La “giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli alpini” rivaluta l'aggressione dell'Italia fascista all'Urss
Lo scopo recondito è quello di coinvolgere il popolo italiano nelle future guerre imperialiste

 
Lo scorso 5 aprile il Senato ha approvato con 189 voti favorevoli, un solo astenuto e nessuno contrario il disegno di legge n. S.1371 (già approvato alla Camera con identico testo il 25 giugno 2019 con il n. D.622 su proposta del deputato leghista Guglielmo Golinelli) contenente che istituisce, secondo le stesse parole del legislatore dello Stato borghese, la 'Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini'.
Gli articoli della legge approvata sono quanto mai eloquenti della sporca operazione in atto di rivalutazione del fascismo e di riscrittura della storia per turlupinare e infinocchiare le nuove e vecchie generazioni cercando di coinvolgerle nelle future guerre imperialiste. Il primo comma del primo articolo di quella che ormai è divenuta legge dello Stato dispone: “la Repubblica riconosce il giorno 26 gennaio di ciascun anno quale Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, al fine di conservare la memoria dell'eroismo dimostrato dal Corpo d'armata alpino nella battaglia di Nikolajewka durante la seconda guerra mondiale, nonché di promuovere i valori della difesa della sovranità e dell'interesse nazionale nonché dell'etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano”.
Il secondo comma dispone che le iniziative di commemorazione devono svolgersi di norma l'ultima domenica del mese di gennaio, e il secondo articolo dispone che, a livello provinciale, “gli organi competenti possono promuovere e organizzare cerimonie, eventi, incontri, conferenze storiche e mostre fotografiche, nonché testimonianze sull'importanza della difesa della sovranità nazionale, delle identità culturali e storiche, della tradizione e dei valori etici di solidarietà e di partecipazione civile che il Corpo degli alpini incarna”, specificando che dovrà essere coinvolta possibilmente l'associazione nazionale alpini.
Il terzo articolo prevede che comunque tale solennità non implica che il giorno sia dichiarato festività nazionale, il quarto stabilisce che “in considerazione dell'alto valore educativo, sociale e culturale della Giornata di cui all'articolo 1, gli istituti scolastici di ogni ordine e grado, nell'ambito della loro autonomia, possono promuovere iniziative per la celebrazione della Giornata medesima” e, infine, il quinto e ultimo articolo sancisce che le amministrazioni interessate a tali eventi vi provvederanno con le risorse a loro disposizione e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
 
La “battaglia di Nikolajewka”
Per comprendere il significato di tale provvedimento legislativo bisogna innanzitutto ricordare cos'è la “battaglia di Nikolajewka” cui fa riferimento il primo articolo della citata norma e in quale contesto bellico essa si sia svolta.
Questa località si trova oggi nella Federazione Russa, precisamente nell'oblast' di Belgorod, non lontano dai confini con l'Ucraina e il 26 gennaio 1943, data in cui si svolse la battaglia ricordata nel testo legislativo, faceva parte dell'Unione Sovietica, la quale un anno e mezzo prima – nel giugno 1941 – era stata militarmente aggredita dalla Germania di Hitler e dagli Stati ad essa alleati in quanto governati da regimi fascisti, e più precisamente: la Finlandia del feldmaresciallo Mannerheim, la Romania del maresciallo Antonescu, l'Ungheria dell'ammiraglio Horty, la Slovacchia di monsignor Tiso e l'Italia sotto il tallone di ferro di Benito Mussolini.
Il contingente italiano inviato nell'Unione Sovietica (dapprima, tra il luglio 1941 e il luglio 1942, Corpo di spedizione italiano in Russia, CSIR, di 62.000 uomini e poi, tra il luglio 1942 e il settembre 1943, Armata italiana in Russia, ARMIR, di 229.000 uomini) fu il più imponente come numero di uomini, di mezzi e di animali dopo quello tedesco, e operò nei territori dell'attuale Moldavia, Ucraina e Russia centromeridionale.
Fecero parte del contingente italiano tre divisioni alpine, la Cuneense, la Julia e la Tridentina, che all'inizio delle ostilità avanzarono insieme al resto del Regio Esercito giungendo, nel settembre 1942, alle pendici settentrionali del Caucaso mentre i tedeschi minacciavano Stalingrado, per poi subire nella seconda battaglia del Don, svoltasi tra l'11 dicembre e 1942 il 31 gennaio 1943, una rovinosa disfatta, ad opera dell'Armata Rossa, che veniva inferta negli stessi giorni della resa tedesca a Stalingrado, dove peraltro combatté anche un contingente italiano.
La battaglia di Nikolajewka, che si svolse in tale drammatico contesto, vide le forze italiane (le divisioni alpine Tridentina, Julia e Cuneense oltre alla divisione di fanteria Vicenza) combattere al fianco di due divisioni di fanteria del 24° corpo d'armata tedesco e di due divisioni del 7° corpo d'armata ungherese per forzare l'accerchiamento da parte di una divisione di fucilieri e due divisioni di cavalleria dell’Armata Rossa, e permettere ai resti del corpo d’armata alpino e alle residue unità tedesche di superare l’accerchiamento sovietico e ritirarsi. Gli italiani ebbero nella battaglia complessivamente oltre tremila morti (tra i quali il generale degli alpini Giulio Martinat) su un totale di caduti delle forze dell'Asse di 4.500 e si concluse con una vittoria tattica dell'Asse, consistente nello sfondamento dell'accerchiamento sovietico, per cui fu aperta la strada verso ovest agli ingenti resti delle truppe italiane, tedesche, ungheresi e romene che iniziavano così la tragica ritirata attraverso la Russia meridionale e l'Ucraina che avrebbe fatto decine di migliaia di morti a causa del freddo, degli stenti e della fame. Decisiva per la vittoria dell'Asse fu comunque l'azione delle due divisioni di fanteria tedesche (la 385a e la 387a del 24° corpo d'armata), mentre le forze italiane e l'ancor più ridotto contingente ungherese diedero un contributo di gran lunga inferiore all'esito della battaglia, per cui è un falso storico conclamato enfatizzare l'”eroismo dimostrato dal Corpo d'armata alpino nella battaglia di Nikolajewka”, come si legge nel primo articolo del citato disegno di legge, quasi a voler dimostrare che tale vittoria tattica fu una vittoria italiana e, soprattutto, degli alpini.
Al di là del singolo episodio della battaglia, comunque mistificatorio per i motivi sopra esposti, è inaccettabile il contesto bellico dal quale il legislatore italiano ha voluto trarre il pretesto per la glorificazione degli alpini, un contesto che costituisce tra le pagine più infami della storia di ogni tempo.
L'occupazione delle truppe dell'Asse nazifascista in territorio sovietico, per tutta la sua durata, fu una vera e propria carneficina sistematica ai danni delle popolazioni civili che abitavano i territori sovietici. Le truppe naziste (e insieme ad esse quelle finlandesi, ungheresi, slovacche, romene e italiane, senza dimenticare il supporto di collaborazionisti locali) durante l'occupazione del territorio sovietico incendiarono villaggi, distrussero città, deportarono milioni di ebrei e non solo nei campi di sterminio, assassinarono sul territorio altrettanti milioni di bielorussi, ucraini e russi, al punto che, alla fine della seconda guerra mondiale, la sola Unione Sovietica contò oltre 8 milioni di morti tra i militari, ma ne contò ben oltre 17 milioni tra la popolazione civile non combattente, un dato che da solo fa comprendere che l'Operazione Barbarossa è stato un vero e proprio tentativo di genocidio ai danni delle popolazioni sovietiche, con quasi il 15% di essa che perì tra il 1941 e il 1945.
Le truppe italiane, che furono il secondo contingente militare per importanza dopo quello tedesco, fecero la loro parte in questa abominevole operazione di sterminio e di terrore di massa ai danni delle popolazioni civili, e gli alpini non furono certo da meno.
Secondo le direttive degli alti comandi italiani ogni resistenza attiva o passiva della popolazione civile doveva essere repressa con metodi durissimi, come già era accaduto nell'Etiopia occupata pochi anni prima e stava accadendo nella Jugoslavia appena occupata.
In questa spietata opera di repressione si distinse il generale Gabriele Nasci, comandante del corpo alpino e ripetutamente indicato dalle autorità sovietiche come criminale di guerra dopo la fine del conflitto, il quale diede l’ordine di rispondere con rappresaglie di severità esemplare ad ogni atto ostile, fino al punto di prendere ostaggi e ucciderli nel caso fosse necessario. Numerosi documenti, lasciati in territorio sovietico dai militari italiani durante la frettolosa ritirata ed esaminati dagli storici locali, provano che le truppe italiane, comprese quelle alpine, consegnarono in molti casi ai nazisti i commissari politici dell'Armata Rossa, i partigiani, gli ebrei e i nomadi che venivano catturati, e noi sappiamo fin troppo bene che la loro destinazione erano il plotone di esecuzione o i campi di sterminio. Ampia documentazione di tali barbarie compiute dalle truppe italiane nell'Unione Sovietica era stata fornita, tra gli altri, da storici italiani dell'importanza di Bocca (Giorgio Bocca, Storia d'Italia nella guerra fascista. 1940-1943, Milano, 2017) e Rochat (Giorgio Rochat, Leopoli 1942-1943. Militari italiani dinanzi alla Shoà, in La rassegna mensile di Israel, n. 2, Roma, 2003), ma è lo storico tedesco Thomas Schlemmer che negli ultimi anni ha dato un forte impulso agli studi storici su quegli avvenimenti.
In un articolo a firma di Simonetta Fiori apparso su La Repubblica del 14 aprile 2005, egli dichiarava già allora che “effettivamente si sa di efferatezze commesse da soldati italiani non solo sulla popolazione civile, ma soprattutto nei confronti dei prigionieri di guerra. Nel dicembre del 1941 il membro di un'unità di riparazioni fu testimone di un terribile delitto: alcuni soldati sovietici furono bagnati con la benzina e poi bruciati da un gruppo di carabinieri italiani”. Schlemmer, in un suo saggio pubblicato in Germania nel 2005 e tradotto in italiano successivamente (Thomas Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Bari, 2009) ricorda che il 15 gennaio del 1943 – pochi giorni prima della battaglia di Nikolajewka – il comando del corpo d’armata alpino in Russia ordinò la fucilazione una trentina di militari dell'Armata Rossa caduti prigionieri nella città di Rossoš, nella Russia meridionale. Nello stesso testo si leggono ampi resoconti sui massacri avvenuti a febbraio 1943 nelle città ucraine di Snamenka e di Gorjanowski, dove l'intera popolazione (compresi anziani, donne e bambini) fu sterminata dalle truppe italiane comandate dal colonnello Mario Carloni del sesto reggimento bersaglieri.
La maggior parte dei militari italiani che si macchiarono di crimini di guerra in territorio sovietico riuscirono a farla franca e a rientrare in Italia, ma non tutti: infatti il ricercatore riminese Scotoni ha svolto un'accurata ricerca negli archivi sovietici (Giorgio Scotoni, Una lezione per Mussolini. Storia delle operazioni dell’Armata Rossa contro l’8ª Armata italiana negli anni della Grande guerra patria 1942-1943, Voronež, 2016), soprattutto in quelli della Russia meridionale dove tuttora si trovano moltissimi documenti che le truppe italiane in ritirata lasciarono sul posto, e che documentano le gravissime responsabilità del Regio Esercito.
Scotoni nel suo testo cita una nota del Ministero dell'Interno dell'URSS del 14 luglio 1947, a guerra ormai finita: “Per quanto riguarda 17 italiani – vi si legge - il Ministero dell'Interno dell'URSS dispone di materiale che li smaschera di atrocità sul territorio dell'Unione Sovietica, sulla base del quale sono stati detenuti prima di essere rimandati a casa. I restanti 11 italiani, tra i quali 3 generali e 5 ufficiali, furono detenuti come fascisti attivi”. I tre generali in questione erano Etelvoldo Pascolini, comandante della divisione di fanteria Vicenza, Emilio Battisti, comandante della divisione alpina Cuneense e Umberto Ricagno, comandante della divisione alpina Julia, che furono comunque rilasciati tre anni più tardi insieme al resto dei militari tranne uno, il capitano Guido Musitelli della divisione alpina Julia.
Quest'ultimo, ricorda sempre Scotoni nel suo testo, fu condannato il 27 luglio 1948 dal Tribunale della Regione Militare di Kiev a 25 anni di lavori forzati in quanto riconosciuto responsabile di una serie di delitti compiuti dal settembre 1942 all'11 gennaio 1943, quando fu catturato dai sovietici, nel villaggio di Sergeevka. Al processo ci furono decine di testimoni che lo accusarono di avere sistematicamente derubato le cooperative agricole della zona di ogni bene, di avere torturato due donne durante gli interrogatori e di avere fatto impiccare un contadino di un locale kolkoz per essersi rifiutato di lavorare.
Musitelli, comunque, potè ritornare in Italia nel 1954 insieme ad altri 28 militari italiani responsabili come lui di atti assai gravi e come lui internati.
Dopo la guerra il governo italiano fece di tutto per impedire procedimenti contro i militari italiani che avevano commesso crimini nei teatri di guerra, tra cui l'URSS, e la tesi che prevalse è che solo ed esclusivamente i tedeschi si erano macchiati di atrocità, ma ciò non era vero: nella logica della guerra fredda Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, per tenere l’Italia nel blocco occidentale, non avevano alcun interesse di perseguire crimini di guerra italiani commessi nei paesi comunisti e non solo, perchè l'imperatore di Etiopia in persona, pur filo occidentale, tentò invano per tutti gli anni Cinquanta di sollecitare la consegna di ufficiali italiani che si erano macchiati delle peggiori atrocità nel Paese africano.
Dalla devastante esperienza bellica nell'Unione Sovietica emersero alcune figure di scrittori come Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern che, avendo fatto parte del contingente degli alpini, maturarono una coscienza antifascista.
Alla luce di tutto questo si deve quindi rifiutare la commemorazione del 26 gennaio voluta dal disegno di legge, anche perché essa, cadendo il giorno prima di quella in cui si celebra la liberazione del capo di sterminio di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa di Stalin, sembra quasi una provocazione ai danni di quest'ultima: deve essere categoricamente rifiutato, da parte di chiunque si professi antifascista, qualsiasi accostamento tra i carnefici e le vittime, tra coloro che condussero una guerra nazifascista e le vittime del nazifascismo, per cui chi onora e celebra la 'Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini' non può contemporaneamente recarsi alle Fosse Ardeatine, a Marzabotto, a Sant'Anna di Stazzema.
Il Partito Marxista Leninista Italiano insieme al suo organo Il Bolscevico , pertanto, uniscono il loro sdegno e la loro disapprovazione, per l'istituzione di tale festività, a quella di numerose associazioni tra le quali spiccano l'ANPI e l'ANED, l'Associazione Ex-Deportati nei campi nazisti: quest'ultima ha espresso, in una sua nota dell'8 aprile, “sconcerto e riprovazione” per una iniziativa legislativa ispirata a “una ideologia reazionaria” che ha provocato le sofferenze indicibili di cui la stessa associazione è testimone.
Celebrando una battaglia avvenuta nel contesto di una guerra di aggressione e di sterminio e celebrando un corpo militare che ha preso parte a tale guerra di aggressione e di sterminio il parlamento dello Stato borghese, ormai sempre più lontano dalla coscienza antifascista delle masse popolari, intende chiaramente preparare un terreno ideologico fertile al coinvolgimento emotivo del popolo italiano nelle future guerre imperialiste, come fu a suo tempo l'aggressione all'URSS.
Il terzo articolo del disegno di legge, infine, che prevede iniziative di celebrazione anche nelle scuole assomiglia molto al modello di educazione fascista, che durante il ventennio prevedeva l'assoluto coinvolgimento dei giovani nella propaganda militarista del regime.
Tutti i sinceri democratici e antifascisti e coloro che hanno a cuore la verità storica e riconoscono i crimini di guerra compiuti su tante vittime innocenti non possono che ripudiare con sdegno l'introduzione di una simile immondizia legislativa, che deve essere disattesa in ogni modo possibile in nome dell'antifascismo e dell'antimperialismo.

20 aprile 2022