Studio della Fondazione Di Vittorio
Salari italiani sempre più poveri
I lavoratori del nostro paese guadagnano annualmente 15mila euro in meno dei tedeschi e 10mila meno dei francesi

L'inadeguatezza dei salari italiani ha raggiunto livelli insostenibili, diventando una vera e propria “questione nazionale” che richiede urgentemente un'inversione di tendenza. L'impennata dell'inflazione che c'è stata negli ultimi mesi ha riacceso il dibattito, ma il problema dei bassi salari viene da lontano. Il nostro Paese storicamente è stato, per così dire, “competitivo” anche grazie a un minor sviluppo economico rispetto a quello di molte nazioni europee e a una moneta, la lira, di basso valore e continuamente svalutata, che permetteva la produzione di beni a costi minori rispetto a Germania, Francia, Olanda, ecc.
L'introduzione della moneta unica e la globalizzazione dei mercati hanno di fatto vanificato questo “vantaggio”, facendo allo stesso tempo cadere molti luoghi comuni che dipingevano l'Italia come un paese dove il “costo del lavoro” era troppo alto rispetto ad un costo della vita modesto. L'utilizzo della stessa moneta ha rivelato che i nostri stipendi erano tra i più bassi d'Europa e prezzi e tariffe non avevano niente da invidiare a quelli di Germania, Francia e dei cosiddetti paesi ricchi.
Con questo non intendiamo dire che la colpa sia da addossare esclusivamente all'euro. L'abolizione totale nel 1991 di un meccanismo automatico di recupero come la scala mobile e una politica salariale basata sulla concertazione tra sindacati e governo, che stabilisce l'aggancio dei minimi contrattuali a obiettivi di inflazione condivisi, ha fatto sì che i salari dei lavoratori italiani subissero una lunghissima stagnazione e, di conseguenza, un impoverimento e un ritardo rispetto ai salari di altri paesi.
Perciò quello che emerge dallo studio della Fondazione Di Vittorio (FDV) non meraviglia affatto. I dati dell'istituto di ricerca della Cgil ci mostrano il divario abissale con le due economie più forti dell'Unione Europea, Germania e Francia. L'analisi prende in considerazione le nazioni con il maggiore Prodotto Interno Lordo (PIL) della UE, quindi anche Italia e Spagna. Diciamo subito che le dinamiche italiane sono del tutto simili a quelle del paese iberico, ritenuto uno tra i meno ricchi e sviluppati d'Europa.
Sono passati al setaccio gli stipendi degli anni 2019-2020-2021. Nell'anno passato in Germania il salario medio lordo annuo è stato di 44.468 euro che, dopo una lievissima flessione nel 2020, si colloca quasi mille euro sopra ai dati del 2019. Un lavoratore francese ha guadagnato 40.170 euro e anche qui, dopo una flessione nel 2020, si ritrova nuovamente sopra le cifre dell'anno 2019. In entrambi i casi gli stipendi, rispetto all'anno precedente la pandemia, sono aumentati di oltre il 2%.
In Italia e Spagna invece lo scorso anno gli stipendi medi sono stati rispettivamente di 29.440 e 27.404 euro. In risalita rispetto al 2020, dove avevano subito un calo di mille euro, ma non sufficiente a recuperare il livello salariale precedente l'emergenza pandemica, registrando una perdita rispetto al 2019 dello 0,6 e dello 0,7%. Anche la media dell'Eurozona guarda i salari italiani dall'alto in basso: 36.521 euro nel 2019, calati l'anno successivo, per poi risalire nel 2021 a 37.382 euro.
Dalla ricerca emergono altri dati significativi, come ad esempio l'inquadramento professionale che in Italia, rispetto a Germania e Francia, è più sbilanciato verso il basso perché i lavoratori italiani sono maggiormente occupati nel lavoro poco qualificato, al di là delle loro reali capacità professionali. Incide anche il lavoro a tempo determinato e il par-time involontario, che nel nostro paese sono tra i più alti d'Europa, ad eccezione proprio della Spagna.
Per la FDV, il divario salariale sempre più ampio con le nazioni più forti dell'Eurozona, è “il risultato di un sistema produttivo con bassa propensione all’innovazione e orientato a guadagnare competitività attraverso la riduzione dei costi di produzione, soprattutto tramite la compressione salariale, in particolare nelle micro e piccole imprese collocate in settori a basso valore aggiunto”. E conclude con “la necessità e l’urgenza di affrontare la questione salariale insieme al tema della qualità dell’occupazione. Per ridurre la diffusa e crescente precarietà, che ad aprile del 2022 ha toccato la drammatica quota di quasi 3,2 milioni di occupati a termine, la più alta mai registrata dal 1977, è fondamentale un intervento che diminuisca il numero di contratti non standard e ne limiti l’utilizzo, ridando centralità al contratto a tempo indeterminato e all’occupazione stabile. Inoltre, è indispensabile un intervento di politica economica che punti ad aumentare la qualità dell’occupazione attraverso la creazione, diretta ed indiretta, di posti di lavoro standard, a partire dai settori a più alto valore aggiunto”.
Sono parole ed analisi in larga parte condivisibili, ma che i sindacati confederali, compresa la Cgil di cui la FDV è espressione, non rispettano agendo di conseguenza. Se Cgil-Cisl-Uil di appiattiscono sul governo del banchiere massone Draghi, indicono uno sciopero isolato senza una mobilitazione seria, se i suoi segretari fanno grandi proclami su tv e giornali ma poi si accontentano delle briciole che concedono i padroni come si può pensare d'invertire la tendenza ad avere in Italia salari sempre più poveri?
Non basterà certo il salario minimo, che tutti adesso invocano e a cui anche il PMLI è favorevole, a colmare o accorciare il divario salariale con Germania e Francia: ci vogliono la lotta di classe e le lavoratrici e i lavoratori nelle piazze per difendere salari, pensioni e diritti.
 
 

15 giugno 2022