La Cassazione conferma la condanna dei due carabinieri per l'omicidio di Cucchi
Otto carabinieri, tra cui il generale Casarsa, condannati per depistaggi

 
Nella serata dello scorso 4 aprile, nel processo per l'uccisione di Stefano Cucchi, la Cassazione ha condannato in via definitiva a 12 anni di reclusione i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro, riconosciuti autori materiali dell'omicidio preterintenzionale, mentre i carabinieri Roberto Mandolini e Francesco Tedesco – imputati per aver mentito ai magistrati su ciò che è accaduto la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 nella caserma Casilina, quando il giovane romano era stato fermato dopo essere stato trovato con pochi grammi di droga – dovranno affrontare nuovamente il processo in Corte d'Assise d'Appello, ma solo per la rideterminazione della pena, in quanto la loro responsabilità penale è già stata definitivamente accertata. La sentenza oggetto del ricorso in Cassazione, emessa dalla Corte d'Assise d'Appello di Roma il 7 maggio 2021 aveva condannato a 13 anni Di Bernardo e D'Alessandro, mentre Mandolini e Tedesco erano stati rispettivamente condannati a 4 anni e a 2 anni e 6 mesi.
Tre giorni più tardi, il 7 aprile, il Tribunale di Roma ha condannato, stavolta in primo grado, altri otto appartenenti all’arma dei carabinieri nell'altro filone processuale relativo all'assassinio del geometra romano, quello relativo alla falsificazione, alterazione e sparizione dei documenti di servizio relativi a Cucchi. Gli otto carabinieri condannati sono stati riconosciuti, a vario titolo, responsabili dei gravissimi reati di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Per ciò che riguarda gli ufficiali, il generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti a capo del gruppo carabinieri di Roma, è stato condannato a cinque anni, il colonnello Lorenzo Sabatino, all'epoca comandante del nucleo operativo di Roma, a un anno e tre mesi, il colonnello Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti capoufficio del comando del gruppo carabinieri di Roma, a quattro anni, il maggiore Luciano Soligo, allora comandante della compagnia Talenti-Montesacro, a quattro anni e il capitano Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, a un anno e nove mesi. Il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, ex comandante della stazione romana di Tor Sapienza, è stato condannato a 1 anno e nove mesi insieme ad altri due carabinieri in servizio all'epoca nella stessa stazione, ovvero l'appuntato Francesco Di Sano, che è stato condannato a 1 anno e tre mesi, e il carabiniere Luca De Cianni, condannato a 2 anni.
La tragica vicenda per la quale sono stati condannati, a vario titolo come sopra si è visto, 12 carabinieri tra i quali anche alti ufficiali, è iniziata alle 23:30 del 15 ottobre 2009 quando al parco degli Acquedotti di Roma, nella zona orientale della capitale, una pattuglia di carabinieri arrestò il trentunenne geometra Stefano Cucchi perchè trovato in possesso di una minima quantità di sostanze stupefacenti.
Il giovane fu portato alla stazione di Roma Appia dei carabinieri e i genitori furono avvertiti di questo fatto in quanto gli stessi carabinieri condussero con loro il giovane presso la casa dei genitori, dove egli viveva, per effettuare una perquisizione domiciliare.
Secondo la versione dei carabinieri Stefano Cucchi fu poi riportato alla stazione Appia per poi essere trasferito nella caserma di Roma Tor Sapienza, dove c'era una camera di sicurezza, dove passò la notte. Quindi, la mattina successiva, il giovane geometra fu portato in Tribunale per la convalida dell'arresto.
Già all'udienza Cucchi zoppicava vistosamente e mostrava evidenti ematomi agli occhi.
Il giudice convalidò l'arresto e dispose la sua custodia nel carcere romano di Regina Coeli dove fece ingresso la stessa mattinata del 16 ottobre, da dove però fu trasportato alle 23 dello stesso giorno all'ospedale Fatebenefratelli, dove i sanitari accertarono ecchimosi alle gambe, al volto, all'addome e al torace, e inoltre fratture alla mandibola, a una vertebra e al coccige.
Riportato in carcere, l'aggravarsi delle sue condizioni rese necessario il suo ricovero all'ospedale romano Sandro Pertini, dove il geometra spirò all'alba del 22 ottobre successivo: al momento del decesso pesava solamente 37 chili.
Sua sorella e i suoi genitori andarono a vedere il suo corpo straziato all'obitorio e scattarono alcune foto, che furono subito pubblicate, e dalle quali l'Italia intera, e non solo, ebbe la certezza che Stefano Cucchi era stato selvaggiamente picchiato e brutalizzato a un punto tale da provocargli la morte.
Circa le responsabilità del violento pestaggio, l'alternativa era da subito tra la polizia penitenziaria o l'arma dei carabinieri.
Dopo una prima inchiesta e una serie di processi a carico di medici ed appartenenti alla polizia penitenziaria, conclusi tutti nel 2018 con il proscioglimento degli imputati dall'accusa di omicidio colposo, nel settembre 2015 la Procura della Repubblica di Roma aprì un fascicolo d'indagine sul caso ipotizzando che fossero stati i carabinieri gli autori del pestaggio, e tale pista investigativa ricevette immediato impulso: il legale della famiglia Cucchi infatti (ossia l'Avvocato Fabio Anselmo di Ferrara, che già si era occupato dell'assassinio di Federico Aldrovandi ad opera di quattro poliziotti) riferì al magistrato inquirente che un carabiniere, Riccardo Casamassima il quale all'epoca dell'arresto di Cucchi prestava servizio alla stazione di Roma Tor Vergata, aveva ricevuto minacce da altri carabinieri affinché testimoniasse il falso nel processo d'appello che ancora si stava svolgendo contro i medici e i poliziotti penitenziari.
Riccardo Casamassima così il 30 giugno 2015 rese spontanee dichiarazioni al magistrato inquirente circa confidenze che gli erano state fatte da carabinieri delle vicine stazioni Appia e Tor Sapienza, dove Cucchi aveva trascorso le ore dopo l'arresto. Il magistrato accertò in seguito che - contrariamente a quanto riportavano i documenti ufficiali e a quanto avevano raccontato alcuni carabinieri nel processo a carico dei poliziotti penitenziari e dei medici - dopo la perquisizione domiciliare Cucchi non fu immediatamente ricondotto nella stazione Appia, ma fu prima portato nella caserma della compagnia Roma Casilina dai carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco per il fotosegnalamento.
Lì Cucchi fu violentemente picchiato con pugni e calci dai carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro.
Il 17 gennaio 2017, alla conclusione delle indagini preliminari, la Procura di Roma chiese il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti di Di Bernardo, D’Alessandro e Tedesco, accusati di avere violentemente picchiato Cucchi con schiaffi, pugni e calci, facendolo cadere e procurandogli lesioni di tale gravità da portarlo poi alla morte. Tedesco e Mandolini - quest'ultimo era all'epoca comandante della stazione Roma Appia - dovettero anche rispondere dell'accusa di falso ideologico per l'omissione, nel verbale d'arresto, dei nomi di Di Bernardo e D'Alessandro, che secondo l'accusa aveva l'obiettivo di occultare le responsabilità di questi ultimi e dello stesso Tedesco per la morte di Stefano Cucchi. Gli stessi Tedesco e Mandolini, inoltre - insieme all'appuntato scelto Vincenzo Nicolardi, anch'egli all'epoca dei fatti in servizio presso la stazione Roma Appia – furono chiamati a rispondere anche dell'accusa di calunnia perché avevano già reso dichiarazioni false nel precedente processo a carico dei tre agenti della polizia penitenziaria, tentando così di contribuire alla condanna di persone che, di seguito, si sarebbero rivelate totalmente estranee a qualsiasi ipotesi delittuosa nel caso Cucchi.
Il 16 novembre 2017 iniziò così il processo davanti alla Corte d'Assise di Roma, durante il quale ci fu un ulteriore colpo di scena, perchè all'udienza dell'11 ottobre 2018 il Pubblico Ministero rese nota una denuncia penale presentata da Francesco Tedesco, il quale aveva riportato ciò che era successo nella caserma della compagnia Roma Casilina e aveva indicato Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro come gli autori materiali del pestaggio di Cucchi. Nella stessa udienza, inoltre, la pubblica accusa rese noto di avere nel frattempo scoperto vari tentativi di depistaggio delle indagini ad opera di appartenenti all'arma dei carabinieri.
Così la sentenza del 14 novembre 2019 emessa dalla Corte d'Assise di Roma condannò Di Bernardo e D’Alessandro per omicidio preterintenzionale, mentre Tedesco fu assolto dal reato di omicidio preterintenzionale, ma fu condannato a 2 anni e sei mesi di reclusione per falso, e per quest'ultimo reato fu condannato anche Mandolini alla pena di 3 anni e otto mesi di reclusione. Per quanto riguarda invece il reato di calunnia contestato a Tedesco, Mandolini e Nicolardi, essi furono assolti.
Il 7 maggio 2021 la Corte d'Assise di Appello di Roma riformò parzialmente la precedente sentenza aumentando le pene nei confronti di D'Alessandro e Di Bernardo (a ciascuno 13 anni di reclusione anziché 12) nonché di Mandolini (4 anni anziché 3 anni e otto mesi), confermando nel resto la sentenza della Corte di Assise.
La sentenza che la Cassazione ha emesso il 4 aprile scorso ha detto, infine, l'ultima parola su questo filone processuale, il principale, relativo all'assassinio di Stefano Cucchi.
Nel frattempo, come si è visto, erano emersi durante il processo principale numerosi elementi che convincevano sempre più che vi erano stati, da parte di appartenenti all'arma dei carabinieri, depistaggi consistenti in falsificazioni e sparizioni di documenti al fine di consentire, ai due autori materiali dell'omicidio, di farla franca: la Procura avviò così un'indagine che portò al rinvio a giudizio degli otto carabinieri, tutti condannati per fatti gravissimi con la sentenza dello scorso 7 aprile, come si è visto.
In un comunicato del comando generale dell'arma dei carabinieri si legge: “siamo vicini alla famiglia Cucchi, cui condividiamo il dolore e ai quali chiediamo di accogliere la nostra profonda sofferenza e il nostro rammarico. Ora che la giustizia ha definitamente terminato il suo corso, saranno sollecitamente conclusi, con il massimo rigore, i coerenti procedimenti disciplinari e amministrativi a carico dei militari condannati”.
Tale comunicato, per la sua tardività e banalità, assomiglia molto alla cancellazione nel 1992, da parte della Chiesa cattolica, della sentenza del Sant'Uffizio che condannò Galileo Galilei nel 1633, quando ormai da secoli era evidente a tutti che il sommo scienziato aveva ragione e la Chiesa torto: era, infatti, talmente evidente sin dalla pubblicazione delle prime foto del cadavere massacrato di Cucchi che questo sfortunato giovane era stato brutalmente ammazzato di botte che appare assai strano e sospetto che i vertici dell'arma – una struttura, quest'ultima, che fornisce gran parte del personale di polizia giudiziaria italiana - non abbiano mai neppure sospettato che ci potesse essere in tale massacro lo zampino di qualcuno di loro.
Così come, allo stesso modo, al comando generale non sarà certo sfuggito che Serena Mollicone non è morta di freddo, così come anche un bambino capisce perfettamente, osservando con raccapriccio i cadaveri di Giuseppe Uva e di Riccardo Magherini, che anche in questo caso la temperatura nulla c'entra con la loro morte.
Più complessa è la posizione della magistratura, alla quale, ovviamente, non è mai sfuggito il fatto che Cucchi è stato massacrato, ma ha commesso in un primo momento l'errore di andare a cercare i colpevoli nel corpo sbagliato (la polizia penitenziaria) anziché in quello giusto (l'arma dei carabinieri).
La realtà è ben più cruda e drammatica: qualsiasi istituzione potentato borghese che fondi il suo potere sul prestigio fa una grande fatica ad accettare, e soprattutto ad ammettere, che al proprio interno ci sia del marciume, e preferisce fare autocritica solo ed esclusivamente quando ormai non ha più scampo, perché la verità dei fatti è ormai assolutamente evidente.
Per l'esito del processo relativo alla morte di Stefano Cucchi - più che per iniziativa propria della magistratura e, meno che mai, dell'arma dei carabinieri - bisogna semmai riconoscere che solo ed esclusivamente la battaglia mediatica della famiglia di Stefano e quella legale del loro Avvocato hanno costretto le istituzioni ad ammettere una verità che - come le immagini messe a fuoco dal cannocchiale porto da Galileo al cardinal Bellarmino, e che quest'ultimo si rifiutò di usare – era evidente sin dal primo momento a tutti: cioè che questo giovane romano è stato selvaggiamente brutalizzato a tal punto che ne è derivata la morte in meno di una settimana.

13 aprile 2022