stato borghese, l'ingresso delle donne nelle fabbriche permetteva loro di entrare nell'esercito dei proletari e di rimanervi più o meno stabilmente. Il che incise profondamente sul ruolo che vennero ad assumere le masse femminili sul piano politico e sociale.
Fin dalla nascita dell'Italia unitaria infatti non vi è lotta, sciopero, rivolta che non abbia visto le masse femminili battersi eroicamente accanto a tutto il popolo lavoratore. Le sigaraie, le mondine, le braccianti, le trecciaiole, le tessili hanno scritto pagine di eroismo, coraggio e determinazione. Hanno difeso il loro lavoro e quello dei loro mariti e figli, hanno lottato per il pane, il salario, la riduzione della giornata lavorativa. E hanno partecipato anche alle lotte più generali contro le guerre colonialiste ed espansioniste dell'imperialismo italiano. Durante la prima guerra di Abissinia, alla fine del secolo scorso; ad Ancona, Alessandria, Brescia, Milano, Roma e in altre località, le donne si gettano sulle rotaie dei treni davanti alle locomotive e assaltano a sassaiole le stazioni per impedire la partenza dei soldati. Il che si ripeterà nelle successive avventure militari e guerre dell'imperialismo italiano.
 

DURANTE LA DITTATURA FASCISTA
L'avvento della dittatura fascista segna un verticale arretramento della condizione delle masse femminili e dell'intero nostro popolo.
Fin dall'inizio il regime si dota di una precisa politica femminile articolata in due direttrici: una demagogica, volta a carpite il consenso e il sostegno delle donne al fascismo, l'altra repressiva e apertamente reazionaria finalizzata a contenere l'avanzata delle masse femminili e rinchiuderle nel loro ruolo domestico e familiare. L'una e l'altra vanno di pari passo. Mussolini in prima persona si incarica di blandire ed esaltare quelle che egli definì "madri di pionieri e di soldati". - Nel 1925 arrivò persino a far concedere dal parlamento, attraverso un suo intervento personale, il voto amministrativo alle donne, anche se egli sapeva che sarebbe stato da n. a poco vanificato per tutti dalle nuove leggi podestarili. Ciò gli valse comunque il consenso di settori femministi dei ceti medi e intellettuali.
Il fascismo tenta anche la strada delle associazioni femminili a carattere corporativo, quali i "Fasci femminili", che rimangono comunque organizzazioni di poche "gerarche", le "Donne fasciste", le "Massaie rurali" e così via, dove vengono inquadrate a forza le donne del popolo, in particolare le dipendenti statali e comunali e le studentesse delle scuole medie. Mai prima di allora si era assistito a un intervento tanto diretto dello Stato e del governo sui problemi di massa delle donne.
Fulcro della propaganda e dell'intervento fascisti era l'esaltazione e la consacrazione della famiglia e della maternità. Facendo leva su di esse il regime tentò di coinvolgere le donne nella sua reazionaria campagna demografica e nel sostegno al nazionalismo costringendo le donne nel ruolo di custodi dei valori della famiglia, della razza e della patria. "Il lavoro - diceva Mussolini - ove non è diretto impedimento, distrae dalla generazione, fomenta una indipendenza, e conseguenti mode fisiche e morali contrarie al parto". Analogamente si esprimono teorici del fascismo; Ferdinando Loffredo scrive nel suo libro "Politica della famiglia": "La donna deve tornare sotto la sudditanza assoluta dell'uomo, padre o marito:· sudditanza, e quindi inferiorità spirituale, culturale ed economica".
Intanto anche la Chiesa all'indomani del Concordato sottoscritto nel '29 da Mussolini entra in campo a sostegno della politica femminile del regime. Nell'enciclica "Casti connubi" del 1930 Pio XI così definisce il lavoro femminile: "una corruzione dell'indole muliebre e della dignità materna, perversione per tutta la famiglia".
La propaganda demagogica e gli stessi incentivi materiali destinati dal fascismo a coloro che si ritiravano dal lavoro e appoggiavano la campagna demografica non furono però sufficienti a irretire le masse femminili, così si passa anche alla repressione e alle leggi coercitive. La mole della legislazione fascista che riguarda le donne è veramente imponente, ma tutta negativa e antifemminile. Fra le principali leggi che riguardano il lavoro femminile ricordiamo: la legge che autorizza le amministrazioni pubbliche a non assumere le donne (1933); quella che impone il limite del 10% alla quota di assunzioni delle donne negli impieghi pubblici e privati (1938); quella che stabilisce gli impieghi più "consoni" alla donna (1939). Inoltre non si può dimenticare che i salari femminili, nel quadro della riduzione generalizzata dei salari, furono portati a non più del 50% di quelli maschili.
Riguardo l'istruzione scolastica, va menzionata la riforma Gentile del '23 che aveva istituito i licei femminili a numero chiuso con lo scopo di dare un diploma alle future mogli e alle signore di "buona famiglia". Mentre la legge del 2 luglio 1929 aumentava dal 30% al 50%, a seconda dei casi, le tasse pagate dalle studentesse e alzava di un punto per le ragazze, dall'8 al 9, la media necessaria per aver diritto all'esonero.
Tutta questa materia legislativa troverà poi sbocco e sistematizzazione nel nuovo codice penale, il famigerato codice Rocco, che conterrà tutte le norme fasciste in materia di famiglia, matrimonio, rapporti fra i sessi e sancirà giuridicamente l'inferiorità economica, sociale e personale della donna. Norme che rimangono in vigore per lunghi anni dopo la Liberazione e in gran parte ancora oggi.
La retorica e la demagogia sulla maternità non sono state però sufficienti al fascismo per domare e soggiogare lo spirito combattivo delle masse femminili italiane e in particolare la loro componente proletaria. Il più grande sciopero di massa avvenuto in Italia nel pieno della dittatura fascista fu quello delle 180.000 mondariso del Vercellese nel 1931. E furono sempre le donne in prima fila durante quegli importanti scioperi e manifestazioni dell'8 marzo 1943 che dettero il via alla mobilitazione di massa sfociata nella gloriosa lotta di Resistenza.
Il contributo delle masse femminili alla guerra di liberazione fu ampio, qualificato, determinante per la vittoria sul nazifascismo. Esse non esitarono a impugnare le armi e a gettarsi anima e corpo nella lotta partigiana. Si calcola che furono circa 2 milioni le donne che parteciparono in una forma o nell'altra alla Resistenza, fra cui 35.000 partigiane combattenti. Caro è stato il prezzo di sangue da loro versato: 2. 750 fucilate o cadute in combattimento, 3.000 deportate nei campi di sterminio, 4.500 arrestate e torturate.
Benché si faccia passare la partecipazione delle donne alla Resistenza attraverso il contributo dato da donne borghesi o intellettuali, l'avanguardia e la massa d'urto contro il nazifascismo era costituita dalla componente proletaria e popolare delle donne. Ed erano queste che non solo aspiravano alla caduta del fascismo ma anche a una nuova società senza più sfruttamento dell'uomo sull'uomo e oppressione e schiavitù della donna, una società che desse loro quella parità che avevano dimostrato sul campo di meritare pienamente.
 

DAL SECONDO DOPOGUERRA AD OGGI
Nonostante la larga e fiera partecipazione delle donne alla guerra di Liberazione dal nazifascismo, l'avvento della Repubblica democratico-borghese non ha modificato sostanzialmente la condizione della donna. Sfruttate nelle fabbriche e nei campi, sospinte dalle ripetute crisi economiche nella disoccupazione e nella barbarie del lavoro nero e a domicilio, private per decenni dei più elementari diritti e succubi di un sistema giuridico rimasto pressoché inalterato dal regime mussoliniano, le masse femminili devono ogni avanzamento e progresso nel campo della vita economica, politica, sociale e familiare esclusivamente al loro sacrificio nella lotta di classe generale e per i loro problemi specifici.
Esse sono riuscite a strappare importanti conquiste, garantite per lo più sulla carta e per lo più disattese nella pratica: la parità salariale, la tutela delle lavoratrici madri e del lavoro a domicilio, il divieto di licenziamento in caso di matrimonio, la parità donna-uomo nel lavoro, il nuovo diritto di famiglia, il divorzio, l'aborto, l'istituzione degli asili nido e dei consultori e così via.
Ma la democrazia borghese, tanto osannata dai partiti del palazzo compreso il vertice del PCI, non è riuscita in oltre 40 anni di vita a garantire e realizzare nella pratica una effettiva parità donna-uomo.
Fin dal dopoguerra la classe dominante è stata impegnata ad arrestare e far rientrare l'avanzata delle masse femminili, soprattutto quelle che avendo partecipato alla Resistenza non intendono abbandonare la vita politica e la lotta di classe e rivendicano il proprio ruolo e i propri diritti sul piano economico e sociale.
Un'infame campagna reazionaria si propone il ritorno forzato delle donne a casa. La crisi economica del dopoguerra deve essere ancora una volta pagata soprattutto dalle masse femminili. De Gasperi, capo del governo, in un discorso pubblico sostiene di nuovo rozzamente l'accessorietà del lavoro femminile: "in fondo - dice - le donne vanno a lavorare per comprarsi le calze di seta". Non di meno fanno i riformisti. Il sindaco socialista di Firenze Gaetano Pieraccini teorizza "un'ordinanza statale per l'allontanamento delle spose dal lavoro extracasalingo".
Il risultato è la massiccia espulsione delle donne dalle fabbriche e dal lavoro. Nel 1954 diminuiscono di due milioni e mezzo le occupate rispetto al dopoguerra e la componente femminile rappresenta il 40% degli iscritti agli uffici di collocamento. Le leggi ma anche gli accordi sindacali condannano le masse femminili ai salari più .bassi e a mansioni e settori pii! dequalificati e marginali. Le lavoratrici lottano strenuamente per difendere il posto di lavoro e conquistare migliori condizioni economiche, normative e sociali. Ma il capitalismo riesce sempre a far ritorcere queste conquiste contro le donne stesse. Le maggiori garanzie e tutele della forza-lavoro femminile rendono meno produttivo il suo impiego per il capitalista, che se ne sbarazza appena può o si rifiuta di assumerla. Dilaga invece il lavoro·nero e a domicilio che proprio negli anni '60-'70 realizza un vero e proprio boom.
Il regime democratico-borghese non ha modificato il tradizionale ruolo borghese della donna ma non è riuscito però a soffocare l'aspirazione delle masse femminili verso il progresso, l'emancipazione e una nuova società.
Soprattutto le operaie e le lavoratrici non si sono mai date per vinte e hanno continuato a incalzare il sistema capitalistico e a combattere i suoi governi reazionari dando un grande contributo alla lotta di classe. Così hanno partecipato con generosità e sacrificio alle lotte contro Scelba e Tambroni, all'occupazione delle terre e delle fabbriche e alle battaglie contrattuali.
In Calabria, nel '46 a Calabricata e nel '49 a Melissa due contadine in lotta vengono uccise dalla polizia.
Importante e fondamentale è stato il contributo delle ragazze e delle studentesse ai grandiosi e memorabili movimenti del '68 e del '77 che devono in particolare a loro il merito di aver messo sotto accusa insieme all'ordinamento scolastico e al sistema capitalistico anche la concezione morale, familiare e dei rapporti fra i sessi della borghesia.
Il '68 inaugura una nuova fase del movimento delle donne. La prima, già conclusasi, era caratterizzata dalla partecipazione alla lotta di classe per la conquista di quelle libertà e di quelle condizioni economiche, sociali, umane e politiche che erano necessarie e comuni all'uomo come alla donna. La seconda fase è invece caratterizzata maggiormente dalla lotta per la conquista di quei diritti e di quelle libertà che da sempre il capitalismo ha negato alle donne. Le masse femminili, estendendo la battaglia, mettendo sotto accusa l'intero sistema capitalistico e rivendicando un'effettiva parità con l'uomo in ogni campo, danno vita a un possente movimento di massa per i diritti civili, per i servizi sociali e per il lavoro.
Le masse femminili in questi anni salgono alla ribalta della scena politica, divengono delle grandi protagoniste della lotta di classe e sociale. Le loro battaglie influenzano tutto il popolo democratico e progressista che le sosterrà e contribuirà in prima persona alle importantissime sconfitte inflitte alla reazione con i referendum sul divorzio e sull'aborto.
Esemplare è la resistenza opposta dalle lavoratrici Fiat ai licenziamenti di massa nei gloriosi 35 giorni di lotta dell'autunno '80. Mentre d'altra parte è da salutare con gioia ed orgoglio l'ampia e avanzata partecipazione delle studentesse alla ribellione studentesca dell''85 di cui sono state le autentiche protagoniste.
Ci auguriamo che il loro esempio sia ripreso e portato ancora più avanti dalle masse femminili del nostro Paese perché tanti sono i problemi che esse devono ancora risolvere e ancora lunga è la strada per conquistare una piena ed effettiva emancipazione e parità fra i sessi.
 

2 - La condizione economica della donna
La più grave e pesante discriminazione che il capitalismo impone alle masse femminili è quella economica. Alla soglia del 2.000 infatti la stragrande maggioranza delle donne non ha acquisito l'indipendenza economica, e persino il reddito di chi la possiede è quasi sempre inferiore a quello· maschile.
Non è possibile per la donna realizzare un'effettiva parità con l'uomo in ogni campo se non raggiunge l'indipendenza economica, se non dispone autonomamente dei propri mezzi li sostentamento. La mancata indipendenza economica si riflette in tutta la sua vita, poiché senza mezzi è condannata ad essere vincolata e subalterna alla famiglia, al marito e ai figli e non è libera di compiere le proprie scelte familiari, sociali e politiche.
È impressionante il numero delle donne che non dispongono di un proprio reddito. Secondo certe statistiche, nel 1983 il 59,2% delle donne è mantenuto dai familiari a fronte del 32,7% di uomini, mentre le donne che hanno un reddito da lavoro sono appena il 21% del totale rispetto al 50,3% degli uomini, e quelle che dispongono di una pensione sono il 18,2% rispetto al 15,8% degli uomini. Anche sommando i redditi da lavoro con quelli da pensione risulta che solo il 39,2% di donne dispone di tali redditi rispetto al 66,1% degli uomini.
Da un'indagine più dettagliata del 1978 che prende in considerazione solo la popolazione sopra i 14 anni si rileva che la forbice della disparità economica fra donna e uomo si allarga ulteriormente. Il 56,7% delle donne non ha un proprio reddito, mentre gli uomini nella stessa condizione sono solo il 16,2% per lo più concentrati nell'età scolastica fra i 14 e i 29 anni. Nella fascia di età fra i 30 e i 39 anni per esempio le donne che non dispongono di reddito sono ben il 63,3% mentre gli uomini sono appena l'l,2%. Fra i 40 e i 49 anni le donne sono il 65,2% e gli uomini lo 0,6%.
Il disporre di un reddito non equivale comunque per le donne a una condizione economica pari a quella dell'uomo. I salari e le pensioni femminili sono sempre al di sotto di quelli maschili. Nell'aprile 1982, per esempio, secondo dati pubblicati dall'Eurostat, il salario medio lordo delle operaie nell'insieme delle industrie manifatturiere era pari all'86,1% di quello maschile. Ciò è dovuto in particolare alla segregazione occupazionale delle donne nelle categorie a più basso reddito e nei livelli più bassi, e alla mancanza di tutte le voci aggiuntive della busta paga concesse in genere agli uomini.
Le stime comunque sono sempre al di sotto della realtà. Prendendo in esame l'indagine Istat sui bilanci familiari dell'83 risulta per esempio che quando il capofamiglia è un uomo il reddito medio mensile della famiglia è di 1.572 mila lire, mentre se è una donna lo stesso reddito scende a 950 mila lire, cioè il 40% in meno. Nel caso di famiglia con un solo componente il reddito medio mensile è di L. 949 mila se uomo e di L. 715 mila se donna, cioè del 20% inferiore.
Un altro fenomeno impressionante è quello che da qualche parte viene definito la "femminilizzazione della povertà". Dall'indagine svolta recentemente dalla Commissione sulla povertà diretta da Ermanno Gorrieri, risulta infatti che esistono in Italia ben 3 milioni e 328 mila donne, pari all'11,5% dell'intera popolazione femminile, classificate povere, cioè con un reddito inferiore alla metà del reddito medio pro-capite nazionale. Sulla povertà totale censita dalla Commissione le donne rappresentano il 53,5%. La maggioranza delle donne povere (ma sarebbe più esatto dire alla fame) è costituita da donne anziane sole che sopravvivono con pensioni miserabili (la pensione sociale è dal 1° gennaio 1987 di appena 308 mila lire al mese), mentre un'altra parte è costituita da donne più giovani con figli piccoli che vivono sole. Forte l'incidenza della povertà tra le casalinghe: esse ammontano a 1 milione e 179 mila, un terzo del totale delle donne povere.
Fin da adesso risulta chiaro che la disoccupazione, la casalinghità e il percorso lavorativo delle donne rappresentano fattori determinanti della loro mancata indipendenza economica e addirittura della loro condizione di maggiore povertà rispetto all'uomo.
Da oltre un secolo il capitalismo e i suoi governi impediscono lo sviluppo della forza-lavoro femminile e la tengono prigioniera all'interno delle mura domestiche.
La forza-lavoro femminile (occupate, disoccupate e giovani in cerca di prima occupazione) è di appena 8 milioni e 173 mila unità mentre la forza lavoro maschile è quasi il doppio, 15 milioni e 40 mila unità.
Negli ultimi anni però la forza-lavoro femminile al contrario di quella maschile sta avendo un relativo incremento. Questo è un dato positivo. Va tuttavia rilevato che la maggiore ricerca di lavoro fra le donne è sollecitata dall'impoverimento generalizzato delle famiglie, e quindi dal bisogno di aggiungere un nuovo reddito; inoltre va considerato che è cresciuta e sta crescendo, soprattutto fra le nuove generazioni, la volontà delle masse femminili di partecipare al lavoro extradomestico. Purtroppo questa spinta delle donne verso il lavoro viene completamente frustrata e disattesa dal governo e dal sistema capitalistico, poiché la crescita della forza-lavoro femminile non va a incidere sulla occupazione femminile bensì va a ingrossare l'esercito delle disoccupate.
All'interno delle forze occupate le donne, che ne costituiscono appena il 32,6%, subiscono un'ulteriore discriminazione a causa della loro emarginazione nei settori e nelle attività più dequalificate e nelle categorie più basse.
Il 63,9% delle donne occupate sono concentrate nel terziario e nei servizi, mentre appena il 24,1% è occupato nell'industria e il 12,0% nell'agricoltura. In particolare le donne sono fortemente penalizzate nel settore industriale. La presenza delle donne in questo settore sul totale degli addetti è di appena il 23,4% mentre nell'agricoltura sale al 35,4% e nel terziario al 37,4%.
All'interno del settore industriale inoltre le donne sono concentrate soprattutto nei comparti secondari, dove minori sono i salari e peggiori la normativa e l'inquadramento. Il 65,5% delle occupate sono concentrate nell'industria tessile, alimentare, delle pelli e del cuoio, dell'abbigliamento. In questi rami le donne ammontano al 45% degli addetti. Mentre nell'industria metalmeccanica lavora solo il 21,9% del totale delle occupate (che corrisponde al 18,4% del totale degli addetti in questo settore) ; nell'industria chimica e assimilate lavora 1' 8,6% (il 18% del totale degli addetti); nell'industria delle costruzioni e delle installazioni di impianti per l'edilizia lavora il 4% (il 4,1% del totale degli addetti).
Infinite sono le attività che ancora escludono le donne. Si calcola per esempio che lungo tutto il secolo oltre due terzi delle lavoratrici si sono concentrate in un numero limitatissimo di mestieri pari a un decimo di quelli esistenti.
In particolare esse sono state relegate in quei lavori che per lo più si riconducono al ruolo domestico e familiare: dipendenti di negozi, bar, trattorie, lavoratrici nei servizi domestici, di cura alla persona e all'infanzia, come infermiere e baby sitter, insegnanti delle scuole materne, elementari e medie.
Un altro fenomeno che non dà segni di attenuarsi è quello della cosiddetta "segregazione verticale", cioè la concentrazione delle donne ai più bassi gradini gerarchici. Ciò avviene indistintamente sia nel settore industriale che nel terziario, dove peraltro le donne rappresentano una quota considerevole. Prendiamo a esempio il pubblico impiego. Le insegnanti delle; scuole elementari costituiscono 1'88, 1% del totale degli insegnanti a questo grado di istruzione, ma via via che si sale esse precipitano al 56,7% nella scuola secondaria e addirittura al 34,9% nell'università.
Il 63, 3% degli infermieri e assimilati è costituito da donne, ma fra i medici chirurghi esse sono appena il 16,9%.
Le donne sono relegate ovunque nelle mansioni più dequalificate. Anche nel cosiddetto terziario avanzato esse svolgono soprattutto un lavoro esecutivo e di routine come dattilografe e operatrici al calcolatore.
Ma c'è un fenomeno ancor più brutale e per lo più occultato dalle fonti ufficiali e governative, è quello del dilagare del lavoro nero, a domicilio e precario.
Scarsi sono i dati disponibili su questo mare o meglio oceano di lavoro sommerso. Chi non conosce tanti e tanti casi di donne che pur classificate come casalinghe, studentesse, disoccupate, pensionate in realtà svolgono un lavoro nero, non tutelato, a ore o a giornata, alla completa mercé dei pescecani capitalisti e del libero mercato? Proprio la crisi economica, il dilagare della disoccupazione fa sì che questo tipo di lavoro, inscindibile con la struttura economica capitalistica, dilaghi a dismisura.
Studi che risalgono al 1971 stimano che la forza-lavoro effettivamente occupata risulti superiore di 3 milioni e mezzo di unità rispetto a quella ufficiale, di cui 2 milioni e 450 mila donne. Un'indagine del Censis del 1975 valutava in oltre 1 milione e 400 mila le donne che lavoravano senza risultare ufficialmente occupate, di cui ben 1 milione e 86 mila erano casalinghe. Sempre dalla suddetta inchiesta risultava che il lavoro minorile interessa 106 mila giovani al di sotto di 15 anni di cui 31 mila ragazze. E certamente non è tutto qui.
Il lavoro nero riguarda principalmente braccianti a ore o a giornata, domestiche, baby sitter, addette alle pulizie di uffici, dattilografe in studi professionali, ecc., lavoranti a domicilio.
Le lavoranti a domicilio in Italia in base al censimento '81 sono ufficialmente 47.568, il 96% del totale, eppure sappiamo che questa non è che la punta di un iceberg. Il lavoro a domicilio è di per sé un lavoro disumano. Queste lavoratrici sono di fatto delle operaie a cottimo, senza orario, senza ferie e riposo, senza tutele in caso di malattie e di maternità, pagate una miseria e impegnate proprio nelle lavorazioni più nocive dove si usano collanti o acidi che minano irreparabilmente il fisico delle donne e delle loro famiglie.
E non si pensi che il fenomeno sia in diminuzione. È dimostrato per esempio che molte lavoratrici espulse negli ultimi anni dall'industria a seguito di ristrutturazioni mantengono con l'impresa di origine o con altre aziende un rapporto di lavoro nero o a domicilio.
Su 129 mila aziende grandi e piccole ispezionate nel 1984 ben 99 mila sono risultate irregolari per quanto concerne l'utilizzo di lavoratori non occupati regolarmente.
Esistono poi forme di sottoccupazione legalizzata come il lavoro stagionale e precario diffuso soprattutto nel settore agricolo, del turismo e del pubblico impiego. Da dati forniti dal ministero della Sanità riguardanti le Usl di nove regioni italiane risulta che su un personale totale di 204.212 dipendenti al 31 dicembre 1983 ben 26.966 (oltre il 7,6%) è personale precario.
Anche il part-time è una forma di sottoccupazione e sottosalario peraltro richiesto sempre di più dal padronato. Non disponiamo di dati aggiornati su questo fenomeno ma guardando a come si è sviluppato negli altri paesi europei, dove da più tempo è stato introdotto, si capisce che il part-time sta diventando un vero e proprio ghetto femminile. Le lavoratrici a part-time oltre a ricevere un salario dimezzato sono meno tutelate e maturano una liquidazione e una pensione assai inferiore alle lavoratrici occupate a tempo pieno. Che questa forma di lavoro sia particolarmente congeniale al capitalismo lo dimostra il fatto che sempre più spesso i datori di lavoro preferiscono sostituire una lavoratrice a tempo pieno con due lavoratrici a part-time obbligate a sostituirsi reciprocamente in caso di malattia o permessi.
Un discorso a parte merita la condizione di lavoro delle masse femminili del Meridione. Bastano pochi dati per capire quanto disumano sia il capitalismo verso le nostre coraggiose e combattive donne del Sud. La forza-lavoro femminile in Italia nel 1985 è il 28,2% della popolazione, ma disaggregandola per aree geografiche si scopre un abisso fra Nord e Sud. Al Nord e al Centro essa infatti sale al 31,1% mentre al Sud e nelle Isole diventa appena il 22,4% con un picco del 17,8% in Sicilia. Ancor peggiore è la situazione delle occupate. Al Nord e al Centro è occupata l'85,8% della forza-lavoro femminile mentre al Sud e nelle Isole solo il 75%, con uno scarto di oltre 10 punti percentuali. Il primato della minima occupazione femminile tocca sempre ad un'isola, esattamente alla Sardegna, con il 64,9%.
Le donne sono quelle che maggiormente pagano l'arretratezza e l'abbandono del Meridione. Delle forze femminili occupate appena l'11% lo è nell'industria, rispetto al 28,8% del Centro-Nord con uno scarto di -17,8%, mentre nell'agricoltura il rapporto è invertito, il 26,3% rispetto al 6,9% del resto d'Italia. Non vi è dubbio che la bassa occupazione ufficiale delle donne del Sud nasconde una realtà inquantificabile di lavoro nero e supersfruttato, si pensi al "caporalato", una forma di lavoro agricolo schiavista esteso soprattutto in Puglia, Calabria, Basilicata e Campania e che investe oltre 200 mila donne di questa "moderna" e "civilissima" società capitalistica.
Il neoduce Craxi si vanta di aver condotto l'Italia al quinto posto fra i paesi più industrializzati del mondo. Ma sono ben altri i primati di cui dovrebbe vantarsi: il suo governo ha portato la disoccupazione femminile ad occupare il quarto posto nei paesi della Cee, con lo spaventoso tasso del 17,4% nell'85, oltre il doppio di quello maschile che è del 7%. Le disoccupate ufficiali sono 1 milione e 418 mila, il 5 7,4% dell'intero esercito dei disoccupati. Spaventa soprattutto il ritmo con cui aumentano. Dal 1980 al 1985 in soli cinque anni il tasso di disoccupazione femminile è cresciuto del 4,3% mentre quello maschile è cresciuto del 2,2%.
Aumentano soprattutto le donne disoccupate che hanno perso il lavoro. Negli ultimi cinque anni queste sono infatti più che raddoppiate: erano 99 mila nell'80, sono 204 mila nell'85 . La politica neoliberista delle ristrutturazioni selvagge e dei licenziamenti di massa inaugurati dalla Fiat nell'80 è stata pagata cara dalle lavoratrici.
Il 73,9% delle disoccupate è costituito da giovani fra i 14 e i 29 anni, che rappresentano anche la stragrande maggioranza delle donne in cerca di prima occupazione. Quest'ultimo settore è in continua espansione insieme a quello delle donne classificate nella voce "altre persone in cerca di lavoro", cioè casalinghe, ritirate dal lavoro e studentesse che, pur dichiarandosi in condizione non professionale, a una successiva domanda hanno affermato di cercare lavoro.
Un altro dato preoccupante è la durata del periodo di disoccupazione femminile.
L' 80% delle donne in cerca di occupazione dopo un anno o è ancora disoccupata o è uscita dalle forze di lavoro. Delle donne in cerca di lavoro il 57,3% dopo un anno è ancora alla ricerca. Questa percentuale relativa al 1983 è aumentata di ben 9 punti rispetto all' 80. Inoltre per ogni donna che trova lavoro sei restano disoccupate rispetto alle 3,9 dell'80. La possibilità di trovare un'occupazione dipendente è scesa in tre anni per le donne di 7,5 punti. È da mettere in risalto che questo calo, prevalente nel settore industriale (-4,28% rispetto all'80), si verifica anche nelle attività terziarie (-2,58%). Ciò significa che la tendenza del terziario ad assorbire mano d'opera femminile va attenuandosi. Contemporaneamente un quarto delle donne che dopo un anno non hanno ancora trovato lavoro escono definitivamente dal mercato mentre per gli uomini questo valore è di un se​ sto e risulta in calo rispetto all'80.
Il fenomeno della disoccupazione femminile assume dimensioni devastanti per il nostro Meridione. Nell'85 il tasso di disoccupazione femminile nel Sud e nelle Isole è del 25%, superiore di oltre 10 punti a quello del Nord e del Centro, che è del 14,2%. Nel Meridione in pratica una lavoratrice su quattro è disoccupata. La regione che guida questa drammatica classifica è la Sardegna con un tasso di disoccupazione a dir poco spaventoso, il 35,1% nel 1985. Nel 1983 questo stesso dato era il 29,7%: in soli due anni cioè le disoccupate sarde sono aumenta te del 5,4%. Seguono la Sicilia con il 29,6%, la Calabria col 27,8%, la Basilicata col 25,3% e la Campania col 23,7% e così via. Nel Centro-Nord solo l'Umbria col 21,3% sfonda il tetto del 20%. Non ci vuol molto a capire che le donne del Meridione, che oltre al più alto tasso di disoccupazione annoverano il più basso tasso di attività, sono pressoché emarginate dal lavoro; il che le vincola, qui più che altrove, a rapporti economici e familiari per molti versi di tipo feudale e patriarcale.
Il fenomeno della disoccupazione femminile è un fenomeno ormai irreversibile sotto il capitalismo e destinato a diventare sempre più esplosivo.
Gli effetti della "terza rivoluzione industriale" si sono già fatti sentire anche in questo campo e sono destinati ad aggravarsi. Dal 1980 l'occupazione femminile nell'industria è calata di ben 236 mila unità e l'emorragia non dà segni di arrestarsi. Le donne sono sempre ai primi posti nelle liste di licenziamento o in quelle della cassa integrazione. Alcune aziende addirittura, con la connivenza dei vertici sindacali collaborazionisti e riformisti, barattano il posto di lavoro delle donne, attraverso un loro volontario licenziamento o prepensionamento, profilando la possibilità di favorire i loro figli nelle nuove assunzioni.
Ma non si creda che la situazione nel terziario sia migliore. Il governo e i partiti del Palazzo tendono a presentare gli effetti della "terza rivoluzione industriale" solo come riduzione della classe operaia femminile, mentre aumenterebbero le occasioni di lavoro cosiddetto intellettuale. Ragion per cui, a sentir loro, il problema di fondo delle masse femminili rispetto al lavoro sarebbe quello di rimuovere il loro "analfabetismo tecnologico" e la loro "mancata qualificazione professionale". Niente è più falso.
È vero che la "terza rivoluzione industriale" ha prodotto effetti devastanti sull'occupazione operaia specialmente femminile, ma non di meno è destinata a procurarne nel settore del lavoro intellettuale: contabilità, amministrazione, progettazione. Per esempio all'Italtel, una delle aziende che si è riconvertita dall'elettromeccanica all'elettronica, dall'80 all'84 l'occupazione operaia è stata ridotta del 36,1%, ma anche nel settore impiegatizio e tecnico, sia pure per ora con una quota minore, l'occupazione è stata ridotta del 12,6%.
La crescita occupazionale nel terziario è destinata a ridursi per effetto della stessa automazione dei servizi e con ciò verrà meno anche quel serbatoio che fin qui aveva permesso un seppur lieve incremento di occupazione femminile.
Il problema della riqualificazione viene agitato in modo mistificatorio. A meno che non ci si riferisca alle mansioni altamente qualificate e dirigenziali, destinate comunque ad essere svolte sempre da un numero ristretto di persone, non sarà la qualificazione delle donne a favorirne l'occupazione. Se c'è un tratto caratteristico che distingue la presente dalle passate rivoluzioni industriali, questo è appunto l'alto contenuto di facoltà qualificate e "intelligenti" che le macchine sottraggono all'uomo.
Ad esempio per poter operare ai computer all'inizio occorreva possedere una discreta qualificazione professionale. Ma con l'andare del tempo è venuta diversificandosi ed è cresciuta la domanda di forza-lavoro in questo settore: da una parte i tecnici software e dall'altra i semplici operatori in grado di svolgere un lavoro esecutivo e di routine. È a quel punto che quest'ultima mansione si è progressivamente femminilizzata. Paradossalmente è proprio la dequalificazione delle donne che ha permesso loro di trovare un relativo spazio nel cosiddetto terziario-avanzato.
Il fatto è che l'attuale sistema economico e produttivo non è in grado di offrire alle donne né un lavoro qualificato né un lavoro qualsiasi.
L'unico campo in cui le masse femminili hanno e avranno qualche possibilità occupazionale rimane quello della sottoccupazione, del lavoro nero, precario, dimezzato, questo sì in espansione magari battezzato con definizioni altisonanti come l"'autoimprenditorialità", che non si discosta di molto dall'ormai nota "arte di arrangiarsi", di inventarsi mestieri. Si pensi alle ragazze e ai ragazzi dei fast-food, dei pony express, alle baby sitter a ore, alle dattilografe a cottimo, agli inservienti e agli animatori degli alberghi e dei campeggi estivi.
Anche il lavoro a domicilio avrà occasioni di espansione; l' home computing (lavoro a domicilio per mezzo di computer) si differenzia solo per la presenza di un terminale video al posto della classica macchina da cucire.
Se la crisi economica e l'introduzione delle nuove tecnologie si abbattono come un maglio sull'occupazione femminile, non di meno la politica neoliberista, che ha come più agguerrito interprete il neoduce Craxi, sta polverizzando ogni tutela che le masse femminili erano riuscite a conquistare per difendersi dagli effetti più intollerabili della legge del massimo profitto.
Da tempo il padronato accarezza l'idea di una piena deregulation del mercato del lavoro, femminile e giovanile in particolare. Possiamo dire che grazie,a Craxi quest'idea sta progressivamente diventando una realtà.
Craxi come Mussolini ha iniziato col taglio dei salari con il decreto di San Valentino ed è passato poi ad attaccare tutti gli altri istituti di tutela. Ha reintrodotto la chiamata nominativa che penalizza fortemente le donne, è riuscito dopo anni e anni di controversie a istituzionalizzare il part-time e inserire la flessibilità e la mobilità nella contrattazione nazionale. Recentemente è stato reintrodotto con sentenza della Corte costituzionale il lavoro notturno anche per quelle lavoratrici che ne erano escluse; e Craxi, attraverso De Michelis, sta lavorando per innalzare l'età pensionabile delle donne a 65 anni. Costui ha osato persino lanciare un attacco all'istituto di tutela della maternità. Evidentemente i "regali" che Craxi e il suo entourage hanno intenzione di fare alle lavoratrici finiranno solo quando il padronato potrà assumere e licenziare chi vuole e quando vuole, imporre mobilità, orari, tempi e ritmi di lavoro a suo piacimento, sarà libero insomma da quei "lacci e lacciuoli" che gli impediscono di portare alle stelle produttività e profitti.
Alla luce di questa realtà appare quanto mai falsa e demagogica la campagna del governo del neoduce, che prevede alcune proposte di legge per una politica di "pari opportunità" e di "azioni positive" a favore delle donne. Una politica caldeggiata e appoggiata da tutti i partiti parlamentari, compreso il gruppo dirigente neoliberale del PCI e i vertici sindacali collaborazionisti.
Riguardo alla politica delle "pari opportunità", va detto con forza che essa non fa parte del patrimonio ideologico e politico del proletariato bensì della borghesia. Erano gli antichi liberali che affermavano di voler perseguire l"'uguaglianza delle opportunità" attraverso l' eliminazione degli ostacoli legali e sociali che impediscono l'eguaglianza. Un obiettivo che è stato poi fatto proprio dai riformisti che accusavano i liberali di non averlo perseguito fino in fondo. Jn realtà quella delle "pari opportunità" è una linea che rimane tutta interna al sistema economico e sociale capitalistico, perché non pone affatto l'obiettivo dell'eliminazione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo e della proprietà privata che sono le vere cause della disuguaglianza economica e sociale delle donne in particolare.
Tale politica non vuol incidere sui rapporti di produzione sovvertendoli, non vuol privare la borghesia dei suoi profitti e dei suoi privilegi, dà solo a intendere alla classe operaia e alle masse sfruttate e oppresse che il sistema capitalistico tende gradualmente a colmare le differenze e a cancellare le contraddizioni tra le classi e la disuguaglianza tra donne e uomini. Tesi che secoli di storia del capitalismo smentiscono inconfutabilmente.
Vecchi e nuovi liberali, vecchi e nuovi riformisti applicano ora questa tesi alla questione femminile teorizzando che è possibile, fermo restando l'attuale sistema economico e politico, realizzare concretamente la parità tra donna e uomo. La sua natura demagogica è ancor più messa in risalto dal fatto che i primi sostenitori di questa politica di "parità" sono gli stessi che hanno importato, applicandolo alla lettera, il neoliberismo reaganiano e thatcheriano, ossia quella politica antitetica all'uguaglianza che produce e allarga disuguaglianza e divisione in classi della società e in particolare fra borghesia e proletariato.
La politica delle "pari opportunità" e delle "azioni positive" quindi si inserisce nel quadro del tentativo di integrare le masse femminili nel sistema capitalistico e nell'attuale fase ha lo scopo preciso di mascherare e far accettare una politica neoliberista di supersfruttamento, sottoccupazione e sottosalario alle donne.
Le "azioni positive" che concretizzano questa linea sono infatti dirette in particolar modo a una stretta cerchia di donne della media e alta borghesia per le quali intendono rimuovere tutti quegli ostacoli che impediscono un loro paritario accesso alla carriera dirigenziale, dei manager e all'alta burocrazia statale. Esse prevedono interventi nel campo dell'istruzione per fare accedere le donne ad una formazione non più prettamente femminile. Il che sarebbe positivo se non fosse inserito nel progetto di una scuola privatizzata e da 2ª repubblica che tenderà sempre più a penalizzare ed emarginare ai livelli più bassi i figli e le figlie della classe operaia e dei lavoratori. Infine vuole incidere negli orari e tempi di lavoro favorendo il part-time, la flessibilità, la mobilità per le donne, che comporterà di fatto un lavoro dimezzato, emarginato ed emarginante, instabile e precario.
Le "pari opportunità" e le "azioni positive" non contemplano nemmeno di striscio l'obiettivo della piena occupazione femminile e neanche interventi diretti contro la disoccupazione.
 
 

3 - La schiavitù domestica e i servizi sociali
La donna sotto il capitalismo continua ad essere essenzialmente una schiava domestica. Sono trascorsi secoli, sono state rovesciate classi dominanti, grandi progressi sono avvenuti in ogni campo eppure il ruolo della donna nella società risulta per lo più immutato: fare figli, accudirli, essere al servizio esclusivo del marito, della famiglia e della casa.
Questa condizione viene quindi presentata come un destino ineluttabile della donna, inscindibile con la sua funzione riproduttiva e, aggiungono gli ideologi borghesi e cattolici, con la sua "naturale vocazione" alla maternità e alla famiglia.
In realtà non si tratta di un destino fissato da chissà quale legge "divina". La sola legge che la condanna a questa condizione è quella del massimo profitto come alla sua origine vi sta la nascita e l' avvento della proprietà privata e della divisione in classi della società.
Se il capitalismo non ha voluto rimuovere la condizione di schiava domestica della donna è semplicemente perché ciò è funzionale all'attuale sistema economico e produttivo.
Il capitalismo ha assegnato alle donne una duplice funzione: la prima è quella di provvedere alla produzione e riproduzione della forza-lavoro, la seconda è quella di essere un prezioso serbatoio di mano d'opera da utilizzare in caso di necessità e da confinare in casa appena non ve ne è più bisogno.
In ogni caso, sia che la donna lavori o che non lavori, non deve sottrarsi a quella funzione vitale di garantire al capitale ogni giorno forza-lavoro rigenerata, rinfrancata e al bisogno completamente rinnovata. Le donne così fanno figli, li curano, li crescono, assolvono quotidianamente alle necessità domestiche e familiari, permettendo alla forza-lavoro maschile, una volta tornata a casa, di riposarsi, consumare pasti caldi, rigenerare le proprie forze intellettuali e fisiche, sfogare lo stress e le fatiche accumulate durante le otto ore di lavoro. Per questo la classe dominante borghese, attraverso la sua ideologia, cultura, propaganda ha imposto un modello preciso di donna come "angelo del focolare", sempre disponibile ad ogni fatica, succube, remissiva, consolatrice, dimentica di sé e tutta presa dall'amore per i figli e il marito.
Il valore della forza-lavoro è determinato dal tempo necessario alla produzione dei suoi mezzi di sussistenza, ma se questi mezzi di sussistenza, che non sono esclusivamente quelli del cibo e del vestiario ma implicano anche una serie di funzioni e di servizi, vengono in gran parte forniti gratuitamente dalle donne all'interno della famiglia, questo valore si abbassa e ciò produce una crescita del plusvalore e quindi di profitto per il capitale.
Marx rileva giustamente che "Nella misura in cui il valore della forza-lavoro aumenta perché aumenta il valore dei mezzi di sussistenza richiesti per la sua riproduzione oppure, al contrario, diminuisce perché diminuisce il valore di questi mezzi di sussistenza (...) a tale aumento di valore, ferma restando la durata della giornata lavorativa, corrisponde la diminuzione del plusvalore, mentre alla diminuzione del valore corrisponde l' aumento del plusvalore" . (Marx, Il Capitale, vol. III, tomo 3, Ed. Riuniti) .
Se il capitalismo dovesse occuparsi, attraverso adeguati servizi sociali, di tutte le necessità dei lavoratori, dei loro figli e delle loro famiglie, finirebbero per aumentare il valore e il prezzo della forza-lavoro e quindi diminuirebbero i suoi profitti. Ma poiché la legge che regola il sistema capitalistico è la ricerca del massimo profitto esso ha fatto è farà sempre di tutto per mantenere la donna schiava della casa e della famiglia e tanto più nei momenti, come l'attuale, in cui imperversa la crisi economica e produttiva.
Per avere un'idea di quanto il capitalismo risparmia in questo senso, basti menzionare che secondo certi studi economici nei paesi della Cee il valore del lavoro domestico equivale al 40% del prodotto nazionale lordo. Se ne deduce che in Italia le donne con loro lavoro casalingo producono un valore che si aggira attorno ai 250 mila miliardi l'anno. Una cifra da capogiro se si pensa che lo Stato ha speso nel 1985 per prestazioni sociali (sanità, previdenza e assistenza) 174 mila miliardi. Il lavoro domestico è un lavoro faticoso, avvilente, che abbrutisce ed emargina le donne, ottunde il loro cervello, deprime il loro spirito e le subordina all'uomo e alla famiglia.
Un'indagine dell'Istat su "Strutture e comportamenti familiari" valuta in una media di 57 ore alla settimana il tempo dedicato dalle casalinghe al lavoro domestico. Però da altre indagini e inchieste, che tengono conto non solo delle classiche mansioni di cucinare, lavare, pulire, rammendare ma anche dei servizi che le donne rendono a tutta la famiglia per esempio pagamento di bollette, richieste di certificati, accompagnamento alle visite mediche, ecc., risulta che la donna in media lavora alla settimana circa trenta ore in più dell'uomo. Ed è questo un tempo che va sempre più allungandosi poiché continuamente si accrescono e si diversificano i bisogni della famiglia.
Sulle donne gravano non solo le umilianti, ripetitive e solitarie faccende domestiche, ma tutto quello che concerne la gestione familiare, le attività e le esigenze dei suoi singoli membri ed è tanto più pesante là dove esistono bambini piccoli, handicappati, persone anziane o malate. Senza contare che le condizioni di miseria rendono ancor più pesante il lavoro domestico. Per esempio la necessità di andare a fare la spesa al mercato e al supermercato lontani anche chilometri da casa per risparmiare. In una situazione in cui, su oltre 17 milioni di abitazioni occupate censite nel 1981, oltre un milione sono ancora prive di acqua potabile e 787 mila non hanno il gabinetto in casa.
Particolarmente brutale è la condizione della donna che lavora, specie se è un'operaia. Se sommiamo le quaranta ore di lavoro salariato alle 57 ore di lavoro domestico si ha una settimana lavorativa di 97 ore. E non si pensi che la donna lavoratrice abbia un carico inferiore di lavoro. Sempre secondo la succitata indagine Istat l'uomo aiuta nelle faccende domestiche per circa 6,1 ore la settimana che salgono appena a 6,3 ore se la donna svolge un'attività lavorativa. Le donne lavoratrici per far fronte ai loro impegni familiari e domestici sono costrette a ridurre al minimo il tempo del riposo, del sonno, dello svago, della cultura, dei rapporti sociali, degli impegni sociali e politici. In una inchiesta condotta tra le operaie e le lavoranti a domicilio di due quartieri di Bologna e comuni della provincia limitrofi risulta che quasi 1'80% lavora anche dopo cena e quasi il 50% anche la domenica.
Non è quindi un caso che la durata del periodo di lavoro extradomestico delle donne è assai breve. Infatti la curva dei tassi d'attività femminile in Italia tocca l'apice intorno ai 20-24 anni e poi scende rapidamente fino ai 30 anni e più lentamente ma progressivamente fino all'età pensionabile. Le donne cioè, una volta entrate nell'età di maggiore fecondità e carico familiare, escono definitivamente dal mondo del lavoro, almeno da quello "ufficiale" perché sovente soprattutto quando i figli sono un po' cresciuti, al lavoro domestico si affianca il lavoro a domicilio e nero.
Sempre secondo l'Istat fra i 10 milioni di casalinghe vi sono 922 mila donne che hanno lasciato il lavoro dopo il matrimonio e altre 620 mila l'hanno fatto dopo il primo figlio.
Le donne non hanno che l'alternativa: o sottoporsi alla disumana doppia schiavitù salariata e domestica o rinunciare definitivamente al mondo del lavoro, e quest'ultima purtroppo è la scelta che sovente sono costrette a fare.
La condizione della casalinga non è comunque migliore. Tutt'altro. Se la donna lavoratrice compie grandi sacrifici ma in cambio ha almeno la possibilità di uscire, instaurare rapporti sociali, partecipare alla dialettica e allo scontro politico e sindacale, realizzare una relativa indipendenza economica, alla casalinga tutto questo è precluso.
Essa vive le sue giornate emarginata dal mondo e dalla società avendo come luoghi esclusivi di rapporti sociali i pianerottoli delle case, i negozi dove va a fare la spesa, l' atrio delle scuole dove accompagna i propri figli. Non esistono ricerche specifiche sulla condizione della casalinga, ma alcuni dati ci indicano comunque il grave stato di abbandono, emarginazione e solitudine in cui è costretto a vivere questo gruppo sociale.
In base al censimento '81 risulta che il 76,3% delle casalinghe, pari a 7 .567. 000 unità, è analfabeta o possiede appena la licenza elementare. Il 62,3% delle casalinghe pari a oltre 6 milioni di donne non è andata in vacanza nel 1982, esattamente come dieci anni prima. Le donne che praticano sport sono appena il 9,1% rispetto al 20,3% degli uomini ma fra le casalinghe questa percentuale è ancora più bassa l' 1,6% pari a sole 163 mila unità.
Un dato particolarmente allarmante è la diffusione dell'alcoolismo e l'uso di psicofarmaci. Negli ultimi dieci anni è triplicato il numero delle casalinghe alcooliste in trattamento psichiatrico. Circa il 9% delle donne fa uso abituale di tranquillanti, antidepressivi o ipnotici e fra queste una grande parte è composta da casalinghe.
Ancor più drammatici sono i casi di suicidi e tentati suicidi. Nel 1985 vi sono stati 1.037 casi di suicidi di donne, in un continuo crescendo rispetto agli anni precedenti, e fra queste 506 sono casalinghe. Ugualmente fra i 1.000 tentati suicidi femminili, 516, oltre la metà, sono casalinghe. In genere le statistiche ufficiali indicano nella malattia psichica la principale causa scatenante i suicidi ma sappiamo che dietro questa definizione si nasconde in realtà una vita di abbrutimento, isolamento e solitudine sociale e personale.
Nonostante gli enormi sacrifici, privazioni e sofferenze che la schiavitù domestica arreca alle masse femminili, e nonostante che queste ultime soprattutto negli anni '70 abbiano richiesto e lottato tenacemente per ottenerli, lo Stato capitalistico non ha mai costruito un'efficace ed adeguata rete di servizi sociali pubblici estesi su tutto il territorio nazionale.
Sintomatico è il fatto che i servizi sociali pubblici non vengono neanche censiti o presi in considerazione dalle indagini statistiche ufficiali, neanche da quelle ordinate dalla tanto sbandierata Commissione per la parità donna-uomo presso la presidenza del Consiglio. Evidentemente si preferisce non dare troppa pubblicità alla vergognosa carenza quantitativa e qualitativa dei servizi sociali pubblici.
Non possiamo quindi che basarci su dati frammentari ma ugualmente significativi.
Sotto la spinta delle masse femminili e soprattutto della sua componente proletaria, il 6 dicembre 1971, viene approvata la legge n. 1044 che istituisce gli asili nido comunali con il concorso dello Stato. La legge prevede per il quinquennio '72-' 76 la costruzione di almeno 3.800 asili-nido, in realtà nel 1981 essi ammontano ad appena 1.510 nonostante nel 1977 la legge n. 891 preveda il rifinanziamento del piano di costruzione. C'è da rilevare fra l'altro che la legge prevede un numero di posti-nido che copra appena il 6,838% della popolazione infantile di ogni singola regione. Un coefficiente assai basso lontano dalle reali esigenze e soprattutto che non incentiva certo le famiglie e le donne a ricorrere a questo servizio sociale primario.
Il coefficiente stabilito per legge non è stato comunque rispettato nella stragrande maggioranza delle regioni e soprattutto al Sud. Nel 1984 i posti disponibili negli asili nido sono in media 49 per mille bambini fra 0 e 3 anni, ma questa quota sale per il Centro-Nord a 76 per mille e cala paurosamente a 17 per mille nel Sud e nelle Isole. In Campania dove esistono oltre 257 mila bambini tra O e 3 anni i posti negli asili-nido sono appena 2. 134 con un rapporto di 8 posti ogni 1. 000 bambini. Anche in Calabria il rapporto è di 10 a 1. 000 e in Sicilia di 13 a mille. Il rapporto più favorevole è in Emilia Romagna con 165 a mille ma questo risultato è soprattutto il frutto della grande pressione esercitata dalle masse emiliane sulle amministrazioni cosiddette di "sinistra" che hanno dovuto loro malgrado, pena la perdita di ogni credibilità, in parte accogliere e soddisfare.
Gli asili-nido inoltre non sono affatto gratuiti. Alla quota di iscrizione si aggiungono le rette mensili che negli ultimi anni sono aumentate alle stelle. Per esempio il costo della mensa, che deve essere pagata anche quando i bambini non consumano i propri pasti perché assenti, è coperta fino al 40-50 per cento dagli utenti. Un bambino all'asilo nido costa, per esempio a Firenze, ben 115 mila lire mensili e si profilano altri aumenti, nella logica del pareggiamento dei bilanci dei Comuni con la maggiore pressione sulle masse popolari.
Aumentano i prezzi ma non la qualità. Strutture cadenti, insufficiente personale, finanziamenti quasi inesistenti per materiale e giochi didattici ai quali spesso sono chiamati a contribuire volontariamente i genitori. Fra l'altro con la scusa della diminuzione della natalità si stanno approntando piani per ridurre i posti disponibili e il personale.
Non migliore è la situazione delle scuole materne che pure sono inserite nei gradi di istruzione scolastica alla voce "educazione prescolastica" e accoglie i bambini dai 3 ai 5 anni con iscrizione facoltativa. La scuola materna poiché non viene concepita come servizio sociale non risponde affatto alle esigenze delle famiglie operaie e delle lavoratrici che terminano il loro turno a tarda sera. Il suo orario è ridotto rispetto a quello degli stessi asili nido e nella maggioranza dei casi è chiusa il sabato e nei mesi estivi.
Particolarmente pesante si fa la situazione nei mesi estivi. Il problema riguarda sia i bambini in età prescolare sia quelli delle scuole elementari e in parte anche delle medie. La scuola infatti chiude a giugno e riapre a settembre e per circa tre mesi le famiglie devono pensare da sé alla custodia dei bambini. Esistono soltanto delle colonie e campeggi estivi il cui numero è però assolutamente insufficiente e la loro durata è al massimo di 15-30 giorni. Particolarmente disastrata è la situazione nel Sud. Nel 1984 in Italia si sono tenuti appena 3. 302 colonie e campeggi estivi di cui però solo 299 nel Mezzogiorno a copertura di appena 31 mila bambini. Anche i centri estivi comunali non vanno meglio. Essi sono soggetti ogni anno che passa a drastiche riduzioni, quantitative e qualitative mentre il loro costo diventa sempre più oneroso: anche 150 mila lire il mese per bambino. E nonostante ciò ogni bimbo ci può accedere per appena 15-30 giorni mentre la maggioranza ne rimane esclusa.
L' orario dei servizi che non copre l' intera giornata, settimana e anno lavorativi è una delle cause principali che impone a molte donne che lavorano di risolvere diversamente il problema dei figli piccoli per esempio ricorrendo a nonni e parenti, baby sitter, asili e scuole private che in genere offrono un servizio più completo anche se a caro prezzo, oppure rinunciando al lavoro.
Scarsi, degradati e quasi del tutto assenti nel Mezzogiorno sono i servizi per gli anziani e gli handicappati, per lo più gestiti da enti privati e religiosi. Palestre e centri per la rieducazione psicofisica, mezzi di trasporto pubblici adeguati, assistenza domiciliare, centri ricreativi e sportivi, sono tutti servizi pomposamente inseriti nei programmi elettorali amministrativi dei partiti del palazzo e puntualmente riposti nei cassetti all'indomani delle elezioni. Mentre si costringono i nostri anziani a interminabili e sfiancanti code per riscuotere la loro misera pensione.
Proprio i più deboli e bisognosi sono i primi ad essere abbandonali dopo essere stati spremuti come limoni dal capitalismo, mentre tutto il peso della loro cura e assistenza ricade unicamente sulle masse femminili.
I consultori, istituiti per legge il 24 luglio 1975, costituiscono un'importante conquista del movimento di massa femminile. Tale servizio sociale è stato osteggiato fin dall'inizio dalle forze clericali e democristiane, dagli enti e istituti privati operanti nel campo dell'assistenza sanitaria e sociale, della maternità e dell'infanzia, ed anche dai baroni della medicina. I quali volevano impedire che attraverso i consultori si affermasse a livello sociale una concezione della sessualità, dei rapporti donna-uomo e della famiglia più progressista e democratica, libera dai condizionamenti della morale e dell'ideologia cattolica. I consultori vennero perciò definiti "familiari" per dare il senso di un servizio rivolto prettamente alla cura e assistenza dei nuclei familiari con prestazioni analoghe sostanzialmente a quelle fornite dall'ex Omni o dai consultori cattolici: assistenza sanitaria nel puerperio e post-puerperio, visite ginecologiche e pediatriche. D'altra parte sono mancate quasi del tutto le iniziative per una propaganda ed una educazione scientifica corretta e progressista sulla riproduzione, la contraccezione e la sessualità. Poco o niente si è fatto perché i consultori servissero anche al controllo e verifica dell'applicazione della legge sull'aborto e di aiuto concreto per le donne che vogliono interrompere la gravidanza.
Le donne, che avevano concepito i consultori come loro strumenti per combattere l'ignoranza, i pregiudizi e la morale dominante borghese sulla donna, la sessualità e la famiglia, volevano partecipare direttamente alla loro gestione, ma gradualmente vi hanno rinunciato poiché il loro ruolo si riduceva a quello di "osservatrici".
Attualmente i consultori sono in pieno degrado, dei contenitori vuoti, peraltro in numero assai esiguo. Nel 1980, i consultori in Italia erano appena 917, di cui solo 100 nel Mezzogiorno. Nessun consultorio nel Molise, appena uno in Sicilia. Questa importante conquista, seppur parziale, limitata e da sottrarre alla gestione istituzionale, sta per essere completamente vanificata.
Non abbiamo dati circa i servizi sociali che possono alleviare il lavoro domestico, cioè mense, lavanderie e stiratorie pubbliche, squadre di pulizia domiciliari, ma da quanto ci risulta tali servizi sono inesistenti sul territorio nazionale, salvo che non siano erogati da imprese private e cooperative.
Nonostante che nel nostro Paese non sia mai esistito un effettivo "Stato sociale", da tempo la classe dominante borghese sta smantellando una dopo l'altra tutte le conquiste sociali delle masse. "Meno Stato, più mercato", è lo slogan dei più accesi neoliberisti. E su questa base il governo Craxi ha tagliato drasticamente la spesa pubblica e i finanziamenti per i servizi sociali, mentre ha imposto aumenti spaventosi delle tariffe e delle rette a carico degli utenti.
Viene così ribaltato e cancellato il principio stesso di servizio sociale. I servizi sociali pubblici sono un diritto sacrosanto della popolazione. Lo Stato, peraltro finanziato dai lavoratori e dalle masse popolari attraverso il fisco e le tasse indirette, ha il dovere di reinvestire una parte adeguata delle risorse per soddisfare i bisogni e le esigenze della collettività. Invece l' attuale finanziamento dei servizi sociali è troppo esiguo rispetto allo sperpero di denaro pubblico destinato a finanziare il grande capitale, la macchina statale, le spese militari, i parlamentari e i partiti parlamentari.
I servizi sociali non devono essere considerati uno spreco e un investimento improduttivo. Né si può valutare la loro efficienza e la loro produttività sulla base dei criteri e delle leggi del profitto che regolano il libero mercato. La loro efficienza va valutata esclusivamente sulla rispondenza o meno alle esigenze e ai bisogni della popolazione, dei lavoratori e degli strati sociali più deboli e bisognosi in particolare. Rifiutiamo perciò la logica neoliberista, sulla quale concordano tutti i partiti borghesi, compreso il vertice del PCI, secondo cui i servizi sociali per essere sostenuti dallo Stato devono essere produttivi e i loro bilanci devono raggiungere il pareggio aumentando le tariffe e introducendo dei tickets.
Il governo rifiuta di considerare i servizi sociali come atti dovuti, come diritti dei cittadini, come prestazioni già pagate dai contribuenti che lo Stato ha l'obbligo di erogare.
I neoliberisti dentro e fuori del governo sostengono che tale concezione è anacronistica, superata, e che l'unico modo per aumentare la quantità e la qualità dei servizi sociali è di trasformarli in servizi a domanda individuale . Non più come servizi dovuti dallo Stato a tutta la società, ma offerti, da chicchessia, non importa se dallo Stato o da privati, su richiesta di singoli o gruppi di cittadini. Così essi spingono verso la collaborazione fra intervento pubblico e privato nei servizi sociali, dove il pubblico finanzia e il privato, anche sotto la forma cooperativistica come propone il PCI, riscuote e impone criteri di gestione capitalistici. Si prospetta anche una vera e propria privatizzazione dei servizi stessi. In tal modo risulteranno ancora una volta discriminati gli strati e le classi sociali più povere che non potendo permettersi di pagare le esose tariffe dei servizi privati, si dovranno accontentare dei servizi statali più scadenti e dequalificati.
L'istituzionalizzazione del volontariato rientra nel disegno governativo dello smantellamento dello "Stato sociale", della privatizzazione dei servizi sociali, di scaricare parte dell' assistenza ai più poveri con prestazioni gratuite di centinaia di migliaia di generosi volontari, soprattutto giovani.
Cosicché i volontari da impliciti e oggettivi accusatori del Palazzo e della sua inettitudine diverrebbero strumenti di copertura dello Stato capitalistico, controllati, sfruttati e usati per smorzare le contraddizioni sociali e la lotta delle masse per i servizi sociali pubblici.
 

4 - La condizione culturale della donna
La condizione culturale della donna riflette pienamente la sua condizione economica e sociale. Emarginate dal lavoro e condannate alla schiavitù domestica, le masse femminili non potevano che essere oppresse e discriminate anche nel campo culturale e dell'istruzione.
Il capitalismo ha sempre ritenuto la cultura e l' istruzione inutili e incompatibili col ruolo do​mestico e familiare della donna. Per essere madri e mogli "esemplari" non occorre essere istruite. Anzi una maggiore cultura e istruzione delle donne possono mettere in pericolo quei valori, quei pregiudizi e dogmi su cui poggia la concezione borghese e cattolica della donna e della famiglia. Ecco quello che diceva all'inizio del secolo uno dei maggiori teorici del razzismo antifemminile, Moebius nel suo libro "L'inferiorità mentale della donna": "Attualmente tutte le ragazze aspirano al matrimonio e perché seguono il loro istinto, e perché vogliono trovar chi provveda alla loro vita materiale. Ora, se saranno spinte alla riflessione e se potranno procacciarsi di che vivere senza dover ricorrere all'uo​mo, il loro ingenuo egoismo odierno diventerà un egoismo raffinato e saranno precisamente le più capaci quelle che diverranno più avverse al matrimonio" .
L'ignoranza, l'analfabetismo, l'influenza e l'indottrinamento religioso, la sottocultura sono quindi gli strumenti privilegiati insieme a quello economico con cui la borghesia ha imposto il suo dominio ideologico e culturale sulle masse femminili. Ed anche quando le donne sono entrate in misura sempre maggiore nella scuola essa le ha relegate nei gradini più bassi e in quei rami dell'istruzione marginali, privi di sbocchi professionali, addirittura ideati appositamente per coltivare la loro presunta vocazione materna e domestica come il caso delle scuole femminili.
Nel 1981 il livello di istruzione dell'intera popolazione è bassissimo, come riflesso della pesante selezione di classe che perdura tuttora nella scuola e nell'università. Per le donne la situazione è ancora più grave, a causa della discriminazione di sesso. Infatti a quella data, 1 milione e 49 mila donne sopra i sei anni sono ancora analfabete pari al 65,2% del totale. Di queste il 93,09% non lavora. Ben 419 mila, pari al 39,9% del totale delle donne analfabete, sono casalinghe, 433 mila pari al 41,27% invece sono donne ritiratesi dal lavoro in genere provenienti dal settore agricolo. L' analfabetismo è certamente in diminuzione, eppure indigna constatare che nell'era elettronica possa esistere ancora un tale fenomeno che colpisce anche persone giovani e giovanissime. Su 1 milione e 600 mila analfabeti ben 218.800 infatti hanno un'età compresa fra i 6 e i 44 anni e di questi 130 mila sono donne. La repubblica borghese non è stata capace di cancellare questa non invidiabile eredità dello Stato liberale e fascista.
Le donne sopra i sei anni analfabete e quelle che sanno leggere e scrivere ma non posseggono alcun titolo di studio neanche elementare sono 6 milioni e 400 mila pari al 23,9% dell'intera popolazione femminile. Mentre gli uomini nella stessa condizione sono il 18,5%. Questo dato però non è omogeneo su tutto il territorio nazionale, infatti al Sud e nelle Isole le donne senza alcun titolo dli studio rappresentano rispettivamente il 32,9% e il 32,5%, mentre gli uomini il 24, 7% e il 27,1%. In Basilicata le donne in questa situazione sono il 38,3% più di una su tre, in Calabria il 37,3%, Molise 36, 1%, Puglia 33%.
Le donne con la licenza elementare sono il 41,9% a fronte del 39,2% degli uomini, il 21,3% possiede la licenza della scuola media inferiore; appena il 10,8% ha un diploma, e solo il 2,1% ha una laurea rispetto al 3, 6% degli uomini. Per quanto riguarda le aree geografiche le diplomate sono il 10,8% al Nord e il 12,8% al Centro ma nel Sud non raggiungono il 10%. L'unica eccezione è per le laureate, nelle due Isole infatti sono il 2,2% rispetto al 2,1% a livello nazionale.
Negli ultimi anni, soprattutto dopo il '68, la discriminazione fra uomo e donna nell'accesso alla scuola in generale va attenuandosi per effetto della pressione delle ragazze che rivendicano sempre più il diritto allo studio. Infatti le ragazze iscritte nell'anno scolastico 83-84 alla scuola elementare, media inferiore e alla secondaria erano rispettivamente il 48,6%, il 47,7% e il 49,5% degli iscritti. Solo all'università l'incidenza delle donne sul totale è del 45, 1% cioè più lontana da quella quota del 50% che dovrebbe spettare loro di diritto.
Nonostante la presenza femminile nella scuola tenda ad equipararsi a quella maschile, non si attenua però quel fenomeno che vede le donne, soprattutto le figlie di famiglie operaie e popolari, confinate in indirizzi di studio di second'ordine come le magistrali, le scuole d' arte, gli istituti professionali commerciali destinati a coprire aree professionali dove regna il lavoro precario, nero, sottopagato, part-time. Le ragazze iscritte alla scuola secondaria nell'anno '83-'84 si concentrano per il 35,5% negli istituti tecnici, di cui però la stragrande maggioranza commerciali (nel '78 le iscritte all' istituto commerciale erano il 25, 7% rispetto al 33, 8% delle iscritte negli istituti tecnici), il 18,7% negli istituti professionali, il 14% negli istituti magistrali e così via. Sul totale degli studenti maschi e femmine ci rendiamo meglio conto della ghettizzazione delle ragazze nei tipi di scuola "tradizionalmente" loro riservati. Sono il 100% nelle scuole magistrali (per future maestre di scuola materna), il 93,3% degli istituti magistrali, 1'89,6% dei licei linguistici, il 69,6% dei licei artistici e il 63,4% degli Istituti d'arte mentre sono appena il 39,1% negli Istituti tecnici.
Non migliore è la situazione nelle Università dove le donne sono concentrate al 34,6% nel gruppo letterario di cui costituiscono ben il 77,6% del totale degli iscritti. A scienze naturali rappresentano il 70,1% degli iscritti, a scienze biologiche il 69, 7%, a matematica il 64,6%, mentre sono appena il 17,0% a ingegneria, il 23,7% al gruppo agrario e il 37,8% a medicina.
Non si comprende perciò come Craxi possa definire questi dati "straordinariamente significativi", e sostenere che saranno proprio le donne a "raccogliere i migliori frutti se sono capaci di inserirsi con maggiore acutezza e con più forza di volontà dei loro colleghi uomini nelle discipline del!'oggi e del domani" (Craxi - Discorso alla Conferenza stampa per la presentazione del documento predisposto dalla Commissione nazionale parità donna-uomo dell'8/3/86).
Queste affermazioni appaiono quanto mai disgustose se si pensa a quelle centinaia di migliaia, a quei milioni di figlie di operaie e del popolo lavoratore che continuano ad essere escluse dal diritto allo studio fino ai più alti gradi di istruzione e alle quali certo non basterà la "maggiore acutezza" e la "forza di volontà" per superare le barriere di una scuola sempre più classista, privatizzata e da 2ª repubblica come è nei progetti del nuovo Mussolini.
Per perpetuare e diffondere il suo dominio ideologico oltre la scuola, la classe dominante borghese dispone di altri potenti mezzi quali i mass-media, il cinema, il teatro, la letteratura, la musica, la pubblicità, e non di meno i pulpiti delle chiese.
Pensiamo alle donne che pur non sapendo leggere e scrivere conoscono a memoria il cosiddetto "rosario" in latino, o a quelle bombardate dai romanzi rosa, dalle telenovelas, dalle riviste femminili da cui non si discosta neanche "Noi donne", imbevute di idealismo e romanticismo, instillatrici di un modello di donna tutta dedita al privato, alla cura di se stessa, degli affetti e della famiglia.
Recentemente la borghesia ha lanciato un nuovo modello di donna: la donna-rambo, forte, fredda, razionale, intraprendente, decisionista ma anche tenera, femminile, materna ad uso e consumo di chi non si accontenta più del vecchio modello di madre e casalinga perfetta. Ma anche questo nuovo modello porta il marchio reazionario e antifemminile dell'ideologia e della cultura borghesi, anzi è proprio l' espressione del liberalismo borghese più sfrenato. In particolare le caratteristiche di superdonna della donna-rambo ben si confanno ai propositi imperialisti, espansionistici e neocolonialisti di Craxi e Spadolini.
 

5 - La condizione civile della donna
La classe dominante borghese non ha mai riconosciuto effettiva e piena parità di diritti fra donna e uomo nella famiglia, nel lavoro e nella società.
Abbiamo già rilevato come all' atto dell'unificazione d'Italia e dell'elaborazione del nuovo codice civile abbiano preso il sopravvento le soluzioni più arretrate del codice borbonico e sabaudo in materia femminile e familiare . La borghesia italiana di fatto non ha mai operato una rottura radicale col diritto femminile feudale e si è adeguata con estrema lentezza ai livelli raggiunti dalle altre democrazie europee.
Il carattere antifemminile della legislazione borghese è rimasto sostanzialmente immutato in tutte le fasi della storia d'Italia, inclusa quella odierna.
Pesa anche in campo giuridico l'invadente presenza della Chiesa cattolica nel nostro Paese. Se infatti il nuovo diritto borghese italiano per quanto riguarda la regolamentazione dei rapporti economici e politici si adegua agli interessi del nuovo sistema capitalistico, per quanto riguarda la concezione della famiglia, del matrimonio, della donna si avvale fondamentalmente fin dal suo nascere dei contenuti oscurantisti e antifemminili presenti nel diritto canonico che fin Il aveva regolato i rapporti familiari e fra i sessi. Anche le minime distanze che lo Stato liberale prende in questo campo dalla Chiesa vengono poi cancellate con il Concordato del '29. L'ingerenza e il veto dell'alto clero ha continuato e continua tutt'oggi a influenzare il corso della legislazione italiana, condizionando fortemente lo sviluppo del processo di emancipazione della donna e la realizzazione di una sua effettiva parità con l'uomo.
Analizzare qui tutta la storia del diritto familiare e femminile sarebbe assai lungo e complesso, anche se certamente illuminante. Ci limiteremo perciò alla storia più recente e all'odierna situazione.
All' indomani della Liberazione dal nazifascismo vengono abrogate alcune delle norme più pesantemente antifemminili in materia di lavoro e viene concesso il diritto di voto alle donne. Ma la cosiddetta "defascistizzazione" dei codici di fatto non è mai avvenuta, prova ne è che una parte consistente della legislazione fascista è tuttora in vigore. Rimane in particolare inalterato il diritto di famiglia, del quale vengono abrogate solo le norme riguardanti la razza e i matrimoni di re e imperatori.
La stessa Costituzione della Repubblica promulgata nel 1947 non recepisce pienamente il principio di parità donna-uomo, che le masse femminili avevano cominciato già a rivendicare durante la Resistenza. Anche in questo la vigente Costituzione non tradisce il suo carattere borghese. Particolarmente significativi e basilari sono gli articoli 29, 3 7 e 51. L'art. 29 "riconosce i diritti della famiglia come società fondata sul matrimonio''. La famiglia viene quindi basata su una sorta di contratto economico, a cui si riduce il matrimonio borghese, al di fuori del quale non viene riconosciuto alla donna né l'esistenza né alcun diritto. "Il matrimonio - si afferma - è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare". Si riconosce per la prima volta l' eguaglianza dei coniugi, ma gli si pongono subito dopo dei limiti in nome dell'unità familiare che evidentemente è più importante della stessa eguaglianza. Inoltre si lascia in vita fino al '75 il diritto di famiglia fascista che stabilisce il carattere indissolubile del matrimonio, il diritto dell'uomo a esercitare la patria potestà sulla moglie e i figli, la distinzione fra figli legittimi e "illegittimi", oltre a tutta un'altra serie di norme profondamente antifemminili, come la divisione dei beni fra i coniugi, la dote o il matrimonio riparatore.
Il ruolo che la democrazia borghese post-fascista vuole assegnare alla donna nella vita economica, sociale e politica emerge chiaramente nell'art. 37. Dopo aver formalmente riconosciuto che "La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore", la Costituzione aggiunge che "Le condizioni di lavoro (della donna) devono consentire l' adempimento della sua essenziale funzione familiare". Questa affermazione è stata oggetto di particolari polemiche nella stessa Costituente. La DC in particolare voleva che al posto di "essenziale" vi fosse inserito "primaria". Ma al di là del termine più o meno esplicito usato, la sostanza è comunque che alla donna spetta il carico familiare e domestico, e questo "essenziale" ruolo è prioritario rispetto alla partecipazione al lavoro extradomestico.
All'ambiguità e al sottinteso ricorre usualmente la democrazia borghese per dare una maggiore discrezionalità al potere giudiziario in modo che questo possa adattare secondo i casi la legge agli interessi del capitale.
Un esempio è l'art. 51 della Costituzione in cui si afferma che "Tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge" . Non dettando subito tali requisiti necessari per accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive, la Costituzione ha permesso che per decenni le donne continuassero ad essere escluse da cariche statali e da numerose professioni. E il caso della magistratura, nella quale le donne sono state ammesse solo nel 1963. Ancora oggi ci si avvale di quella discrezionalità lasciata al legislatore per impedire l'ingresso delle donne in alcune professioni, disattendendo la stessa legge di parità uomo-donna sul lavoro emanata nel 1977.
Quaranta anni sono trascorsi dalla promulgazione della Costituzione, durante i quali grazie ai loro potenti movimenti le masse femminili hanno realizzato importanti conquiste nel campo dei diritti civili. Eppure le relative leggi appaiono ancora monche, parziali, arretrate rispetto alla coscienza acquisita dalle masse femminili e da tutto il nostro popolo lavoratore. Queste leggi sono il frutto di mediazioni e compromessi operati all'interno del Palazzo fra le varie forze politiche parlamentari, in particolare fra la DC e il PCI, sovente contro la stessa volontà delle donne.
Il diritto di famiglia è uno degli strumenti principali sul piano giuridico mediante il quale la borghesia si assicura direttamente un controllo e un' influenza sull'intera vita delle masse fin nei rapporti privati e personali. La famiglia non è solo il luogo dove si produce e riproduce la forza-lavoro, ma anche la sede dove vengono compensati i più macroscopici squilibri del sistema economico capitalistico. Pensiamo cosa avverrebbe se i disoccupati non fossero in gran parte mantenuti dalle famiglie di origine o dai parenti, per obbligo morale ed anche legale come nel caso dei minori. Oppure pensiamo che il lavoro svolto dalle donne nella famiglia sostituisce virtualmente i servizi sociali.
Giuridicamente la famiglia borghese è una struttura portante, è la cellula economica dell'intero sistema capitalistico.
Ma è pure un importante strumento di conservazione e di trasmissione dell' ideologia e della morale dominanti, soprattutto per il ruolo educativo verso le nuove generazioni che le è stato assegnato.
È talmente importante il ruolo che la famiglia borghese ha nel sistema capitalistico, che ci sono voluti ben 30 anni dalla guerra per arrivare a una prima riforma del diritto di famiglia. Una riforma che tuttavia ne ha modificato la forma più che la sostanza.
Con la riforma del '75 infatti vengono eliminate dal diritto solo quelle norme più antifemminili e reazionarie, quali la subordinazione della moglie al marito, l'assegnazione della patria potestà al padre, la divisione dei beni, la discriminazione fra figli legittimi e "illegittimi" nonché le norme sulla dote e sulla successione.
Spesso però quello che si è fatto uscire dalla porta è poi rientrato dalla finestra. È il caso della patria potestà sui figli che rimane sl assegnata a entrambi i genitori, ma con la concessione al padre e solo a lui del diritto di decidere senza il parere della madre in caso di estrema urgenza e necessità. È il caso delle discriminazioni sempre più sottili riguardo i figli "illegittimi" e i matrimoni con stranieri.
Tuttavia la cosa più grave è che il nuovo diritto di famiglia non intacca la base su cui è fondata l'attuale famiglia. Una famiglia che per essere riconosciuta deve essere legale, cioè legittimata dal matrimonio. Infatti il nuovo diritto di famiglia non equipara le famiglie di fatto, che pure sono andate crescendo, con le famiglie cosiddette legali. Proprio perché la classe borghese non vuol rinunciare ad essere l'arbitro dei rapporti familiari e interpersonali, pretende di assicurare l'unità e la collaborazione della famiglia attraverso l'obbligo da parte di entrambi i coniugi alla "fedeltà", all" 'assistenza morale e materiale" e alla "coabitazione".
Il vertice del PCI ha salutato il nuovo diritto di famiglia come l' atto che metteva fine al carattere di contratto economico del matrimonio. Si tratta evidentemente di un madornale abbaglio o di uno spudorato inganno: quasi i due terzi del nuovo diritto di famiglia sono norme assai minuziose e dettagliate che regolano i rapporti patrimoniali della famiglia e dei suoi componenti. In realtà la famiglia sancita dalla nuova legge non è altro che la stessa famiglia borghese e cattolica adeguata ai nostri giorni per non renderla totalmente invisa alle masse femminili e popolari.
Recentemente il Senato ha approvato all'unanimità la riforma della legge sul divorzio che ora passerà alla Camera. La legge n. 898 è stata emanata il 1 ° dicembre 1970 e fin da subito ha mostrato i suoi limiti. Era quindi necessaria da tempo una sua modifica. Ma non ci sembra che le modifiche apportate dal Senato siano sufficienti a garantire un pieno e libero godimento del diritto di divorzio.
Ci preme in particolare segnalare quanto segue: l' impianto ideologico e giuridico della legge, non riconosce il divorzio come un diritto dei coniugi ma come semplice "rimedio". Tanto è vero che il divorzio per colpa rimane sotto forma dell"'addebito" e ancora più grave è il fatto che il divorzio continua a essere considerato un procedimento giudiziario e non amministrativo, come è per esempio il matrimonio.
Consideriamo poi ingiusti ed eccessivi tre anni di separazione per ottenere il divorzio, specie in caso di consensualità e assenza di figli.
Le pratiche di divorzio, inoltre, sono assai costose e pertanto non facilmente accessibili per le masse lavoratrici e in particolare per le donne, cosicché il divorzio continua in prevalenza a rimanere un privilegio delle classi medio alte e degli uomini.
L'aborto e il divorzio hanno trovato un'accanita e attiva opposizione anche da parte della Chiesa cattolica, poiché essi mettono in discussione due cardini della dottrina cattolica: "l'indissolubilità del matrimonio" e la sessualità e il matrimonio finalizzati alla "procreazione" . Cosicché tali leggi risentono fortemente del compromesso ideologico e politico col Vaticano. Specialmente la legge sull'aborto, che ha avuto la sua gestazione durante la "solidarietà nazionale", è inficiata dai tabù morali cattolici. Fino al punto che non è stato riconosciuto un vero e proprio diritto di aborto, un diritto inalienabile delle donne a esercitare la propria scelta e il proprio controllo sulla riproduzione. E la violazione di tale diritto è particolarmente odiosa dal momento che si riscontrano oltre 200 mila aborti clandestini l'anno.
La legge in vigore vieta l' aborto come mezzo per il controllo delle nascite; contempla la possibilità per il personale medico e paramedico di svolgere "obiezione di coscienza"; sottopone le donne a uno sfiancante iter burocratico e a una complessa casistica; infine proibisce l' aborto alle minorenni se non autorizzate dai genitori o dal giudice tutelare. Tutte queste norme in ultima analisi mirano a rendere difficoltoso, macchinoso e colpevolizzante l'aborto e quindi a scoraggiare le donne dal praticarlo. Si pensi solo al fatto che l' obiezione di coscienza sull'aborto in pratica impedisce l' applicazione della legge in molti ospedali e consultori soprattutto del Sud, dove le donne per abortire sono costrette ad "emigrare" in altre città o regioni, o a ricorrere alle prestazioni delle "mammane" e dei "cucchiai d'oro" .
Il nostro Partito ha da tempo elaborato una piattaforma di modifica e di miglioramento della legge 194 sull'aborto e per l' applicazione di quelle sue parti positive che rimane in gran parte valida ancora oggi.
Nel 1983 sono stati denunciati alle autorità giudiziarie 1. 007 casi di violenza sessuale, di cui 302 su minori di 14 anni, ma dopo oltre sei anni di iter parlamentare non è stata ancora varata la legge che dovrebbe tutelare le donne da questo barbaro e drammatico fenomeno.
La legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale sottoscritta da 300 mila persone non è stata neanche presa in esame dal parlamento. Mentre il testo che è in discussione è il frutto di ignobili compromessi fra le varie forze politiche del palazzo e di colpi di mano democristiani. Attualmente la legge contro la violenza sessuale è bloccata al Senato. Durante la votazione dei primi articoli la DC è riuscita a far passare il divieto di rapporti sessuali con minori di 14 anni anche se consenzienti. A causa dei contrasti insorti successivame11Le, la discussione è stata sospesa e l' approvazione definitiva della legge è stata rimandata a data da destinare. Ma già si preannunciano i tentativi della DC di impedire l' approvazione di altre due norme cardine della legge: quella che estende la procedura d'ufficio per i reati di "violenza sessuale" commessi all'interno della famiglia, e quella che consente la costituzione di parte civile da parte delle associazioni e organismi femminili in caso di processi per stupro.
Su queste due norme si era a suo tempo realizzato un compromesso fra PCI e DC: quest'ultima avrebbe ceduto sulla seconda norma in cambio della prima. Cosicché lo Stato borghese continuerà di fatto a tollerare la violenza sessuale in famiglia.
Il mancato inserimento delle donne nelle forze armate fin dall'avvento della Repubblica, ma si potrebbe dire dall'Unità d'Italia, è un'ulteriore prova del carattere discriminatorio e antifemminile della democrazia borghese e delle sue istituzioni. Oggi si cerca di rimediarvi strumentalmente attraverso il volontariato militare femminile. Che viene presentato dal governo e dalla maggioranza dei partiti del palazzo come un riconoscimento della parità donna-uomo, un fattore di "democratizzazione" delle forze armate, una nuova possibilità di occupazione e di "carriera" femminile. Ma è vero piuttosto il contrario.
Anzitutto va sottolineato che il volontariato è altra cosa rispetto alla "ferma" ordinaria femminile e ciò nonostante esso confina la donna-soldato, graduata o no, a un ruolo subalterno nei riguardi dell'uomo-soldato.
Il disegno della borghesia e del suo governo è quello di asservire le donne anche sul piano militare, coinvolgerle nella 2ª repubblica e nella difesa dell'attuale ordinamento economico, politico e statale a cui le forze armate sono preposte. Si mira a inculcare nelle donne una mentalità bellicista e militarista conformemente ai nuovi pruriti espansionistici dell'imperialismo italiano nel Mediterraneo in particolare. Senza considerare che il volontariato militare femminile potrebbe costituire un' apripista, un passaggio importante per la realizzazione piena in un prossimo futuro di un esercito di volontari e di mestiere com'è nei progetti del neoduce Craxi.
In ultima analisi la donna-soldato nell'attuale congiuntura interna e internazionale non può che rafforzare la militarizzazione e la fascistizzazione del Paese. Non possiamo quindi che essere nettamente contrari al volontariato militare femminile. Potremmo essere favorevoli alla ferma militare femminile, mai però al volontariato, solo se si modifica il ruolo, l'addestramento, l'armamento delle Forze armate, se si cambia il "modello di difesa", se si rompono le alleanze militari dell'Italia con la Nato e la Ueo, se il governo dichiara solennemente che l'Italia non ricorrerà mai a una guerra di aggressione né a una rappresaglia militare.
 

6 - Il rapporto donne e istituzioni
La classe dominante borghese italiana da sempre ha escluso le donne dal potere politico e statale le quali hanno così condiviso la sorte spettata alla classe operaia e a tutte le masse sfruttate e oppresse. Subendo una doppia discriminazione di classe e di sesso, le donne sono a tutt'oggi relegate all'ultimo gradino della gerarchia politica e sociale.
La storia del diritto di voto alle donne mette bene in luce questa condizione. Discussioni parlamentari e proposte di legge a questo proposito si registrano fin dal 1863, eppure l'Italia è stata fra gli ultimi paesi a riconoscere questo diritto: ci sono voluti ben 85 anni perché le donne ottenessero il voto.
Significative e illuminanti sono le motivazioni, riscontrabili nei vari interventi parlamentari e sulla stampa del tempo, con cui si è negato il diritto di voto alle donne considerate incapaci intellettualmente e fisicamente, troppo passionali e instabili di carattere, votate per natura alla maternità e alla casa e, altrettanto naturalmente, negate alle grandi questioni della politica e dello Stato. Si sosteneva inoltre che il godimento dei diritti civili e politici da parte delle donne avrebbe irrimediabilmente minato l'unità e l' armonia della famiglia.
Anche il PSI di Filippo Turati fu contrario al diritto di voto alle donne fino al 1912 ravvedendo in questo il pericolo di un rafforzamento elettorale degli altri partiti e in particolare del partito popolare che poteva contare sulla forte influenza cattolica fra le masse femminili. Il tradimento e i misfatti antifemminili hanno impestato la storia dei riformisti. Sono queste le "nobili" origini che può vantare il neoduce Craxi in campo femminile.
Ma anche il vertice del PCI in seguito ebbe un atteggiamento pressoché simile. Non si impegnò mai a fondo in questa battaglia, si limitò a stare a rimorchio degli eventi e a guardare con preoccupazione alla partecipazione al voto delle donne all'indomani della guerra di liberazione, anch'esso preoccupato unicamente dei vantaggi elettorali che avrebbe potuto trarre la DC.
Il diritto di voto veniva solo agitato in modo strumentale per carpire il consenso e l'appoggio delle donne alla politica governativa. Fu così che alla vigilia della 1 a guerra mondiale un po' tutte le forze politiche, compreso il PSI, si affrettarono a sostenere questo diritto, tant'è che riuscirono a spostare associazioni femministe impegnate a favore del suffragio su posizioni apertamente interventiste e di sostegno allo sforzo bellico.
La questione fu ripresa quindi solo dopo l' abbattimento del fascismo. Il 1° febbraio 1945 il governo provvisorio dell'Italia liberata emanò un decreto legislativo che introduceva il suffragio universale. Fu più un passaggio obbligato che l'espressione di una precisa volontà politica dei partiti coalizzati. Ormai nessuno osava opporsi al riconoscimento di un tale diritto, l'aveva di fatto imposto il massiccio ed eroico contributo dato dalle donne alla Resistenza.
L'importante conquista del voto non ha però significato il ribaltamento della condizione economica, sociale e civile delle donne, che hanno continuato ad essere oppresse, emarginate, strumentalizzate ed escluse dal potere politico.
Lo dimostra il fatto che la loro presenza nel parlamento e nelle amministrazioni locali è stata per quarant'anni e lo è tutt'oggi assolutamente irrisoria. Alla Camera su 630 deputati le donne sono appena 49 pari al 7,7%, la stessa percentuale che vi era all'indomani delle elezioni del '48. Al Senato le donne sono 16 su 315 eletti pari al 5,1% . La discriminazione avviene quasi indistintamente da parte di tutti i partiti parlamentari. Il PSDI, il PLI e il gruppo Misto non hanno nessuna donna fra i propri rappresentanti nei due rami del parlamento. Le rappresentanti DC sono appena 11 su ben 346 deputati e senatori. Il PCI può annoverare una maggiore presenza di donne fra i suoi eletti, 38 su 261, un numero però ancora lontano da una quota rispettabile. Il PSI di Craxi ne ha solo 3 su 111 . Il PRI una su 41. La Sinistra indipendente 4 su 3 9. Il Partito radicale 1 su 11. Ed anche DP non si distingue dagli altri: fra i suoi sette deputati non ha neanche una donna.
Nelle istituzioni locali le cose non vanno meglio. Nelle ultime elezioni amministrative del maggio '85 le donne sono appena 57 dei 720 eletti nei consigli regionali, pari al 7,9%.
Ci sono regioni come il Molise dove nessuna donna è mai entrata nel consiglio regionale. In Lombardia su 80 consiglieri regionali solo 4 sono donne. In Sicilia su 90 consiglieri solo 3 sono donne.
Da questi dati si vede quanto ipocrita e ingannevole sia la democrazia borghese. Essa da ad intendere alle masse che con il voto possono scegliere chi rappresenterà i loro interessi. In realtà l'unica libertà che concede alle elettrici e agli elettori è quella di scegliere ogni cinque anni chi dovrà continuare ad opprimerli. I parlamentari e i consiglieri infatti non vengono scelti dall'elettorato bensì dalle segreterie dei partiti del palazzo, che formulano le liste e convogliano i voti per far sl che vengano eletti i candidati da loro prescelti. Anche quando sono presenti, le donne vengono relegate sempre in coda alle liste elettorali e non ricevono dagli apparati di partito alcun sostegno, come del resto accade a quei pochi operai e lavoratori che vengono inseriti strumentalmente e demagogicamente nelle liste senza avere alcuna possibilità di essere eletti. Fiori all'occhiello che appassiscono appena finite le campagne elettorali.
Le donne sono tenute ai margini di tutto l'apparato statale, a cominciare dai vertici della Pubblica amministrazione. Su 6.012 dirigenti dello Stato solo 434, pari al 7,2% sono donne. Queste sono distribuite per lo più nella fascia della prima dirigenza dove sono presenti in 305 contro 2.591 uomini. Fra i direttori generali le donne sono appena 6 contro 547 uomini.Nell'ambito della giustizia le cose 11un vanno meglio: solo 700 magistrate contro 6. 900 magistrati, appena il 10,1%, e nessuna donna fra i giudici "togati" del Consiglio superiore della magistratura eletti dalla magistratura stessa e appena 2 le elette dal parlamento.
Questa macroscopica discriminazione delle donne, evidente anche ai più miopi, è strumentalizzata dalla forze borghesi e riformiste e da settori femministi per spingerle a rivendicare una maggiore rappresentanza femminile nelle istituzioni borghesi seminando l'illusione che in tal modo possa cambiare la natura delle istituzioni stesse e le leggi che le regolano. Quando si sa bene che le attuali istituzioni non sono affatto strumento di un sesso ma della classe dominante borghese che se ne serve per continuare ad opprimere e sfruttare la classe operaia e le masse popolari. Quando la pratica dimostra che al loro interno sono ammessi solo coloro che sono disposti a farsi carico degli interessi economici e politici del capitalismo.
Una maggiore presenza delle donne nel Palazzo non serve quindi a cambiarne la natura e i caratteri reazionari e antifemminili, specialmente ora che vi dilagano la corruzione, la mafia, la camorra e la 'ndrangheta; ora che va sempre più degenerando e fascistizzandosi; ora che siamo di fronte ad una graduale realizzazione della 2ª repubblica autoritaria e fascista.
Oggi più di ieri le masse femminili devono tenersi lontane dal Palazzo, sfuggendo alla trappola del parlamentarismo e dell'elettoralismo borghesi che mira a riassorbirle e a integrarle nelle istituzioni allo scopo di dare più stabilità al sistema capitalistico e una base di massa alla 2ª repubblica. Bene fanno quindi le masse femminili a praticare l' astensionismo in numero sempre crescente, l'unica arma sul piano elettorale per esprimere una ferma opposizione al sistema capitalistico, alle sue marce istituzioni, al suo governo e alla sua politica antipopolare e antifemminile.
Purtroppo non disponiamo di dati sull'astensionismo totale (non votanti, schede nulle e bianche) disaggregati per sesso, poiché, pur essendo riscontrabili, non vengono forniti dalle fonti ufficiali. Analizzando i soli non votanti risulta tuttavia che alle ultime elezioni politiche dell'83 ben 2.721.779 donne, pari all'11,9% del corpo elettorale femminile, si sono rifiutate di andare a votare per la Camera.
L'incidenza delle donne sull'elettorato è del 52% mentre quella sui non votanti sale al 56,3%. Il risultato è tanto più importante se consideriamo che si tratta di un elettorato con minore esperienza, e quanto sia costata alle donne la conquista del diritto di voto. Questo vuol dire che le masse femminili astensioniste soprattutto la loro parte più avanzata e cosciente hanno capito rapidamente la reale natura dell'elettoralismo borghese. L'astensionismo femminile, alla pari di quello maschile, è diventato una tendenza ormai inarrestabile: 1'8% nelle elezioni alla Camera del 1948, sceso fino al 6% nel 1958, da allora ha continuato a salire fino al grande balzo compiuto nelle elezioni del '79 passando dal 7,2% al 9,9% e nell'83 con un ulteriore incremento di due punti. Senza contare la forte incidenza che hanno assunto le schede bianche e nulle nelle ultime elezioni sul totale dell'astensionismo alle quali, siamo certi, avranno contribuito in maniera massiccia le donne.
Per i marxisti-leninisti è chiaro che il nodo del rapporto donne e istituzioni potrà essere sciolto solo nel quadro della conquista del potere politico da parte della classe operaia.
Quando cioè il proletariato femminile e maschile sarà padrone dello Stato e dell'economia, quando saranno poste le condizioni per la partecipazione delle donne al lavoro, quando le donne saranno sottratte finalmente alla schiavitù domestica. Solo allora, nel socialismo, potremo vedere, come indicava Lenin, anche una semplice massaia partecipare alla gestione degli affari dello Stato.
 

7 - Le ragazze
Dal movimento studentesco e giovanile dell'85 emerge con prepotenza il ruolo di protagoniste d' avanguardia assunto dalle ragazze. Mai prima d'ora la partecipazione delle ragazze era stata così qualificata e determinante, mai prima d'ora si erano viste tante ragazze del Nord come del Sud animare e dirigere manifestazioni, blocchi stradali, occupazioni, assemblee.
Le ragazze hanno dimostrato nella lotta le stesse capacità, lo stesso coraggio e ardore dei loro compagni, di poter da pari a pari con essi dirigere il movimento rivendicativo e di lotta su tutti i piani da quello politico a quelli organizzativo e dell'azione di massa. Con l'85 la partecipazione delle ragazze in una posizione di punta nel movimento giovanile è divenuto un fenomeno acquisito nella pratica dalle masse.
Anche se le ragazze di oggi non hanno al momento una coscienza anticapitalistica e rivoluzionaria come l'avevano i giovani del '68 e del '77, in loro è generalizzata la consapevolezza che le donne devono avere gli stessi diritti degli uomini, e rivendicano con forza il diritto al lavoro e allo studio, una collocazione di rilievo e paritaria a livello politico e sociale e l'indipendenza personale nella famiglia. Le ragazze rifuggono istintivamente quella morale e quella cultura che le considera​ no inferiori e le vogliono subordinate all'uomo nei rapporti di coppia, familiari e sessuali, che le valorizzano solo in funzione della famiglia e della maternità, che negano loro il diritto al lavoro per relegarle nella schiavitù domestica.
Ma più le ragazze tentano di sfuggire alle condizioni che da sempre il capitalismo ha imposto alle loro mamme e nonne, più la classe dominante borghese ve le ricaccia a forza attraverso la disoccupazione di massa, il restringimento del diritto allo studio, la riduzione dei servizi sociali, la negazione dei diritti politici e civili.
I dati sono Il a dimostrarlo. Le giovani fra i 14 e i 29 anni rappresentano il 73,7% dell'intera disoccupazione femminile e il loro numero cresce a un ritmo ancor più serrato di quello delle donne adulte, soprattutto nella fascia fra i 14 e i 25 anni.
Il tasso di disoccupazione delle giovani fra i 14 e i 29 anni è del 33,4% rispetto al 17,4% di quello femminile totale. Una cifra già spaventosa ma ancora niente rispetto al tasso che esiste nel Mezzogiorno, il 49,4%: una giovane su due non ha lavoro. In Sardegna lo stesso dato è del 58,2%, in Sicilia del 56,0%. In Calabria del 55,6%. Particolarmente grave è la situazione delle ragazze fra i 14 e i 19 anni il cui tasso di disoccupazione è passato dal 37% del '77 al 51,1% dell'84. Il che significa che i giovani e in particolare le ragazze trovano sbarrata la strada del lavoro fin dai primi anni in cui si affacciano sul mercato.
Anche rispetto ai loro coetanei, che pure languono come loro in una drammatica disoccupazione, le ragazze sono le più discriminate. Infatti esse rappresentano il 56,2% dei giovani fra i 14 e i 19 anni in cerca di occupazione con punte che arrivano in Emilia Romagna e Toscana anche a oltre il 63%.
Le ragazze sono anche quelle che più a lungo rimangono nello stato di disoccupate. Fra i giovani in cerca di una prima occupazione il 43% lo cerca da più di un anno e questa percentuale sale al 46% per le donne. Contemporaneamente il numero delle donne che hanno trovato lavoro in meno di un anno è scesa, tra il '77 e 1' 83, dal 62% al 46,5%.
Vi è inoltre un altro dato significativo. Benché il governo e tutte le forze politiche del palazzo si agitino per dimostrare il contrario, la maggiore istruzione delle ragazze non le favorisce affatto nel mondo del lavoro. Sembra piuttosto il contrario. La disoccupazione intellettuale femminile è infatti in costante crescita. Se in media la ricerca di una prima occupazione dura 16 mesi, per le donne diplomate è di 19 mesi. Fra donne in cerca di occupazione il 34,7% possiede un diploma o una laurea rispetto al 30,5% per gli uomini nella stessa condizione. Più macroscopico è il divario fra le persone in cerca di prima occupazione: qui il 43,9% delle donne ha un diploma o una laurea contro il 34,7% degli uomini. Evidentemente a parità di qualifiche e di studi si continua a preferire l'assunzione di un uomo.
E certo non favoriscono l'occupazione femminile le misure prese negli ultimi anni dai vari governi e in particolare dal governo Craxi, con l'introduzione della chiamata nominativa, dei contratti a termine e di formazione-lavoro. Su 104 mila assunzioni per chiamata nominativa solo il 30,9% sono di donne. Stesso discorso vale per i contratti di formazione-lavoro: dal maggio '84 al dicembre '85 su 119. 128 assunzioni, solo il 39,2% erano donne. Il fenomeno è ancora una volta più vistoso al Sud. In Basilicata la quota femminile è di appena il 19%, in Campania il 28,3%, in Sicilia il 32,2%.
Un altro fenomeno preoccupante per le ragazze è che le nuove assunzioni sono quasi inesistenti in agricoltura e nell'industria, l'unico settore che in questi anni le ha accolte è quello del terziario. Mentre sono destinate prevalentemente alla sottoccupazione, ai contratti a termine e stagionali, al lavoro più dequalificato e precario. Il che le sottopone ad ogni tipo di ricatti e di soprusi che arrivano fino alla violenza sessuale da parte dei datori di lavoro.
Se per un ragazzo la disoccupazione e un vero dramma.per !e ragazze vale alla negazione dell'indipendenza economica dalla famiglia, che comporta anche indipendenza personale e di vita altrimenti negata. La disoccupazione forzata le costringe invece a subire la patria potestà e la condizione di schiava domestica già all'età di 14 o 18 anni. In questa fascia di età le ragazze classificate dal censimento '81 come casalinghe sono 357 mila.
Per quanto riguarda il diritto allo studio, abbiamo visto come sia già realizzata una partecipazione paritetica ai vari gradi di istruzione fra donna e uomo. Questo non significa però che questo diritto sia acquisito e goduto da tutti i figli della classe operaia e dei lavoratori.
I giovani fra i 14 e i 18 anni sono, secondo il censimento '81, oltre 4 milioni ma quelli che frequentano i corsi di studio sono circa 2 milioni e mezzo. Quasi la metà delle ragazze e dei ragazzi quindi non possono accedere ancora alla scuola secondaria, per non parlare dell'università. Secondo stime ufficiali fra i giovani che frequentano corsi di studio inoltre sono oltre 200 mila quelli costretti a lavorare, dei quali più di 70 mila sono ragazze.
Nonostante si sia abbassata notevolmente l'età della maturazione politica e sociale, fino al diciottesimo anno ai giovani non è concesso alcun diritto politico e civile e sono costretti a subire la patria potestà dei genitori.
Le ragazze e i ragazzi sotto i 18 anni non contano nulla in questa società. Sono completamente esclusi dal potere politico e statale, ma non hanno voce in capitolo neanche in quelle istituzioni o in quei servizi sociali che li riguardano più da vicino come la scuola, gli uffici di collocamento, i centri sportivi e ricreativi, i consultori, i centri per i tossicodipendenti, ecc. che vengono gestiti calpestando le loro esigenze e i loro bisogni.
Questa condizione politica e civile si riflette su tutta la vita sociale e personale dei giovani e soprattutto delle ragazze. Conosciamo fin troppo bene il ritornello, "finché non sei maggiorenne, fai come dico io", suggerito dall'ideologia dominante ai genitori affinché esercitino il loro pieno controllo sui figli e mantengano una ferrea gerarchia familiare.
Per dare un duro colpo a tutto questo intollerabile stato di cose, per andare incontro alle nuove esigenze dei giovani e dei giovanissimi, in particolare per liberare le ragazze dalla sottomissione familiare e considerata la precoce maturazione politica e sociale delle nuove generazioni, il PMLI chiede che il voto e la "maggiore età" siano estese ai sedicenni.
A causa della morale e della cultura borghesi e cattoliche, le ragazze sonò sottoposte a un controllo molto pesante e rigido. Fin dalla più tenera età esse vengono educate alla subordinazione, alla remissività, alla "vocazione" materna e domestica, all'estraneazione dalla vita sociale e politica. I molti passi avanti rispetto a ieri sono il frutto della maturazione progressista e democratica della coscienza del nostro popolo, alla quale non si è però adeguata la democrazia borghese.
È noto che l'età fertile si è notevolmente abbassata, ma non è riconosciuta l'autodeterminazione delle ragazze sulla riproduzione. Infatti viene negato loro il diritto all'aborto sottoponendole all'autorizzazione dei genitori o del giudice tutelare, come d'altra parte viene loro negato il diritto di riconoscere il figlio fino a 16 anni.
Una recente inchiesta rende noto che ogni anno circa 400-450 ragazze sotto i sedici anni diventano madri di figli che automaticamente entrano in condizione di affidamento o adottabilità poiché non riconosciuti. Ciononostante per legge ai minori di 14 anni è vietato l'amore anche consensuale.
Nonostante che da tempo il nostro popolo abbia fortemente messo in discussione i vecchi tabù e le arretrate e reazionarie concezioni cattoliche sulla famiglia e sulla sessualità (lo dimostrano i risultati vittoriosi dei referendum sul divorzio e l'aborto), la classe dominante si ostina a tutelarli e riproporli. così vieta l'informazione sessuale nella scuola e impedisce una propaganda di massa, scientifica e democratica sulla sessualità, la contraccezione e l' aborto rivolta in particolare alle nuove generazioni.
Particolarmente pesante è la condizione delle ragazze e dei giovani delle periferie urbane e del Mezzogiorno. La quasi totale mancanza di lavoro, di strutture aggregative, sociali, culturali e sportive, di servizi sociali rende la loro vita un inferno fatto di emarginazione, solitudine, disgregazione su cui si innestano fenomeni degenerativi in continua crescita come la droga, la prostituzione, la piccola delinquenza comune. Il sistema capitalistico non offre alcun futuro ai giovani del nostro Paese. Alle figlie e ai figli della classe operaia e del popolo lavoratore esso garantisce solo una vita di sfruttamento, oppressione e disoccupazione. Alle ragazze garantisce in più una vita da vivere nella doppia schiavitù salariata e domestica e nell'oppressione di sesso.
 

8 - La divisione in classi delle donne
Da come abbiamo descritto la condizione femminile e dalla storia del movimento delle donne del nostro Paese, emerge che non tute le donne sono accomunate dagli stessi interessi ed esigenze, e che esse non sono investite e coinvolte in egual misura nelle battaglie di classe generali e in quelle per i problemi specifici di sesso.
Questo perché le donne non costituiscono una classe omogenea, ma un gruppo sociale eterogeneo profondamente diviso al suo interno in base all'appartenenza e all'origine di classe dei suoi vari settori. L'appartenenza allo stesso sesso non determina la collocazione automatica nella stessa classe, e ciò vale per le donne come per gli uomini. La solidarietà di sesso, che per le donne ha la sua particolare importanza, è pur sempre politica e relativa, subordinata alla solidarietà di classe. Avere lo stesso sesso è del tutto secondario rispetto alla divisione e all'insieme delle contraddizioni di classe, riflesso della contraddizione principale e antagonista fra proletariato e borghesia, fra lavoro salariato e capitale che sono presenti e agiscono all'interno dei sessi e delle varie fasce d'età.
Anche la storia del nostro Paese dimostra che non c'è battaglia economica e politica, sociale e civile che non abbia visto le donne dividersi, schierarsi in fronti contrapposti in base ai propri interessi di classe e al diverso orientamento politico e di classe. È sempre stato così sulle grandi questioni di interesse generale come in quelle di interesse specifico. Le donne per esempio si sono divise durante il fascismo e la Resistenza così come nel periodo dei governi democristiani, del "centro-sinistra" e nei governi successivi finanche al governo di "solidarietà nazionale", si sono divise pure nel '60, nel '68, nel '69, nel '77, e più recentemente nella lotta contro il decreto taglia-salari e di fronte al governo di Craxi. Ma si sono divise anche durante le battaglie per i propri diritti civili come il voto alle donne, il divorzio e l'aborto.
Bisogna aggiungere che il fronte femminile non ha sempre la stessa dimensione. Ci sono battaglie, come quelle per i diritti civili, che vedono uno schieramento femminile più ampio arrivando fino a coinvolgere singoli elementi o fasce di donne della borghesia, ma quando si tratta di battaglie più strettamente legate agli interessi della classe operaia femminile il fronte delle donne si restringe sensibilmente ed emergono chiaramente le contraddizioni di classe esistenti fra le donne.
Le donne, come del resto gli uomini, possono avere, e le hanno, comuni rivendicazioni, ma ogni componente sociale femminile le vive, le interpreta e le gestisce secondo la concezione del mondo, gli interessi e la politica delle rispettive classi di appartenenza.
Fare di tutta un'erba un fascio, non operare alcuna distinzione fra donne proletarie e donne borghesi, teorizzare un'interclassista e universale unità di sesso, come fa anche il vertice del PCI, vuol dire sacrificare gli interessi, le esigenze immediate della masse popolari femminili e non aiutare la causa dell'emancipazione femminile e del socialismo.
È quindi di fondamentale importanza analizzare da un punto di vista marxista-leninista la composizione di classe delle donne. Senza di che è impossibile orientare in senso proletario e rivoluzionario il lavoro politico, di massa e di fronte unito del Partito in campo femminile e ai tre livelli d' azione. Tale analisi è tanto più importante in riferimento alle alleanze del proletariato e alla costruzione del Fronte unito rivoluzionario.
Purtroppo non disponiamo di dati sufficienti per fornire un quadro esatto della composizione di classe delle masse femminili. Tanto più che nessuno in precedenza ha svolto una simile analisi seguendo un qualsiasi criterio anche non marxista-leninista. Ci serviamo perciò del censimento generale della popolazione del 1981, anche se i dati resi pubblici non sono sufficienti a dare una collocazione di classe precisa ad ogni singolo individuo della popolazione. In particolare risulta difficoltosa l'individuazione degli elementi appartenenti alla borghesia monopolistica che pur non possessori diretti dei mezzi di produzione, sono proprietari di capitali in genere, di titoli fruttiferi, pubblici e azionari anche di grandi aziende cooperative. Lo stesso problema si presenta per il sottoproletariato per le evidenti difficoltà a censire mendicanti, ladri, prostitute e in genere gli individui che vivono alla giornata e di espedienti. Anche per i disoccupati e i pensionati è attualmente impossibile per noi stabilire la loro collocazione di classe originaria.
Il nostro sarà quindi un quadro di massima suscettibile di essere precisato una volta che saremo in possesso di maggiori dati conoscitivi, ma non per questo meno significativo.
In base all' analisi delle classi in Italia compiuta dal nostro Partito il tessuto sociale del nostro Paese è così composto: proletariato, semiproletariato, contadini (che a loro volta si suddividono in semi-proletari agricoli, contadini poveri, medi e ricchi), piccola borghesia (che si suddivide in strato inferiore e superiore), il sottoproletariato e infine la borghesia (composta dalla media borghesia e dalla borghesia monopolistica) . La popolazione femminile totale è al censimento '81 di 29.050.557 unità.
Il proletariato femminile - non considerando le lavoratrici a domicilio produttive a nero delle quali mancano i dati - è composto da circa 1 milione e 771 mila operaie pari al 6,09% dell'intera popolazione femminile. Di queste ben 1 milione e 148 mila appartengono alla classe operaia, cioè al proletariato industriale, e 449 mila al proletariato agricolo. Il proletariato femminile rappresenta inoltre circa il 22% della popolazione femminile attiva.
Appartengono invece al semiproletariato 1 milione e 276 mila lavoratrici pari al 4,3%. Fanno parte di questa classe le salariate, non impiegate, nel commercio e nei servizi (601 mila), le artigiane e commercianti povere (533 mila) e le studentesse-lavoratrici (141 mila) .
Le contadine povere sono 335 mila pari all' 1,15% della popolazione femminile. Mentre quelle medie e ricche sono circa 4 mila.
La piccola borghesia dello strato inferiore è composta da 5 milioni e 627 mila donne pari al 19,3%. Di queste 2 milioni e 775 mila sono tecnici e impiegate non direttive, 2 milioni e 124 mila sono studentesse sopra i 14 anni e 727 mila sono insegnanti delle scuole elementari e medie.
La piccola borghesia dello strato superiore è composta almeno da 507 mila donne pari all'1,72%. In questo caso ci mancano completamente i dati sui piccoli industriali e gli artigiani e i commercianti medi. La cifra sopra riportata si riferisce quindi solo alle professioniste (45 mila), impiegate superiori (45 1 mila) e professoresse universitarie (11 mila).
Le donne appartenenti alla media borghesia e alla borghesia monopolistica risultano essere circa 63 mila, appena lo 0,22%. Un pugno di donne che insieme a un altrettanto ristretto numero di uomini detengono tutto il potere economico, politico e statale.
Come si può notare non abbiamo fin qui collocato le casalinghe, che meritano un discorso a parte per le loro caratteristiche e per il loro rilevante peso quantitativo. Esse infatti sono 10 milioni e 29 mila pari al 34,52% della popolazione femminile.
La prima cosa che bisogna dire è che le casalinghe non possono essere classificate in blocco in una stessa classe, poiché non tutte hanno un identico passato e presente economico a livello personale e familiare. Per stabilire la loro precisa suddivisione in classe, sarebbe necessario conoscere esattamente l'origine di classe di ciascuna di esse e le condizioni economiche delle rispettive famiglie . Purtroppo non disponiamo di questi dati. Tuttavia possiamo senz'altro affermare che le casalinghe complessivamente fanno parte integrante delle masse popolari, come è dimostrato dai dati che abbiamo illustrato in precedenza riguardanti la loro condizione economica, sociale e culturale. In ogni modo la condizione delle casalinghe può essere assimilabile a quella dei lavoratori dipendenti occupati nel settore dei servizi sociali, giacché esse producono oggettivamente dei servizi socialmente utili, anche se svolti individualmente nell'ambito della famiglia e senza retribuzione. Cosicché la loro collocazione di classe è omologabile nella stragrande maggioranza a quella del semiproletariato povero.
È sottointeso che quando parliamo di casalinghe ci riferiamo alle donne che svolgono effettivamente il lavoro domestico e familiare e non alle donne della media e alta borghesia, un gruppo assai ristretto, che magari all'anagrafe sono registrate come casalinghe ma in realtà fanno svolgere le funzioni casalinghe alle "collaboratrici domestiche" .
In conclusione, dall'analisi di classe delle masse femminili, rileviamo con molto piacere che il nostro proletariato industriale e agricolo è composto per un 26% da donne, senza contare le lavoratrici produttive a nero. Esso può contare su un potente alleato costituito da un esercito di donne lavoratrici, casalinghe, contadine e studentesse pari a circa il 60% della popolazione femminile.
Per questo il PMLI nel suo Programma ha assegnato un "posto di rilievo" alle donne nel fronte unito anticapitalistico e per il socialismo.
 

9 - Le risposte del riformismo e del femminismo
La perdurante condizione di doppio sfruttamento e oppressione delle masse femminili e la più volte manifestata disponibilità di queste a battersi per l'emancipazione, dimostrano che in Italia esistono da tempo tutte le condizioni oggettive perché si sviluppi un forte movimento di massa femminile anticapitalista e rivoluzionario.
Se ciò non è avvenuto è perché tuttora i riformisti vecchi e nuovi e il femminismo detengono saldamente l'egemonia del movimento delle donne.
Il PSI, fin da quando è nato, non è mai stato a favore dell emancipazione della donna, ed ha sempre agito perché il movimento delle donne deviasse da questo obiettivo dirottando nel riformismo e nel femminismo.
Proprio il PSI è il partito che per primo si è assunto la responsabilità di far penetrare il femminismo piccolo-borghese all'interno del movimento operaio e popolare attraverso Anna Maria Mozzoni femminista e riformista di matrice mazziniana e Anna Kulisciov esponente dell'ala socialdemocratica della 2ª Internazionale.
La "vocazione" governativa, che cominciò ad emergere con più chiarezza quando nel 1901, dopo appena nove anni dalla sua fondazione, votò per la prima volta a favore del governo borghese Zanardelli-Giolitti, portò ben presto il PSI ad assumere un atteggiamento compromissorio e cedevole sul problema femminile.
La prima legge di tutela del lavoro femminile, che poteva essere l'occasione per pretendere dal padronato la parità fra i sessi nel lavoro, trova il PSI favorevole a una semplice "legislazione protettiva", sostenitore com'era di una concezione della donna sostanzialmente antifemminile mutuata da Proudhon che considerava la donna un essere inferiore e debole, incapace di stare alla pari con l'uomo.
Il 24 maggio 1901 Turati tiene una relazione al parlamento sulla legge di tutela del lavoro femminile avanzando le seguenti incredibili proposte: 1) Rinuncia alla lotta per la parità salariale; 2) Riconoscimento della debolezza della donna in quanto tale; 3) Accettazione del principio del doppio lavoro con la richiesta di adattare l'orario di fabbrica all'impegno domestico e familiare della donna. Tali proposte trovarono naturalmente concordi i grandi industriali.
La politica antifemminile del PSI fu uno degli elementi che portarono alla scissione del '21. Negli anni '60, con l'ingresso del PSI nella "stanza dei bottoni", la sua politica femminile ha coinciso con quella dei governi di "centro-sinistra". Con la conquista della segreteria da parte di Craxi fa un salto di qualità divenendo una componente organica del disegno della 2ª repubblica. La Conferenza programmatica di Rimini delle donne socialiste tenutasi nell'aprile '82, che ancora oggi costituisce il punto di riferimento della linea femminile del PSI, elabora una vera e propria piattaforma di governo in campo femminile che si articola in "15 punti programmatici". Questo programma prevede una serie di modifiche legislative in riferimento ai diritti civili, il fisco, la giustizia, la formazione professionale, inoltre richiede l'istituzione di organismi istituzionali per le "pari opportunità", la ratifica e l'applicazione di atti e convenzioni internazionali sulle "pari opportunità" e le "azioni positive".
Questo programma fornisce una copertura demagogica al governo Craxi mentre questi porta avanti una politica neoliberista e di smantellamento del cosiddetto "Stato sociale" che penalizza gravemente le masse femminili. Ciò appare chiaramente alla VII Convenzione delle donne socialiste del marzo 1986 che si svolge all'insegna della significativa parola d'ordine "Oltre lo Stato assistenziale, verso lo Stato sociale: il benessere possibile".
Elena Marinucci, vicaria in gonnella del neoduce in campo femminile, afferma spudoratamente nella sua relazione: "quando un intero partito come ha fatto il PSI mette in gioco tutta la propria politica, il presente e il proprio avvenire sulla questione della scala mobile, nell'interesse della nazione, bisogna dare di questo partito e di chi lo guida un altissimo giudizio morale" . E ancora "Ai socialisti e alle socialiste... non manca il coraggio delle scelte, anche di quelle che se non ben comprese, rischiano l'impopolarità" . Il "benessere possibile" che si propone alle donne è dunque quello compatibile con le esigenze del grande capitale e col rilancio del sistema capitalistico. Non a caso la Marinucci afferma: " Quello che occorre mettere in primo piano è lo sviluppo" .
In questo quadro si opera da un lato per smantellare lo "Stato sociale", in nome della lotta allo "spreco" e alle "inefficienze" dello "Stato assistenziale", e dall'altra per far accettare alle donne la deregulation, la sottoccupazione, il sottosalario e il supersfruttamento attraverso le "pari opportunità" e le "azioni positive".
La politica delle "pari opportunità", teorizzando un lavoro adeguato ai tempi e ai ritmi della vita della donna, vuol liberalizzare l'impiego della forza lavoro femminile. E che questo coincida con i piani del padronato ce lo dice lo stesso Craxi: "La situazione generale del lavoro e della produzione - ha detto nel suo intervento alla II Conferenza nazionale sull'occupazione delle donne del 14 e 15 maggio 1986 - va sempre più imponendo i principi della mobilità del lavoro, del part-time, dei contratti a termine, del lavoro individuale o di gruppo, della cooperazione" , "C'è dunque - egli aggiunge - una significativa coincidenza fra il tipo di lavoro che la società offre e il tipo di lavoro più favorevole alla condizione femminile" .
Craxi tenta di tessere con le masse femminili italiane un rapporto strumentale e pericoloso che ricorda sinistramente per stile, toni e atteggiamenti quello di Mussolini. Egli infatti fa di tutto per ergersi e farsi riconoscere come il principale e vero paladino della parità fra i sessi. Non altrimenti si spiegano i suoi ripetuti e reclamizzati interventi e iniziative su tematiche femminili e certe sue azioni plateali come quella di riservare una pioggia di onoreficenze alle esponenti più di spicco del mondo economico, politico, culturale e dello spettacolo.
La differenza fra Craxi e Mussolini sta solo nel fatto che il duce di ieri faceva appello alla maternità per coinvolgere le donne nel sostegno al suo regime, mentre il duce di oggi specula sull'aspirazione alla parità per guadagnare l'appoggio e il sostegno delle donne al disegno della 2ª repubblica.
La maggiore responsabilità dell'attuale situazione in cui si trova il movimento delle donne va comunque attribuita al vertice del PCI, la cui linea non si è mai differenziata nella sostanza da quella riformista, socialdemocratica e femminista del PSI fino al punto che oggi è difficile distinguere l'una dall'altra.
Già nel 1921 Gramsci afferma che "La questione dell'emancipazione della donna, nel senso più alto e profondo, non è questione di partito: riguarda tutta la società italiana, il grado di sviluppo cui essa è arrivata, il progresso che deve fare affinché la emancipazione femminile sia effettivamente possibile” . (cit. da Camilla Ravera "Breve storia di un movimento femminile in Italia", 1978).
Togliatti nel 1945, in un discorso pronunciato alla 1ª Conferenza femminile del PCI, ribadisce gli stessi concetti sostenendo che "La emancipazione della donna non è e non può essere problema di un solo partito e nemmeno di una sola classe" . In più aggiunge che "La democrazia italiana ha bisogno della donna e la donna ha bisogno della democrazia”. Col che egli cancella ogni possibilità da parte delle donne di emanciparsi, dal momento che vincola il loro destino alla democrazia borghese. Da allora in poi il vertice del PCI è andato via via sbarazzandosi anche formalmente della concezione marxista-leninista dell'emancipazione della donna facendo bene attenzione a sfuggire al controllo della III Internazionale e del Cominform. Ma una volta morto Stalin l'unico ostacolo che rimane è rappresentato dall'ostilità della base operaia e popolare verso il riformismo e il femminismo.
Di superare questo ostacolo si fa carico Berlinguer, a partire soprattutto dagli anni '70, dando il via a un profondo processo di femministizzazione del PCI e delle masse operaie e popolari.·
I primi risultati di questo processo si avvertono nell'UDI che, data la composizione eterogenea e la sua direzione borghese e piccolo borghese, approda rapidamente alle teorie e alle pratiche femministe fin dalla metà degli anni '70 (nel 1979 trasferisce persino la propria sede nazionale al Governo Vecchio, quartier generale del neo-femminismo) per poi "rifondarsi" completamente su basi femministe coll'XI Congresso del 1982.
Ma anche nel PCI il processo di femministizzazione avanza. Già nel 1976 la 6ª Conferenza delle donne del PCI pone al centro le tematiche della sessualità e del rapporto donna-uomo.
Illuminante a questo proposito è quanto scrive l'esponente democristiana Maria Eletta Martini in un suo articolo pubblicato su "Rinascita" del 15/7/77 che dà atto al vertice del PCI di essere approdato nel campo del femminismo sin dalla metà degli anni '70: "Ha parlato di 'emancipazione femminile' la cultura laico-marxista; hanno parlato di 'pari dignità tra uomo e donna' e 'promozione della donna' (parallelamente alla promozione dei lavoratori) il magistero della Chiesa cattolica e la cultura che alla dottrina e alla prassi cristiana si ispira. I confini tra termini diversi si sono sfumati nel tempo, fino a quando, per tutti, si è ritenuto valido il termine comune (l'influenza femminista è evidente) di 'liberazione' della donna".
Il terreno femminista diventa dunque il punto d' incontro ideologico e politico tra il PCI e la DC (la quale peraltro conta su una secolare tradizione del femminismo cattolico) esattamente quando questi due partiti collaborano nel governo di "solidarietà nazionale". Il che svela tutto il carattere interclassista e sostanzialmente borghese della teoria femminista della "liberazione".
Berlinguer manovra abilmente la mutazione genetica in senso femminista e borghese della linea femminile del PCI fino a giungere a teorizzare apertamente il ripudio della concezione marxista dell'emancipazione della donna al 15° Congresso del 1979. Da quella tribuna infatti Berlinguer afferma: "Bisogna uscire da un vecchio sistema, che influenzò anche il pensiero e l'azione dei grandi rivoluzionari di ogni tempo, secondo cui prima si deve fare la rivoluzione sociale e poi si risolverà la questione femminile” .
Questa linea verrà portata alle sue estreme conseguenze col 16° e soprattutto col 17 ° congresso dell'aprile 1986.
Nelle tesi del 17° Congresso il termine emancipazione sfuma fino a sparire del tutto, per essere sostituito da "liberazione" . La "liberazione", sostengono le tesi, va intesa "come politica di tutte e per tutte le donne".
Frutto del 17° Congresso è la "Carta delle donne", un recente documento strategico e programmatico elaborato dalla Commissione centrale del Comitato centrale del PCI. La "Carta delle donne" fornisce la base teorica e dà organicità alla scelta socialdemocratica e femminista del PCI. Essa sistematizza e sviluppa su un piano programmatico le teorie che via via il vertice del PCI ha fatto proprie pescando ora nel femminismo tradizionale, ora nel liberalismo borghese.
La "Carta delle donne" ruota attorno alle teorie della "differenza sessuale" e della "doppia presenza".
La teoria della "differenza sessuale" ispira la concezione femminista della donna e dei rapporti fra i sessi. Essa nega che le differenze fra i due sessi sono il prodotto della divisione dei ruoli imposto dalle classi dominanti sfruttatrici dalla apparizione della proprietà privata fino ad oggi, mentre assume la "diversità" della donna rispetto all'uomo come un valore universale. La contraddizione di sesso diventa così la causa fondamentale ed esclusiva dell'oppressione della donna e viene cancellato qualsiasi e seppur flebile riferimento o collegamento alla contraddizione di classe.
Alla lotta per l'emancipazione e per la parità fra i sessi, alla base della quale c'è la convinzione che la donna è un essere con uguali capacità e potenzialità dell'uomo, viene sostituito l'obiettivo dell'affermazione della "differenza sessuale", che non implica alcun capovolgimento degli attuali rapporti di produzione capitalistici, né l'eliminazione della schiavitù domestica che anzi viene rivalutata insieme alla maternità.
La teoria della "doppia presenza" infatti si pone il compito di far riconoscere ufficialmente il valore del lavoro casalingo e familiare della donna (il lavoro di riproduzione) rispetto al lavoro extradomestico (il lavoro di produzione) riproponendo l'odiosa conciliazione fra schiavitù salariata e schiavitù domestica. Su questa base la "Carta" sostiene la necessità di una "nuova cultura del lavoro” che si concretizza nella rinuncia ad una occupazione stabile e a tempo pieno in favore del part-time, dell'orario flessibile, dei contratti a tempo determinato. Proprio la stessa ricetta di Craxi. Non c'è dubbio che la "Carta" segna il ripudio formale oltreché sostanziale del socialismo, al quale contrappone una astratta, interclassista e cattolica "società umana".
Il femminismo è sempre stata una corrente ideologica e politica borghese. Le radici del femminismo storico in Italia affondano nel liberalismo di ispirazione mazziniana e successivamente nella socialdemocrazia. Storicamente il femminismo è un fenomeno ristretto a gruppi di donne specie intellettuali, della piccola e media borghesia completamente slegati se non opposti alla classe operaia e alle masse popolari femminili. Il femminismo storico si limita a mettere in discussione la problematica sessuale e rivendicare la conquista dei diritti civili, in primo luogo il diritto di voto, mentre ignora completamente le tematiche dello sfruttamento salariato e domestico delle donne.
La natura borghese e antimarxista del femminismo storico portò fra l'altro suoi settori significativi ad appoggiare apertamente l'avvento e il consolidamento della dittatura mussoliniana.
In letargo per qualche decennio, il femminismo prende nuovo vigore negli anni '70 sotto la spinta del movimento giovanile e studentesco del '68 e delle contraddizioni che esplodono fra settori della piccola-borghesia rivoluzionaria e le rispettive organizzazioni politiche e partitiche che non avevano raccolto la spinta verso una nuova concezione dei rapporti familiari, sociali e sessuali e della parità fra i sessi maturata in quel movimento.
Il neo-femminismo prende quindi avvio nei primissimi anni '70 con la costituzione di ristretti gruppi di donne intellettuali e della piccola borghesia legati all'area radical-socialista e ai raggruppamenti trotzkisti e operaisti.
Il neo-femminismo individua nella "sessualità" il nocciolo dell'oppressione della donna e sviluppa intorno a questa tematica la propria elaborazione e il .proprio intervento. Rifiuta la teoria marxista-leninista dell'emancipazione della donna, le forme e le pratiche organizzative classiche del movimento operaio e popolare; esalta invece la teoria della "liberazione", la psicanalisi, l"'autocoscienza", la "sorellanza"; individua infine nel "piccolo gruppo", nel "separatismo", nell'autonomia dal movimento operaio e dai partiti i principi e gli strumenti politici e organizzativi propri delle donne.
Nel porre comunque i diritti specifici delle donne il neofemminismo finisce coll'andare incontro alle esigenze reali e crescenti delle masse femminili. A partire dalla metà degli anni '70 esso riesce perciò ad influenzare larghi settori della piccola borghesia rivoluzionaria e parzialmente settori i lavoratrici.
così il compagno Giovanni Scuderi, nel Rapporto al Congresso di fondazione del PMLI, sintetizza le caratteristiche del neofemminismo e prospetta le sue linee di tendenza: "I raggruppamenti femministi rappresentano una grande forza ed hanno una grande importanza politica, ma si muovono sulla base di un presupposto profondamente sbagliato, cioè che la schiavitù e la subordinanza ella donna dipenderebbero dall'uomo, mentre invece i fatti dimostrano che la causa dell'oppressione della donna è da ricercarsi nell'esistenza del capitalismo, e che solo risolvendo la contraddizione principale fra il proletariato e la borghesia si può cominciare a risolvere la contraddizione secondaria fra i sessi.
Essi non comprendono che le donne da sole, separate dalle masse popolari e non attaccando nel suo insieme il sistema capitalistico non riusciranno mai a trovare il pieno soddisfacimento dei loro diritti. La loro pratica sociale - costruita sull'idealismo e la metafisica e non sul materialismo dialettico e storico - non ha un carattere proletario e autenticamente rivoluzionario perché spezza il fronte uomo-donna sfruttati e oppressi e sposta nella famiglia e nel privato e personale il centro della battaglia della donna.
Questi raggruppamenti femministi devono quindi fare un salto di qualità, devono cioè abbandonare il proprio individualismo e riconoscere la direzione ideologica, politica e pratica del proletariato e del suo Partito, senza di che sono destinati a isterilirsi e a frantumarsi, se non addirittura a finire col contrapporsi al movimento operaio e alla rivoluzione".
La storia ci ha dato ragione. Il femminismo è andato progressivamente perdendo il proprio fascino iniziale fra le donne e al fallimento ideologico è seguito quello organizzativo, con la frantumazione di tutti quei collettivi femministi che si erano formati negli anni '70.
Attualmente il femminismo si è completamente involuto e ha perso ogni carica innovativa e contestatrice che pure aveva avuto al suo inizio. Da una posizione antistituzionale esso è passato via via a ricercare l'integrazione nelle istituzioni politiche, culturali, scientifiche del sistema capitalistico; da movimento di massa si è trasformato in movimento di opinione e culturale completamente staccato dalle masse.
Approdato al femminismo, il vertice del PCI ha fatto sentire tutto il suo peso politico, organizzativo e propagandistico sulle esponenti femministe superstiti fino a portarle nella sua sfera d'influenza. Altre sono state risucchiate da Craxi. Cosicché anche il neo-femminismo, parliamo qui delle teoriche e delle sue dirigenti, ha chiuso definitivamente la sua parentesi progressista e si è ricongiunto con la socialdemocrazia e il riformismo.
 
 

10) I compiti principali del PMLI sul fronte femminile
In questi dieci anni di vita del Partito, ma anche nel decennio precedente in cui abbiamo lavorato per la sua fondazione, ci siamo impegnati a fondo per aiutare e orientare le masse femminili nella lotta per liberarsi dalla loro disumana e intollerabile condizione. Abbiamo fatto duri sforzi sul piano ideologico, politico, programmatico e organizzativo e realizzato non senza sacrifici delle importanti esperienze di lavoro di massa e di fronte unito. Eppure dobbiamo fare di più e meglio. Migliorare, rafforzare e sviluppare il lavoro femminile del Partito, sulla base della linea e dei compiti stabiliti dal 3° Congresso nazionale, è di fondamentale importanza per realizzare lo sviluppo nazionale del Partito, cominciando col conseguire il grande balzo in avanti sul piano organizzativo e del proselitismo.
Si tratta di studiare e approfondire la linea generale e quella femminile del Partito e il marxismo-leninismo-pensiero di Mao in riferimento ai problemi attuali delle masse femminili e alle contraddizioni di linea esistenti sulla questione femminile. Ciascuno deve procedere speditamente nella trasformazione della propria concezione del mondo, della donna e della famiglia e nel conformare la propria militanza e la propria vita personale ai principi del marxismo-leninismo-pensiero di Mao.
Nel quadro dello sviluppo del lavoro femminile e dello sviluppo nazionale del Partito, dobbiamo ancora porre l'accento sul lavoro di massa con l'obiettivo di allargarlo e qualificarlo sul piane politico. Ci occorrono delle esperienze concrete sempre più ampie e avanzate, dalle quali trarre bi lanci, ispirazioni e insegnamenti che consentano di aumentare l'influenza del Partito fra le masse femminili e di conquistare nuovi militanti, simpatizzanti, amici e alleati del Partito.
Noi riponiamo una grande fiducia e nutriamo grandi aspettative nel lavoro fra le masse femmnili, coscienti di quanto esso sia vitale alla costruzione del Partito, allo sviluppo della lotta di class, e alla vittoria della rivoluzione socialista in Italia.
Molti sono i compiti che abbiamo davanti in campo femminile. Ma su tre di essi dobbiamo concentrare la nostra attenzione, la nostra intelligenza e la nostra forza, misurando i nostri risultai politici, organizzativi e di massa e misurandoci con loro per migliorarli incessantemente.
Attualmente i compiti principali del PMLI sul fronte femminile sono: 1) Tenere alta la bandiera dell'emancipazione della donna e del socialismo; 2) Sostenere e orientare le lotte delle masse femminili per il lavoro, la parità dei sessi, i servizi sociali; 3) Conquistare al Partito le donne sfruttate e oppresse e le giovanissime. Esaminiamoli uno per uno.
 
I - TENERE ALTA LA BANDIERA DELL 'EMANCIPAZIONE DELLA DONNA E DELSOCIALISMO
Guardando alla realtà, all'esperienza storica del movimento operaio nazionale e internazionale e alla condizione femminile di oggi, siamo più che mai convinti che solo la via maestra dell'emancipazione della donna e del socialismo può far uscire le masse femminili dalla situazione economica, politica e sociale in cui versano e creare loro tutte le condizioni per liberarsi dalla schiavitù salariata e domestica e realizzare una effettiva parità con l'uomo.
Il marxismo-leninismo-pensiero di Mao ha individuato e messo a fuoco, facendo piazza pulita delle concezioni idealiste e metafisiche, che l'esistenza della proprietà privata e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo sono la causa principale della schiavitù della donna e della sua oppressione di sesso. E quindi che la lotta per una vera uguaglianza fra donna e uomo e per la completa ed effettiva emancipazione della donna passa inevitabilmente dalla lotta di classe contro il capitalismo e per il socialismo.
Noi non neghiamo, come non l'hanno mai negato i Maestri del proletariato internazionale, l'esistenza della contraddizione fra i sessi e più esplicitamente l'oppressione del sesso femminile da parte di quello, maschile. Ma consideriamo però che tale contraddizione sia del tutto secondaria e conseguente alla contraddizione di classe.
Marx ed Engels hanno dimostrato come "Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante" . Anche il rapporto uomo-donna quindi non è determinato dalla volontà dell'uno o dell'altro sesso ma dall'impronta che gli dà la classe che è al potere. Di conseguenza la contraddizione donna-uomo non può essere risolta con la lotta fra i sessi, o semplicemente con la lotta alla sovrastruttura ideologica, morale e culturale borghese. Per modificare il rapporto fra i sessi e realizzare una piena parità tra la donna e l'uomo occorre scalzare dal potere la classe dominante borghese e ribaltare il sistema economico e produttivo capitalistico.
"Una reale equiparazione dei diritti dell'uomo e della donna - dice Engels - può secondo la mia opinione, diventare una realtà solo quando sarà eliminato lo sfruttamento di entrambi i sessi da parte del capitalismo e le private faccende domestiche saranno state trasformate in una pubblica industria" . Cioè solo strappando la donna dalla schiavitù salariata e domestica è possibile risolvere anche la discriminazione familiare, personale, morale e sessuale ai suoi danni.
L'emancipazione della donna non si riduce quindi a una formale parità fra i sessi, e neanche, ammesso e non concesso che ciò sia realizzabile nel sistema capitalistico, alla partecipazione in massa delle donne al lavoro extradomestico, come cercano di dare ad intendere i traditori del marxismo.
L'emancipazione della donna è un processo rivoluzionario assai più profondo, al confronto del quale le teorizzazioni riformiste e femministe appaiono meschine e ridicole. Essa mira a liberare le masse femminili da tutte le catene del capitalismo: la schiavitù salariata, la schiavitù domestica, il dominio ideologico, politico, culturale e sessuale della borghesia, l'oppressione di sesso all'interno della famiglia e della società. Ecco perché la sorte dell'emancipazione della donna è legata indissolubilmente a quella del proletariato e del suo Partito che si propongono di far tabula rasa del capitalismo.
Mao ha ribadito con forza tale concetto: "L'emancipazione della donna lavoratrice è inseparabile dalla vittoria della loro classe nel suo complesso. Solo quando la loro classe riporterà la vittoria potranno realmente emanciparsi". Questo però non significa che non si debba fin da subito lottare per l'emancipazione della donna. La lotta per l'emancipazione infatti comincia nel capitalismo, passa attraverso tutta una serie di conquiste intermedie di carattere economico, politico, sindacale e civile, subisce un salto di qualità con l'avvento del socialismo e imbocca la via della risoluzione con l'edificazione di questa nuova società.
Oggi la lotta per l'emancipazione della donna si concretizza soprattutto nello sviluppo della lotta di classe contro il governo e il capitalismo, nell'opposizione alla 2ª repubblica autoritaria e fascista e alle rinate mire espansioniste della borghesia italiana, nel conseguimento di nuove conquiste sul piano economico, sociale e civile a favore delle masse femminili. Ma perché questa lotta sia vincente occorre che esca dal terreno borghese e si trasformi in lotta cosciente per il socialismo. È il socialismo - così come l'ha disegnato il PMLI nel suo 3° Congresso nazionale - che libera le donne dalla schiavitù salariata e domestica, permette loro di partecipare a pieno titolo al lavoro produttivo, socializza il lavoro domestico e le fa uscire dall'emarginazione e dallo stato di inferiorità legalizzato.
È il socialismo che getta le basi di una società completamente nuova, il comunismo, dove non esisteranno né classi né lotta di classe e dove non vi sarà più bisogno di scrivere che l'uomo e la donna sono uguali, perché questo sarà già nelle cose, nel modo di pensare, di agire e di vivere di ognuno. Dobbiamo tenere alta la bandiera dell'emancipazione della donna e del socialismo e portarla con forza all'interno delle masse femminili e dell'intero movimento operaio. Tanto più oggi che il processo di deideologizzazione, decomunistizzazione e socialdemocratizzazione ha investito anche le masse femminili dando spazio al pacifismo, al parlamentarismo, al riformismo e al femminismo che hanno imposto loro di fatto una mentalità e una concezione del mondo liberale e borghese.
Siamo consapevoli di andare controcorrente e che sarà una lotta di lunga durata poiché troppo antica e profonda è l'opera di sconquasso e corruzione ideologici compiuta dalla borghesia e dai riformisti. Dovremo quindi sviluppare una dura e difficile lotta ideologica e politica fra le due linee in ogni campo e su ogni questione che riguardano le masse femminili affinché nel corso di questa lotta esse prendano coscienza della validità e della giustezza della nostra linea, se ne impadronisca​ no e la impugnino come un' arma di lotta per la loro emancipazione.
 
II - SOSTENERE E ORIENTARE LE LOTTE DELLE MASSE FEMMINILI PER IL LA VOR O, LA PARITÀ DEI SESSI, I SER VIZI SOCIALI
Se vogliamo far penetrare la linea proletaria rivoluzionaria del Partito fra le masse femminili, dobbiamo aiutarle a risolvere i loro problemi, sostenerle e orientarle nella lotta di classe.
Dobbiamo muoverci, specialmente le compagne, come pesci nell'acqua, fonderci con le masse femminili, sostenendone le rivendicazioni, stando alla testa e in posizione d'avanguardia delle loro lotte e contendendo palmo a palmo l'egemonia ai partiti avversari, operando abilmente per dare un orientamento politico antistituzionale e anticapitalistico ai movimenti di lotta femminili.
È soprattutto nel lavoro di massa e nella lotta di massa che il PMLI può conquistare gradualmente la fiducia delle masse femminili e divenire il loro paladino ascoltato e riconosciuto.
In particolare dobbiamo sostenere e orientare le lotte delle masse femminili per il lavoro, la parità dei sessi, i servizi sociali.
Il lavoro è l'elemento fondamentale per realizzare nella pratica la parità fra i sessi, per liberare la donna dai vincoli della subalternità domestica, perché le masse femminili incidano nella società, nel sindacato e nella politica e trasformino la loro concezione del mondo.
Siamo consapevoli che in questa società capitalistica il lavoro non potrà mai essere garantito a tutte le donne, che esso ha impresso il marchio della schiavitù salariata ed è fonte di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Tuttavia il lavoro rimane un obiettivo fondamentale e deve essere oggetto d una risoluta e conseguente lotta quotidiana, senza la quale non è possibile che avanzi il processo d'emancipazione della donna.
Attualmente ci sono tutte le condizioni oggettive perché si sviluppi nel nostro Paese un forte movimento contro la disoccupazione femminile e per il lavoro. Come dimostra la recente manifestazione nazionale di Napoli, a forza c'è per raggiungere questo obiettivo, purtroppo a causa dell'egemonia dei riformisti essa è mal diretta, mal orientata e mal utilizzata. È quindi necessario propagandare e far penetrare la nostra linea per il lavoro da contrapporre a quella neoliberista del governo e dei partiti del palazzo.
Noi rifiutiamo e combattiamo il part-time, il lavoro precario e a tempo determinato, il lavoro nero, stagionale e a domicilio, il caporalato e tutte le forme di supersfruttamento, sottoccupazione e sottosalario, mentre rivendichiamo un lavoro per tutte le donne, stabile e a salario pieno.
Per le casalinghe che non abbiano alcun reddito - salvo quello da pensione di reversibilità e da invalidità e dalla proprietà della prima casa - richiediamo una indennità di disoccupazione pari a 500 mila lire da revocare in caso di rifiuto di un lavoro extradomestico adeguato alle capacità effettive della casalinga.
Strettamente legata alla lotta per l'occupazione è quella per i servizi sociali. Dobbiamo batterci per la socializzazione del lavoro domestico che può liberare la donna per quanto sarà possibile dalla schiavitù domestica. Benché, s'intende, esista consapevolezza di ciò e volontà di lotta fra le larghe masse femminili e l'intero popolo lavoratore.
Noi dobbiamo fare tutto il possibile per aiutare le masse femminili ad organizzarsi e lanciare dei grandi movimenti di massa per i servizi sociali mancanti o insufficienti, asili nido, lavanderie e stiratorie pubbliche, mense popolari, centri sociali, consultori, trasporti. Dobbiamo spingere a rivendicare l'autogestione popolare dei servizi sociali, compresa la scuola, come unica garanzia per il loro buon funzionamento, per adeguarli alle esigenze della popolazione, per sottrarli alla privatizzazione, alla lottizzazione e alla speculazione dei partiti del palazzo. Nell'autogestione popolare dei servizi sociali, le donne devono avere un ruolo di protagoniste e di primo piano rivendicando una presenza almeno al 50% nei comitati di gestione dei servizi stessi.
Per svolgere bene il nostro lavoro di massa femminile e realizzare gli obiettivi che ci siamo prefissi, dobbiamo operare attivamente soprattutto fra le proletarie, le lavoratrici e le disoccupate, fra le donne delle periferie urbane e fra le studentesse e le giovanissime, al fine di realizzare un fronte più largo possibile nella lotta per il lavoro, i servizi sociali, la parità fra i sessi in ogni campo della vita economica, sociale, politica e scolastica.
Secondo le forze di cui disponiamo e le priorità stabilite dobbiamo lavorare negli organismi di massa femminili egemonizzati o non dai revisionisti, nella CGIL, nelle Case del popolo e nei movimenti di massa, in particolare in quello studentesco. Continuando però a lavorare negli organismi femminili creati dal Partito, sviluppandoli e promuovendone altri conformemente alle nostre necessità e alle sollecitazioni dirette provenienti dalle donne e dalla situazione oggettiva.
Non dobbiamo mai stancarci di portare avanti la nostra politica di fronte unito dovunque noi operiamo ricercando alleanze ed intese anche su obiettivi parziali e limitati con altri organismi e forze politiche e sociali.
In ogni caso dobbiamo sempre mirare ad unire ed egemonizzare la sinistra e attraverso essa trascinare e dirigere anche le forze intermedie e più arretrate. Dobbiamo inoltre coinvolgete gli elementi più attivi dei movimenti di massa nel lavoro di direzione, organizzazione e mobilitazione di massa.
Non è facile conquistare la testa dei movimenti di lotta femminili, ma ciò è possibile se terremo presente e utilizzeremo da maestri il sistema delle 7 leve, dei 4 obiettivi strategici e dei 4 insegnamenti.
 
lII - CONQUISTARE AL PARTITO LE DONNE SFRUTTATE E OPPRESSE E LE GIOVANISSIME
Come dimostrano i fatti, la lotta per l'emancipazione femminile, per il socialismo nel nostro Paese passa dal rafforzamento e dall'espansione del Partito su tutto il territorio nazionale. Ma il "PMLI non si rafforza e non si estende se nelle sue file non affluiscono, insieme agli operai e ai giovani rivoluzionari, anche folte schiere di donne rivoluzionarie e in particolare di ragazze disposte a battersi per la causa del socialismo.
La storia del nostro Paese, l'esperienza del movimento operaio nazionale e internazionale, recenti avvenimenti quale l'esplosione del movimento degli studenti dell'85 che ha visto le ragazze volgere un ruolo d'avanguardia, confermano la teoria marxista-leninista secondo cui le donne sono na forza decisiva per la vittoria o la sconfitta dei movimenti di massa e della rivoluzione socialista. Il PMLI se vuole crescere, rafforzarsi ed estendersi non può fare a meno di quella forza, di quella combattività, di quel contributo di idee e creatività che le masse femminili e le ragazze del nostro Paese hanno dimostrato di possedere.
Ma anche le donne sfruttate e oppresse hanno bisogno del PMLI perché esso è lo strumento fondamentale della loro emancipazione .
L'esperienza concreta insegna che seguendo i partiti di origine operaia che hanno tagliato i ponti col marxismo-leninismo e che ambiscono unicamente ad avere un posto nel governo capitali- stico nel rispetto della democrazia borghese, del parlamentarismo, del profitto, del mercato e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, è impossibile raggiungere l'emancipazione e il socialismo.
Le proposte riformiste del "governo di programma", dell"'alternativa democratica" e la sua variante dell"'alternativa di sinistra" servono solo a forgiare le catene degli schiavi moderni e a integrare e asservire il proletariato e le masse popolari, femminili e giovanili nel capitalismo.
Dobbiamo quindi far capire alle donne e alle ragazze più coscienti, avanzate e combattive che senza un partito rivoluzionario, senza una teoria rivoluzionaria, senza l'egemonia dei rivoluzionari non è possibile dare respiro strategico e continuità alla lotta delle masse femminili. Dobbiamo convincerle che solo se prenderanno posto in prima linea nel PMLI possono contribuire a far compiere un salto di qualità in senso anticapitalistico alla lotta per l'emancipazione femminile e legare saldamente questa lotta a quella dell'intero movimento operaio per il socialismo.
Le compagne soprattutto, con l'esempio, l'azione, la combattività, devono operare affinché le autentiche rivoluzionarie conoscano e apprezzino il PMLI e scelgano di militarvi, e al tempo stesso devono agire perché maturi a livello di massa anche fra le donne una coscienza proletaria rivoluzionaria e si affermi la necessità della lotta per il socialismo.
Nel lavoro di proselitismo al Partito e alla causa del socialismo, una particolare attenzione deve essere dedicata alle ragazze perché esse sono le più aperte e disponibili al nuovo, le meno condizionate dall'ideologia, dalla cultura e dalla politica borghesi. E appunto perché nutriamo una grande fiducia verso i giovanissimi, noi da oggi apriamo le porte del Partito alle ragazze e ai ragazzi di 14 anni.
Con questa decisione rivoluzionaria e lungimirante noi incoraggiamo le donne del domani a prendere fino da giovanissime in mano il timone dell'emancipazione femminile e a crescere come delle ribelli rivoluzionarie con una mentalità di rottura radicale verso le vecchie concezioni e la vecchia etica borghesi, animate da una nuova concezione del mondo, della vita, della donna, dei rapporti sociali, interpersonali e di coppia, delle ribelli rivoluzionarie cui non fa paura la lotta di classe e né assumersi tutte le responsabilità per divenire dirigenti delle masse femminili e giovanili.
Speriamo che molto presto, magari in occasione del decennale del Partito, qualche intraprendente ragazza quattordicenne abbia il coraggio e l'iniziativa di fare da battistrada ai coetanei di ambo i sessi. Il PMLI diventerà allora più forte e completo e potrà dire di essere davvero il Partito del proletariato, della rivoluzione socialista, della gioventù rivoluzionaria e dell'emancipazione della donna.
 
Il Comitato centrale del PMLI
 
Firenze, 1 marzo 1987