La strategia dell'imperialismo americano contro il socialimperialismo cinese
Blinken: Dobbiamo rimanere concentrati sulla più seria sfida a lungo termine all'ordine internazionale rappresentata dalla Cina
Il segretario di Stato Usa sostiene che la Cina possiede il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per rimodellare l'ordine internazionale. Sintesi della strategia Usa: “Investire, allineare, competere”
Cina: "L'unico scopo è contenere lo sviluppo della Cina e mantenere l'egemonia degli Stati Uniti"

 
Il discorso del Segretario di Stato americano Antony Blinken del 26 maggio all'Università George Washington, il prestigioso ateneo privato a due passi dalla Casa Bianca, ha ribadito che per l'amministrazione Biden la sfida più seria e strategica al cosiddetto ordine internazionale, inteso come quello che ha visto la leadeship indiscussa degli Usa, è quella portata dalla Cina. Lo ha ripetuto il presidente Biden nel suo recente viaggio in Corea del Sud e Giappone mentre a Blinken è spettato il compito di illustrare quella che è la risposta americana, la strategia dell'imperialismo americano contro il socialimperialismo cinese, quella che porterà verso lo scontro diretto a tutto campo per il dominio del mondo.
Il segretario di stato americano liquidava con le solite rituali frasi i principi cari alla borghesia per imbellettare agli occhi dei popoli il suo sistema politico e economico, dal rispetto dei diritti umani alla libera circolazione di persone e idee ma soprattutto di merci e capitali; al rispetto dell'autodeterminazione dei popoli, della sovranità dei paesi e per la risoluzione pacifica delle controversie che sono negati nella pratica quotidiana della politica interna razzista e antipopolare e nella politica estera imperialista Usa qualunque sia l'inquilino, democratico o republicano, che comanda l'amministrazione alla Casa Bianca.
Sono quegli stessi principi e regole usati dal suo principale concorrente, il socialimperialismo cinese per sostenere la sua continua crescita, mentre l'imperialismo americano è nella sua fase di declino e vede che è in pericolo la sua leadeship mondiale. Ecco perché Blinken quando ricordava l'attuale ordine internazionale basato sul sistema di leggi, accordi, principi e istituzioni che il mondo si è dato dopo due guerre mondiali per gestire le relazioni tra gli Stati e i cui documenti fondanti includono la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti umani, sosteneva che è un ordine che "dobbiamo difendere e riformare". Da leggere come: va difeso quando è ancora funzionale alla leadeship dell'imperialismo americano, va "modernizzato" quando la ostacolano. La logica di Washington è quella che è del tutto normale se il Consiglio di sicurezza dell'Onu è bloccato dal solo veto Usa nelle condanne dei crimini del regime sionista di Tel Aviv contro il popolo palestinese mentre sarebbe impedito nelle sue funzioni quando Russia e Cina si coprono a vicenda per impedire una condanna internazionale; ovviamente a Mosca e Pechino il ragionamento imperialista è identico, a parti invertite, e inaccettabile in entrambi i casi.
 
L'aggressione russa all'Ucraina non ridimensiona la sfida strategica con la Cina
Blinken dedicava due frasi alla attualissima guerra provocata dall'aggressione russa all'Ucraina per dire che Putin rappresenta "una minaccia chiara e attuale" alle fondamenta dell'ordine internazionale, sbeffeggiava il presidente russo che non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi strategici e anzi ha spinto al ricompattamento della Nato, fra gli Usa e i suoi alleati. E passava alla questione centrale: "anche se la guerra del Presidente Putin continua, resteremo concentrati sulla più grave sfida a lungo termine all'ordine internazionale, rappresentata dalla Repubblica Popolare Cinese". Nello schema degli Usa il nuovo zar Putin è soprattutto l'alleato strategico del nuovo imperatore Xi Jinping, un alleato di Pechino da indebolire approfittando del passo compiuto da Mosca con la criminale aggressione all'Ucraina.
Quello di Blinken è un attacco frontale, diretto, senza giri di parole: "la Cina è l'unico Paese che ha l'intenzione di rimodellare l'ordine internazionale e ha, sempre più, il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo. La visione di Pechino ci allontanerebbe dai valori universali che hanno sostenuto gran parte del progresso mondiale negli ultimi 75 anni". O meglio punta a disarcionare il primato Usa in un confronto a tutto campo fino a un possibile scontro armato diretto che non è neanche in un lontano futuro, se mettiamo in fila gli indizi seminati anche solo nelle ultime settimane sulla questione di Taiwan quando il presidente americano Biden ha ammonito Xi Jinping di non seguire le orme di Putin perché sarebbe intervenuto a difesa di Taiwan come ha fatto in Ucraina. Se non l'Ucraina, che comunque è ancora un capitolo aperto a qualsiasi sviluppo, potrebbe essere Taiwan la scintilla che accende il terzo conflitto mondiale, così come l'attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 scatenò il primo conflitto al quale le potenze imperialiste di allora di stavano preparando da tempo.
Come gli Usa con Blinken quando sbandierava i risultati dell'ultimo anno dell'amministrazione Biden per rafforzare la propria economia e per aver costruito una "impareggiabile rete di alleati e partner per realizzare il futuro che cerchiamo". Di seguito ripeteva per l'ennesima volta "non siamo alla ricerca di un conflitto o di una nuova guerra fredda. Al contrario, siamo determinati a evitare entrambi" confermando che la politica della Casa Bianca va nella direzione opposta, costruisce nuove alleanza militari e economiche e prepara la guerra alla Cina.
 
La Cina, superpotenza in ascesa
Blinken prendeva atto che "oggi la Cina è una potenza globale con una portata, un'influenza e un'ambizione straordinarie", la seconda economia più grande del mondo ma soprattutto "ha rapidamente modernizzato le sue forze armate e intende diventare una forza combattente di primo livello con una portata globale. Ha annunciato l'ambizione di creare una sfera di influenza nell'Indo-Pacifico e di diventare la prima potenza mondiale", ossia è arrivata fino a poter mettere in discusione la supremazia Usa.
Non è difficile per Blinken attaccare Pechino su una politica cinese che sotto la presidenza del nuovo imperatore Xi Jinping è diventata più repressiva all'interno e più aggressiva all'estero, dalla repressione nello Xinjiang e a Hong Kong alle rivendicazioni marittime nel Mar Cinese Meridionale, dalle relazioni strategiche mantenute intatte con l'aggressore Putin alla sfida palese lanciata nei giorni precedenti col pattugliamento di bombardieri strategici cinesi e russi nella regione proprio mentre il Presidente Biden era in visita in Giappone.
In momenti come questi, la diplomazia è fondamentale sosteneva Blinken ma non indicava una via diplomatica alla risoluzione delle controversie con Pechino quanto ciò che era necessario fare per "modellare l'ambiente strategico intorno a Pechino per far progredire la nostra visione di un sistema internazionale" che è "aperto e inclusivo" ma solo per i partner imperialisti del blocco politico, economico e militare che accettano la leadeship Usa e la sua politica di contenimento della Cina. E ricordava che gli Usa hanno ancora "l'esercito più potente del pianeta".
Già sotto i due mandati della presidenza di Barack Obama dal 2009 al 2017, e della vicepresidenza di Biden, l'imperialismo americano aveva iniziato a ritenere prioritaria la sfida con Pechino nella regione dell'Asia-Pacifico, che ora diventa dell'Indo-Pacifico per tirare dentro anche l'India di Modi ed è urgente perché "il Presidente Biden ritiene che questo decennio sarà decisivo", spiegava Blinken. Che sintetizzava la strategia Usa in tre parole: “Investire, allineare, competere”.
Sosteneva Blinken che "investiremo nelle fondamenta della nostra forza qui a casa, la nostra competitività, la nostra innovazione, la nostra democrazia. Allineeremo i nostri sforzi con la nostra rete di alleati e partner, agendo con uno scopo comune e per una causa comune. E sfruttando queste due risorse chiave, competeremo con la Cina per difendere i nostri interessi e costruire la nostra visione del futuro".
E spiegava che investire voleva dire tornare a sostenere l'industria nazionale, un'investimento strategico a favore di ricerca, sviluppo e produzione avanzate; una inversione di marcia rispetto alle delocalizzazioni delle produzioni in Cina alla ricerca del massimo profitto per le multinazionali americane ma che ha posto le basi della crescita esponenziale dell'economia della concorente cinese divenuta la fabbrica del mondo. "Sessant'anni fa, il nostro governo spendeva per la ricerca una percentuale della nostra economia più che doppia rispetto a quella attuale. È così che abbiamo vinto la corsa allo spazio, inventato i semiconduttori, costruito Internet. Eravamo i primi al mondo in termini di R&S in proporzione al PIL, ora siamo al nono posto. Nel frattempo, la Cina è passata dall'ottavo al secondo posto" e occorre invertire questa tendenza, spiegava Blinken annunciando "investimenti storici nella ricerca e nell'innovazione" anche nei nuovi settori dell'intelligenza artificiale, la biotecnologia e il calcolo quantistico dove "Pechino è determinata a primeggiare". Gli Usa sarebbero ancora in vantaggio e possono dettare loro le condizioni di sviluppo e utilizzo delle tecnologie del futuro che così saranno "radicate nei valori democratici e non in quelli autoritari", ossia sotto il controllo dell'imperialismo americano e non del socialimperialismo cinese. Sempre di imperialismo nemico dei popoli si tratta, sia quello dell'Ovest che si autodefinisce "democratico" che il rivale dell'Est che chiama "autoritario".
 
Rafforzare la rete di alleanze economiche e militari degli Usa
Il secondo pilastro della strategia Usa è l'allineamento dei partner perseguito fin dal primo giorno del suo insediamento dall'amministrazione Biden, ricordava Blinken, per porre rimedio allo smantellamento dei rapporti avviato dal predecessore Trump e rivitalizzare "l'impareggiabile rete americana di alleanze e partenariati e per impegnarsi nuovamente nelle istituzioni internazionali"; per creare nuove coalizioni, vedi quelle "nella regione indo-pacifica, dove le nostre relazioni, comprese le nostre alleanze, sono tra le più forti al mondo", citava Blinken, che metteva in risalto quelle dirette contro la Cina. Della Nato impegnata in Europa aveva già parlato in precedenza ma in questa parte del discorso che riguarda il futuro della politica dell'imperialismo americano Blinken sottolineava non a caso quelle dall'altra parte del mondo indirizzate contro la Cina che illustrava in dettaglio una per una, dalla rinvigorita alleanza strategica col Giappone a quella con la Corea del Sud, alle nuove alleanze militari come l'Aukus, il nuovo partenariato di sicurezza tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, o politico militari come il Quad formato da Australia, Giappone, India e Stati Uniti. Fino alla nuovissima proposta di blocco economico asiatico a guida Usa presentata da Biden in Giappone, quell'Indo-Pacific Economic Framework (IPEF) che non è una nuova area di libero scambio ma un vero e proprio blocco economico tra partner contrapposto a quello della rivale: il libero mercato, la libera concorrenza sono delle bandiere sventolate dal capitalismo finché servono a perpetuare il dominio delle potenze economiche più forti per asservire risorse e mercati dei paesi poveri e in via di sviluppo e tenere a bada i concorernti ma sono anche velocemente riposte non appena diventa necessario alzare barriere protezionistiche o creare blocchi.
Sempre nel nome della difesa della "nostra democrazia" costruita sulla base della presunta superiorità del "modello americano" Blinken passava in rassegna i "successi" recenti dell'imperialismo americano a partire dall'aver rasserenato i rapporti con l'Europa e registrava la fine di 17 anni di guerra commerciale sugli aeromobili e quella su acciaio e alluminio, il lancio lo scorso anno del Consiglio per il commercio e la tecnologia tra Stati Uniti e Unione Europea che riunisce il peso di quasi il 50% del PIL mondiale, e l'avvio di una discussione tra le due sponde dell'Atlantico per definire accordi di protezione "delle nostre industrie dagli sforzi deliberati di Pechino per distorcere il mercato a suo vantaggio". Nella narrazione di Blinken viagggiano a gonfie vele il G20 e il G7 grazie alla guida Usa, la lotta alla pandemia e infine come non ricordare che "in un momento di grandi prove, noi e i nostri alleati abbiamo rianimato la NATO, che ora è più forte che mai".
Dopo aver tirato più volte la riga per delimitare nettamente il campo tra noi "democratici" e loro "autoritari", l'ipocrita Blinken si esercitava nell'arte del dialogo e della diplomazia per sostenere che "non ci aspettiamo che tutti i Paesi abbiano la nostra stessa valutazione della Cina (anche fra alleati vige la regola della difesa degli interessi imperialisti della propria borghesia, ndr). Sappiamo che molti Paesi - compresi gli Stati Uniti - hanno legami economici o interpersonali vitali con la Cina che vogliono preservare. Non si tratta di costringere i Paesi a scegliere. Si tratta di dare loro una scelta". Una scelta che sembrerebbe libera ma che invece dovrebbe rispondere ai canoni dettati dalla Casa Bianca: "che non sia un investimento opaco che lascia i Paesi indebitati, alimenta la corruzione, danneggia l'ambiente, non crea posti di lavoro o crescita a livello locale e compromette l'esercizio della loro sovranità". A dire il vero il decalogo di Blinken corrisponde in toto anzitutto al comportamento neocoloniale delle multinazionali, prime fra tutte quelle americane, che casomai vedono erodere il loro dominio nella globalizzazione da quelle cinesi che usano le stesse armi, in nome della libera concorrenza tra superpotenze capitaliste a questo punto di pari grado.
Altro tema che consoliderebbe l'allineamento tra partner imperialisti occidentali è quello della difesa dei diritti umani, sosteneva Blinken che scorreva spedito sulle evidenti caratteristiche repressive interne del regime socialimperialista cinese, quelle nello Xinjiang, a Hong Kong e Tibet sulle quali Pechino non vuole intromissioini perché le definisce questioni interne.
 
Gli Usa tornino “all'avanguardia” sul fronte tecnologico, economico e militare
Il terzo elemento della strategia americana è quello della competizione con la Cina. "Grazie a maggiori investimenti in patria e a un maggiore allineamento con alleati e partner, siamo ben posizionati per superare la Cina in settori chiave", ricordava Blinken, che indirettamente ammetteva il sorpasso cinese in settori economici importanti. Pechino "vuole porsi al centro dell'innovazione e della produzione globale" e per vincere questa gara starebbe usando qualsiasi arma, dalla concorrenza sleale alimentata dai finanziamenti statali per conquistare spazi sui mercati allo spionaggio industriale nelle "nostre economie aperte", per progredire sia nello sviluppo di nuove armi che nel legare economicamente a se altri paesi e far seguire alla loro dipendenza tecnologica quella politica. Non c'è dubbio che la nuova Via della Seta dalla Cina all'Europa, con ramificazioni laterali in Africa, sia il cordone ombelicale del socialimperialismo cinese per costruire la sua rete di alleanze e controllo degli altri paesi connessi, sottraendoli alla rivale Usa.
Occorre anzitutto "salvaguardare la nostra competitività tecnologica" con nuovi e più forti controlli sulle esportazioni, migliori difese informatiche e "misure di controllo degli investimenti più severe per difendere le aziende e i Paesi dagli sforzi di Pechino di accedere a tecnologie, dati o infrastrutture critiche sensibili, compromettere le nostre catene di approvvigionamento o dominare settori strategici chiave", elencava il segretario di Stato ricordando a quei paesi o settori della borghesia che per i propri interessi capitalistici vogliono comunque fare affari con la Cina che "il prezzo di ammissione al mercato cinese non debba essere il sacrificio dei nostri valori fondamentali o dei vantaggi competitivi e tecnologici a lungo termine". Una ammonizione che diventava subito dopo una minaccia quando Blinken ricordava che queste imprese dovrebbero collaborare "con noi non solo per proteggere ma anche per rafforzare la nostra sicurezza nazionale". La difesa della sicurezza nazionale è la formula magica dell'imperialsmo americano per dare una impossibile patina di legalità a ingerenze e aggressioni militari in ogni parte del mondo. A questo porterà lo scontro tra Usa e Cina, financo seguendo il percorso che sembrerebbe pacifico e virtuoso di Blinken quando ripeteva che "la concorrenza non deve necessariamente portare al conflitto. Non lo cerchiamo. Lavoreremo per evitarlo. Ma difenderemo i nostri interessi da qualsiasi minaccia", lo stesso ritornello raccontato a parti invertite a Pechino.
Non seguiva certo la linea diplomatica quell'indicazione di Biden al Pentagono di "considerare la Cina una sfida da affrontare" e di garantire che "le nostre forze armate siano all'avanguardia" ricordate dal segretario di Stato, come quella di passare dal concetto di deterrenza nucleare della guerra fredda a "un nuovo approccio che chiamiamo 'deterrenza integrata': coinvolgendo alleati e partner, lavorando attraverso i domini convenzionali, nucleari, spaziali e informativi, attingendo ai nostri punti di forza nell'economia, nella tecnologia e nella diplomazia". Tutto quanto è necessario per compattare gli imperialisti dell'Ovest sotto la guida degli Usa e pronti a scagliarsi contro quelli dell'Est.
Questo per Blinken vorrebbe dire "preservare la pace", ossia preparare la guerra imperialista con l'adeguamento degli arsenali militari ancora pieni di armi "progettate per i conflitti del XX secolo" e non più adeguate, come sta evidenziando la guerra in Ucraina; adesso servono "sistemi asimmetrici a più lungo raggio, più difficili da trovare e più facili da spostare" per una guerra in terra, cielo, aria, nella rete e nello spazio.
Il terreno di scontro già pronto è quello del Mar Cinese Meridionale e Orientale dove, diceva Blinken, "continueremo ad opporci alle attività aggressive e illegali di Pechino", che è vero minacciano i diritti marittimi degli Stati costieri della regione ma all'imperialismo americano più che "sostenere la libertà di navigazione e di sorvolo" interessa bloccare l'espansionismo cinese, impedirgli di costruire nuove basi e mantenere il rapporto militare ancora a suo favore il più a lungo possibile.
Il punto centrale dello scontro Usa-Cina è al momento la questione di Taiwan. Gli Stati Uniti restano impegnati nella loro politica di "una sola Cina", come concordato con Pechino secondo il Taiwan Relations Act del 1979 e atti successivi, che tra l'altro permettono a Washington di "assistere (armare, ndr) Taiwan nel mantenimento di una sufficiente capacità di autodifesa", ricordava Blinken ma si oppongono "a qualsiasi cambiamento unilaterale dello status quo da entrambe le parti". Detto in altre parole vuol dire che l'imperialismo americano avvisa Pechino di non forzare i tempi come su Hong Kong o peggio seguire l'esempio di Putin in Ucraina perché reagirebbe allo stesso modo e intanto adopera strumentalmente la questione di Taiwan contro l'espansionismo di Pechino .
Poggiato il fucile accanto al podio Blinken prendeva in mano l'ulivo e sosteneva che pur a fronte di una intensa competizione, Usa e Cina possono comunque collaborare su vari temi a partire dalla difesa del clima. Una pura declamazione senza nessuna conseguenza che inverta la distruzione del pianeta e che accomuna il primo paese inquinatore del mondo, la Cina che è arrivata in testa e ha relegato al secondo posto gli Stati Uniti. Altri temi di collaborazione tra le due superpotenze, secondo gli Usa, sono la lotta alla pandemia e al narcotraffico, la non proliferazione e il controllo delle armi nucleari, ovviamente non le loro ma quelle di Iran e Corea del Nord.
Arrivato alle conclusioni Blinken annunciava la costituzione nel suo dipartimento di "una China House, un team integrato a livello di Dipartimento che coordinerà e attuerà la nostra politica in tutte le questioni e le regioni" dato che "le dimensioni e la portata della sfida posta dalla Repubblica Popolare Cinese metteranno alla prova la diplomazia americana come mai prima d'ora". E via due battute per chiudere. "Come dice spesso il Presidente Biden, non è mai una buona scommessa scommettere contro l'America", come dire non ci sfidate tanto non vincerete. Rivolto al popolo cinese sosteneva che "non c'è motivo per cui le nostre grandi nazioni non possano coesistere pacificamente e condividere e contribuire insieme al progresso umano", che sarebbe più che giusto se fossero due grandi nazioni socialiste e non due superpotenze imperialiste tra l'altro impegnate a costruire le migliori reciproche condizioni per vicere lo scontro per il dominio del mondo.
 
Il socialimperialismo cinese contro “l'egemonia degli Stati Uniti”
Ai tamburi di guerra suonati da Blinken rispondeva a tono il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin, il 27 maggio e dichiarava che l'unico scopo della strategia americana "è contenere lo sviluppo della Cina e mantenere l'egemonia degli Stati Uniti" perché la Cina non sarebbe "la più grave sfida a lungo termine all'ordine internazionale" ma "era, è e rimarrà un difensore dell'ordine internazionale incentrato sull'ONU, basato sul diritto internazionale e le norme fondamentali che regolano le relazioni internazionali sostenute dagli scopi e dai principi della Carta delle Nazioni Unite"; un discorso fotocopia di quello Usa, come dire che è Pechino nel giusto e non viceversa. Il cosiddetto "ordine internazionale basato sulle regole" e rivendicato dagli Stati Uniti, rilanciava infatti Wenbin "non è altro che un insieme di 'regole interne' stabilite dagli Stati Uniti e da una manciata di altri Paesi per mantenere il cosiddetto 'ordine' guidato dagli Stati Uniti. Gli Stati Uniti mettono sempre il loro diritto interno al di sopra del diritto internazionale e scelgono le regole internazionali come meglio credono in modo pragmatico. Questa è la principale fonte di instabilità dell'ordine internazionale".
Era facile per il rappresentante cinese di ribaltare le accuse sugli Stati Uniti che "con il loro deplorevole curriculum hanno un enorme deficit di democrazia e diritti umani" e "non sono in grado di atteggiarsi a guardiani della democrazia e dei diritti umani e di criticare altri Paesi su questi temi". Come se la teoria dal così fan tutti assolvesse socialimperialismo cinese e imperialismo americano dai loro crimini.
"La chiave per uscire da questa situazione è che gli Stati Uniti abbandonino la mania dei giochi a somma zero, rinuncino all'ossessione di accerchiare e contenere la Cina e smettano di minare le relazioni tra Cina e Stati Uniti", concludeva Wenbin, nel tentativo di negare che proprio l'ordine internazionale egemonizzato dagli Usa è quello che il socialimperialismo cinese vuol modificre a proprio favore. Come vuole forzare la mano, dopo Hong Kong, sulla questione di Taiwan tenuta all'ordine del giorno con i frequentissimi i passaggi provocatori di aerei e navi militari cinesi attorno e talvolta dentro lo spazio aereo dell'isola che è al centro della cintura militare, costruita da Washington sull'arco, che parte dalla Corea del Sud e arriva all'Indonesia passando da Giappone e Filippine e che gli impedisce di dilagare nel Pacifico. Pechino intanto ha provato a aggirarla con lo sviluppo di rapporti e alleanze in particolare coi paesi insulari del Pacifico, sulla base di aiuti sotto varie forme se in cambio toglievano a Taiwan il riconoscimento dello status di nazione indipendente, un riconoscimento che é rimasto al momento valido solo per quattro paesi, Palau, Isole Marshall, Nauru e Tuvalu.
Non portava a casa risultati concreti il viaggio dal 25 maggio al 4 giugno tra le isole Fiji, Kiribati, Papua Nuova Guinea, Samoa, Timor Est, Tonga e Vanuatu del ministro degli Esteri Wang Yi con la proposta di accordi quinquennali che permetterebbero al governo cinese di fornire addestramento alle polizie locali e prevedrebbe una cooperazione in vari campi, dal supporto informatico allo sviluppo di infrastrutture. Anzi il 26 maggio le Fiji aderivano come quattordicesimo membro fondatore al blocco economico sponsorizzato da Biden.
E intanto va avanti il primo accordo stipulato con le Isole Salomone che consente a Pechino anche l'invio di uomini e mezzi nell'arcipelago a protezione dei propri interessi economici e forse anche la costruzione di una base militare. Nulla ancora in confronto al pullulare di quelle dell'imperialismo americano nella regione ma è un segnale che la sfida è accolta e rilanciata. A conferma che l'imperialismo, qualsiasi sia la sua faccia, è il nemico mortale di tutti i popoli del mondo.

8 giugno 2022