Marx-Engels: L'Ideologia tedesca

Pubblichiamo qui di seguito alcuni importanti passi de “L'Ideologia tedesca” scritta da Marx ed Engels dal settembre 1845 alla seconda metà del 1846, e pubblicata per la prima volta in lingua tedesca nel 1932 a cura dell'Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca.
Nella Prefazione a “Per la critica dell'economia politica” (1859), Marx racconta come egli ed Engels a Bruxelles nel 1845 decisero di “mettere in chiaro, con un lavoro comune (L'Ideologia tedesca, ndr), il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti, in realtà, con la nostra antecedente coscienza filosofica”.
Ma poiché l'opera non venne pubblicata, Marx rivela: “Abbandonammo tanto più volentieri il manoscritto alla rodente critica dei topi, in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era quello di veder chiaro in noi stessi.”
Prendiamo spunto da questo esempio di Marx ed Engels per far chiarezza in noi stessi leggendo e riflettendo sui fondamentali temi da essi trattati. Approfittando di questo periodo di ferie.
 
Prefazione [1]
 
Finora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a se stessi, intorno a ciò che essi sono o devono essere. In base alle loro idee di Dio, dell'uomo normale, ecc. essi hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono diventati più forti di loro. Essi, i creatori, si sono inchinati di fronte alle loro creature. Liberiamoli dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall'immaginazione, sotto il cui giogo essi languiscono. Ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri. Insegniamo loro a sostituire queste immaginazioni con pensieri che corrispondano all'essenza dell'uomo, dice uno; a comportarsi criticamente verso di esse, dice un altro; a togliersele dalla testa, dice un terzo, e la realtà ora esistente andrà in pezzi.
Queste fantasie innocenti e puerili formano il nucleo della moderna filosofia giovane-hegeliana, che in Germania non soltanto è accolta dal pubblico con orrore e reverenza, ma è anche messa in circolazione dagli stessi eroi filosofici con la maestosa coscienza della sua criminosa spregiudicatezza. Il primo volume di questa pubblicazione ha lo scopo di smascherare queste pecore che si credono lupi e che tali vengono considerate, di mostrare come esse altro non fanno che tener dietro, con i loro belati filosofici, alle idee dei borghesi tedeschi, come le bravate di questi filosofici esegeti rispecchino semplicemente la meschinità delle reali condizioni tedesche. Essa ha lo scopo di mettere in ridicolo e di toglier credito alla lotta filosofica con le ombre della realtà, che va a genio al sognatore e sonnacchioso popolo tedesco.
Una volta un valentuomo si immaginò che gli uomini annegassero nell'acqua soltanto perché ossessionati dal pensiero della gravità . Se si fossero tolti di mente questa idea, dimostrando per esempio che era un'idea superstiziosa, un'idea religiosa, si sarebbero liberati dal pericolo di annegare. Per tutta la vita costui combatté l'illusione della gravità, delle cui dannose conseguenze ogni statistica gli offriva nuove e abbondanti prove. Questo valentuomo era il tipo del nuovo filosofo rivoluzionario tedesco.
 
Feuerbach. Antitesi tra concezione materialistica e concezione idealistica
 
Secondo quanto vanno dicendo certi ideologi tedeschi, la Germania ha compiuto negli ultimi anni una rivoluzione senza confronti. Il processo di decomposizione del sistema hegeliano, iniziato con Strauss, si è sviluppato fino a diventare una fermentazione universale in cui sono trascinate tutte le «potenze del passato». Nel caos generale si sono formati potenti imperi, subito giunti al tramonto, si son fatti avanti per un momento eroi, ricacciati di nuovo nella tenebra da rivali più audaci e più potenti. È stata una rivoluzione di fronte alla quale quella francese è un giuoco da bambini, una lotta mondiale al cui confronto le lotte dei diadochi appaiono insignificanti. I principi si sono detronizzati a vicenda, gli eroi del pensiero si sono rovesciati l'un l'altro con furia inaudita, e nei tre anni dal 1842 al 1845 in Germania si è fatto pulizia più che altrove in tre secoli.
Tutto ciò sarebbe accaduto nel pensiero puro.
Si tratta certo di un avvenimento interessante: il processo di putrefazione dello spirito assoluto. Dopo che l'ultima scintilla di vita si spense, i diversi elementi di questo caput mortuum [2] entrarono in decomposizione, dettero origine a nuove combinazioni e formarono nuove sostanze. Gli industriali della filosofia, che fino a quel momento avevano vissuto dello sfruttamento dello spirito assoluto, si gettarono allora sulle nuove combinazioni. Ciascuno si applicò con la massima solerzia a rivendere al dettaglio la porzione che gli era toccata. Il che non poteva essere senza concorrenza. Dapprima questa fu sostenuta in maniera abbastanza borghese e pulita; più tardi, quando il mercato tedesco fu saturo e la merce non trovò alcun favore, nonostante tutti gli sforzi, sul mercato internazionale, l'affare fu guastato alla solita maniera tedesca con la produzione dozzinale e la contraffazione, il peggioramento della qualità, la sofisticazione della materia prima, la falsificazione delle etichette, le vendite fittizie, il giro delle cambiali e un sistema creditizio privo di ogni base reale. La concorrenza finì in una lotta accanita, che oggi ci viene presentata e decantata come un rivolgimento della storia universale, generatore dei risultati e delle conquiste più grandiosi.
Per apprezzare nel suo giusto valore questa ciarlataneria filosofica, che suscita un benefico sentimento nazionale persino nel petto del rispettabile borghese tedesco, per rendere evidente la meschinità, la grettezza provinciale di tutto questo movimento giovane-hegeliano, e in particolare il contrasto tragicomico tra il reale operato di questi eroi e le illusioni su di esso, è necessario osservare lo spettacolo nel suo insieme, da un punto di vista che si trova al di fuori della Germania.
 
A. L’ideologia in generale e in particolare l'ideologia tedesca
 
La critica tedesca non ha mai abbandonato, fino ai suoi ultimi sforzi, il terreno della filosofia. Ben lungi dall’indagare sui suoi presupposti filosofici generali, tutti quanti i suoi problemi sono nati anzi sul terreno di un sistema filosofico determinato, l’hegeliano. Non solo nelle risposte, ma già negli stessi problemi c’era una mistificazione. Questa dipendenza da Hegel è la ragione per cui nessuno di questi moderni critici ha neppure tentato una critica complessiva del sistema hegeliano, tanta è la convinzione, in ciascuno di essi, di essersi spinto oltre Hegel. La loro polemica contro Hegel e fra di loro si limita a questo, che ciascuno estrae un aspetto del sistema hegeliano e lo rivolge tanto contro l'intero sistema quanto contro gli aspetti che ne estraggono gli altri. Dapprima si estrassero categorie hegeliane pure, genuine come la sostanza e l'autocoscienza, poi si contaminarono queste categorie con nomi più profani, come Specie, l'Unico, l'Uomo, ecc.
Tutta la critica filosofica tedesca da Strauss fino a Stirner si limita alla critica delle rappresentazioni religiose . Si cominciò dalla religione reale e dalla teologia vera e propria. Che cosa fosse la coscienza religiosa, la rappresentazione religiosa, fu variamente definito in seguito. Il progresso consisteva nel sussumere sotto la sfera delle rappresentazioni religiose o teologiche anche le rappresentazioni metafisiche, politiche, giuridiche, morali, ecc. che si presumevano dominanti; nel proclamare cosi che la coscienza giuridica, politica, morale è coscienza religiosa o teologica, e che l'uomo politico, giuridico, morale, cioè «l'uomo», in ultima istanza, è religioso. Fu presupposto il predominio della religione. A poco a poco ogni rapporto dominante fu dichiarato rapporto di religione e trasformato in culto, culto del diritto, culto dello Stato e così via. Dappertutto sì aveva a che fare con dogmi e con la fede in dogmi. Il mondo fu canonizzato in misura sempre maggiore, finché da ultimo il venerabile san Max[3] poté canonizzarlo en bloc e liquidarlo una volta per tutte.
I Vecchi hegeliani avevano compreso qualsiasi cosa, non appena l'avevano ricondotta ad una categoria logica hegeliana. I Giovani hegeliani criticarono qualsiasi cosa scoprendo in essa idee religiose o definendola teologica. I Giovani hegeliani concordano con i Vecchi hegeliani in quanto credono al predominio della religione, dei concetti, dell'universale nel mondo esistente; solo che gli uni combattono quel predominio come usurpazione, mentre gli altri Io esaltano come legittimo.
Poiché questi Giovani hegeliani considerano le rappresentazioni, i pensieri, i concetti, e in genere i prodotti della coscienza, da loro fatta autonoma, come le vere catene degli uomini, così come i Vecchi hegeliani ne facevano i veri legami della società umana, s'intende facilmente che i Giovani hegeliani devono combattere soltanto contro queste illusioni della coscienza. Poiché secondo la loro fantasia le relazioni fra gli uomini, ogni loro fare e agire, i loro vincoli e i loro impedimenti sono prodotto della loro coscienza, i Giovani hegeliani coerentemente chiedono agli uomini, come postulato morale, di sostituire alla loro coscienza attuale la coscienza umana, politica o egoistica e di sbarazzarsi così dei loro impedimenti. Questa richiesta, di modificare la coscienza, conduce all'altra richiesta, di interpretare diversamente ciò che esiste, ossia di riconoscerlo mediante una diversa interpretazione. Nonostante le loro frasi che, secondo loro, «scuotono il mondo», gli ideologi giovani-hegeliani sono i più grandi conservatori. I più giovani tra loro hanno trovato l'espressione giusta per la loro attività, affermando di combattere soltanto contro delle «frasi» . Dimenticano soltanto che a queste frasi essi stessi non oppongono altro che frasi, e che non combattono il mondo realmente esistente quando combattono soltanto le frasi di questo mondo. I soli risultati ai quali questa critica filosofica poteva portare erano alcuni e per giunta parziali chiarimenti, nel campo della storia della religione, intorno al cristianesimo; tutte le altre loro asserzioni non sono che altri modi di abbellire la pretesa di aver compiuto, con quei chiarimenti insignificanti, scoperte di importanza storica universale.
A nessuno di questi filosofi, è venuto in mente di ricercare il nesso esistente tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro critica e il loro proprio ambiente materiale.
 
I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica.
Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l'esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l'organizzazione fisica di questi individui e il rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell'esame né della costituzione fisica dell'uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l'azione degli uomini.
Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione[4] per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.
Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell'attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione.
Questa produzione non appare che con l'aumento della popolazione . E presuppone a sua volta relazioni fra gli individui. La forma di queste relazioni a sua volta è condizionata dalla produzione.
I rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse ha sviluppato le loro forze produttive, la divisione del lavoro e le relazioni interne. Questa affermazione è generalmente accettata. Ma non soltanto il rapporto di una nazione con le altre, bensì anche l'intera organizzazione interna di questa stessa nazione dipende dal grado di sviluppo della sua produzione e delle sue relazioni interne ed esterne. Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione è indicato nella maniera più chiara dal grado di sviluppo a cui è giunta la divisione del lavoro. Ogni nuova forza produttiva, che non sia un'estensione puramente quantitativa delle forze produttive già note (per esempio di dissodamento di terreni), porta come conseguenza un nuovo sviluppo nella divisione del lavoro.
La divisione del lavoro all'interno di una nazione porta con sé innanzi tutto la separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con ciò la separazione fra città e campagna e il contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore sviluppo porta alla separazione del lavoro commerciale da quello industriale. In pari tempo, attraverso la divisione del lavoro all'interno di questi diversi rami, si sviluppano a loro volta suddivisioni diverse fra individui che cooperano a lavori determinati. La posizione reciproca di queste singole suddivisioni è condizionata dai metodi impiegati nel lavoro agricolo, industriale e commerciale (patriarcalismo, schiavitù, ordini, classi). Quando le relazioni sono più sviluppate, le stesse condizioni si manifestano nei rapporti fra diverse nazioni.
I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà; vale a dire, ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i rapporti fra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro.
La prima forma di proprietà è la proprietà tribale. Essa corrisponde a quel grado non ancora sviluppato della produzione in cui un popolo vive di caccia e di pesca, dell'allevamento del bestiame o al massimo dell'agricoltura. In quest'ultimo caso è presupposta una grande massa di terreni incolti. In questa fase la divisione del lavoro è ancora pochissimo sviluppata e non è che un prolungamento della divisione naturale del lavoro nella famiglia. L'organizzazione sociale quindi si limita ad essere un'estensione della famiglia: capi patriarcali della tribù, al di sotto di essi i membri della tribù, e infine gli schiavi. La schiavitù, latente nella famiglia, comincia a svilupparsi a poco a poco con l'aumento della popolazione e dei bisogni, e con l'allargarsi delle relazioni esterne, così della guerra come del baratto.
La seconda forma è la proprietà della comunità antica e dello Stato, che ha origine dall'unione di più tribù in una città , mediante patto o conquista, e in cui continua ad esistere la schiavitù. Accanto alla proprietà della comunità già si sviluppa la proprietà privata mobiliare e in seguito anche la immobiliare, che però è una forma anormale, subordinata alla proprietà della comunità. I membri dello Stato possiedono soltanto nella loro comunità il potere sui loro schiavi che lavorano, e già per questo sono legati alla forma della proprietà della comunità. È la proprietà privata posseduta in comune dai membri attivi dello Stato, i quali di fronte agli schiavi sono costretti a restare in questa forma naturale di associazione. Di conseguenza l'intera organizzazione sociale fondata su questa base, e con essa il potere del popolo, decadono nella misura in cui si sviluppa la proprietà privata immobiliare. La divisione del lavoro è già più sviluppata. Troviamo già l'antagonismo fra città e campagna, più tardi l'antagonismo fra Stati che rappresentano l'interesse della città e Stati che rappresentano quello della campagna, e all'interno delle stesse città l'antagonismo tra industria e commercio marittimo. Il rapporto di classe fra cittadini e schiavi è completamente sviluppato. Tutta questa concezione della storia sembra contraddetta dal fatto della conquista. Finora erano considerate forze motrici della storia la violenza, la guerra, il saccheggio, la rapina ecc. Possiamo qui limitarci ai punti principali e prendere quindi soltanto l'esempio che più balza agli occhi, la distruzione di un'antica civiltà ad opera di un popolo barbaro e il formarsi di una nuova organizzazione della società che ad essa si ricollega. (Roma e barbari, feudalesimo e Gallia, Impero Romano d'oriente e turchi). Nel popolo barbaro conquistatore la guerra stessa costituisce ancora, come già abbiamo accennato, una forma normale di relazioni, che viene sfruttata con tanto maggiore impegno quanto più l'aumento della popolazione, perdurando il rozzo modo di produzione tradizionale che per essa è l'unico possibile, crea il bisogno di nuovi mezzi di produzione. In Italia invece, a causa della concentrazione della proprietà fondiaria (provocata, oltre che dagli acquisti e dai debiti, anche dalle eredità, perché data la grande dissolutezza e i rari matrimoni le antiche stirpi a poco a poco si estinguevano e i loro beni finivano nelle mani di pochi) e della sua trasformazione in pascolo (la quale fu provocata, oltre che dalle cause economiche ordinarie, valide ancor oggi, dall'importazione di cereali ricavati da saccheggi o da tributi e dalla conseguente mancanza di consumatori per il grano italico), la popolazione libera era quasi scomparsa, gli stessi schiavi a loro volta scomparivano e dovevano essere continuamente sostituiti da schiavi nuovi. La schiavitù restava la base dell'intera produzione. I plebei, che stavano fra i liberi e gli schiavi, non riuscirono mai ad elevarsi al di sopra della condizione di sottoproletariato. Roma non fu mai niente di più che una città ed era legata alle province da un rapporto quasi esclusivamente politico che naturalmente poteva anche essere spezzato da avvenimenti politici.
Con lo sviluppo della proprietà privata appaiono qui per la prima volta quelle stesse condizioni che ritroveremo, soltanto in misura più estesa, nella proprietà privata moderna. Da una parte la concentrazione della proprietà privata, che a Roma cominciò molto presto (come prova la legge agraria licinia e procedette rapidamente a cominciare dalle guerre civili e soprattutto sotto gli imperatori; d'altra parte, e in relazione a ciò, la trasformazione dei piccoli contadini plebei in un proletariato che però, per la sua posizione intermedia fra cittadini possidenti e schiavi, non arrivò a uno sviluppo autonomo.
La terza forma è la proprietà feudale o degli ordini. Mentre l'antichità muoveva dalla città e dalla sua piccola cerchia, il Medioevo muoveva dalla campagna . La popolazione allora esistente, scarsa e dispersa su una vasta superficie, debolmente incrementata dai conquistatori, determinò questo spostamento del punto di partenza. Al contrario della Grecia e di Roma, lo sviluppo feudale comincia quindi su un terreno molto più esteso, preparato dalle conquiste romane e dalla diffusione dell'agricoltura che originariamente ne dipende. Gli ultimi secoli del cadente Impero Romano e la stessa conquista dei barbari distrussero una grande quantità di forze produttive; l'agricoltura era caduta in abbandono, l'industria rovinata per mancanza di sbocco, il commercio intorpidito o violentemente troncato, la popolazione della campagna e delle città era diminuita. Queste condizioni preesistenti e il modo come fu organizzata la conquista, da quelle condizionato, provocarono, sotto l'influenza della costituzione militare germanica, lo sviluppo della proprietà feudale. Come la proprietà tribale e la proprietà della comunità anch'essa poggia su una comunità alla quale sono contrapposti come classe direttamente produttrice non gli schiavi, come per la proprietà antica, bensì i piccoli contadini asserviti. Insieme col completo sviluppo del feudalesimo compare anche l'antagonismo con le città. L'organizzazione gerarchica del possesso fondiario e le relative compagnie armate davano alla nobiltà il potere sui servi della gleba. Questa organizzazione feudale era un'associazione opposta alle classi produttrici, precisamente come la proprietà della comunità antica; solo che la forma dell'associazione e il rapporto con i produttori diretti erano diversi, perché esistevano condizioni di produzione diverse.
A questa organizzazione feudale del possesso fondiario corrispondeva nelle città la proprietà corporativa, l'organizzazione feudale dell'artigianato. Qui la proprietà consisteva principalmente nel lavoro di ciascun singolo. La necessità di associarsi contro la rapace nobiltà associata, il bisogno di mercati coperti comuni in un tempo in cui l'industriale era insieme mercante, la crescente concorrenza dei servi della gleba fuggitivi che affluivano nelle città fiorenti, l'organizzazione feudale dell'intero paese, portarono alle corporazioni ; i piccoli capitali risparmiati a poco a poco da singoli artigiani e il loro numero stabile in seno a una popolazione crescente fecero sviluppare il rapporto di garzone e di apprendista, che dette origine a una gerarchia simile a quella esistente nelle campagne.
Nell'età feudale dunque la proprietà principale consisteva da una parte nella proprietà fondiaria col lavoro servile che vi era legato, dall'altra nel lavoro personale con un piccolo capitale che si assoggettava il lavoro dei garzoni. L'organizzazione dell'una e dell'altro era condizionata dalle ristrette condizioni della produzione: la limitata e rozza coltura della terra e l'industria di tipo artigianale. Durante il fiorire del feudalesimo la divisione del lavoro era assai limitata. Ogni paese portava in sé l'antagonismo di città e campagna; l'organizzazione in ordini era fortemente marcata, ma al di fuori della separazione fra principi, nobiltà, clero e contadini nelle campagne, e fra maestri, garzoni, apprendisti e ben presto anche plebei a giornata nelle città, non esisteva alcuna divisione di rilievo. Nell'agricoltura vi si opponeva la coltivazione parcellare, accanto alla quale sorgeva l'industria domestica degli stessi contadini, nell'industria il lavoro non era affatto diviso all'interno dei singoli mestieri, pochissimo diviso fra un mestiere e l'altro. La divisione fra industria e commercio preesisteva nelle città più antiche, mentre nelle nuove si sviluppava lentamente, quando fra esse si stabilivano rapporti.
L'unificazione di più vasti paesi in regni feudali era un bisogno tanto per la nobiltà terriera quanto per le città. L'organizzazione della classe dominante, la nobiltà, ebbe quindi dappertutto al suo vertice un monarca.
Il fatto è dunque il seguente: individui determinati che svolgono un'attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l'osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame fra l'organizzazione sociale e politica e la produzione. L'organizzazione sociale e lo Stato risultano costantemente dal processo della vita di individui determinati; ma di questi individui, non quali possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali sono realmente , cioè come operano e producono materialmente, e dunque agiscono fra limiti, presupposti e condizioni materiali determinate e indipendenti dalla loro volontà.
La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata alla attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico.
Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma sono gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro coscienza.
Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate. Non appena viene rappresentato questo processo di vita attivo, la storia cessa di essere una raccolta di fatti morti, come negli empiristi che sono anch’essi astratti, o un’azione immaginaria di soggetti immaginari, come negli idealisti.
Là dove cessa la speculazione, nella vita reale, comincia dunque la scienza reale e positiva, la rappresentazione dell’attività pratica, del processo pratico di sviluppo degli uomini. Cadono le frasi sulla coscienza e al loro posto deve subentrare il sapere reale. Con la rappresentazione della realtà la filosofia autonoma perde i suoi mezzi d’esistenza. Al suo posto può tutt’al più subentrare una sintesi dei risultati più generali che è possibile astrarre dall’esame dello sviluppo storico degli uomini. Di per sé, separate dalla storia reale, queste astrazioni non hanno assolutamente valore. Esse possono servire soltanto a facilitare l’ordinamento del materiale storico, a indicare la successione dei suoi singoli strati. Ma non danno affatto, come la filosofia, una ricetta o uno schema sui quali si possano ritagliare e sistemare le epoche storiche. La difficoltà comincia, al contrario, quando ci si dà allo studio e all’ordinamento del materiale, sia di un’epoca passata che del presente, a esporlo realmente. Il superamento di queste difficoltà è condizionato da presupposti che non possono affatto essere enunciati in questa sede, ma che risultano soltanto dallo studio del processo reale della vita e dell’azione degli individui di ciascuna epoca. Qui prenderemo alcune di queste astrazioni di cui ci serviamo nei confronti dell’ideologia e le illustreremo con esempi storici.
 

[1-] La storia
Con gente priva di presupposti come i tedeschi dobbiamo cominciare col constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, il presupposto cioè che per poter «fare storia» gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l'abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un'azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini. Anche riducendo la sensibilità al minimo magari a un bastone come nel caso di san Bruno[5], essa presuppone l'attività della produzione di questo bastone. In ogni concezione della storia dunque il primo punto è che si osservi questo dato di fatto fondamentale in tutta la sua importanza e in tutta la sua estensione e che gli si assegni il posto che gli spetta. Ma i tedeschi notoriamente non l'hanno mai fatto e perciò non hanno mai avuto una base terrena per la storia e di conseguenza non hanno mai avuto uno storico. I francesi e gli inglesi, pur avendo compreso tutt'al più in misura solo parziale il legame fra questo fatto e la cosiddetta storia, specialmente allorché si trovavano imprigionati nell'ideologia politica, hanno fatto però i primi tentativi per dare alla storiografia una base materialistica, scrivendo per primi storie della società civile, del commercio e dell'industria.
Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, l'azione del soddisfarlo e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica. Il che indica anche di che pasta sia fatta la grande saggezza storica dei tedeschi i quali, là dove viene loro a mancare il materiale positivo e non si agitano assurdità teologiche, politiche o letterarie, affermano che non ha luogo la storia ma i «tempi preistorici», senza però spiegarci come da questa assurdità della «preistoria» si passi nella storia vera e propria; nonostante che, d'altra parte, la loro speculazione storica ami in modo tutto speciale gettarsi su questa «preistoria», perché ritiene di trovarvisi più al sicuro dalle intromissioni del «fatto bruto» e insieme perché qui essa può allentare completamente le redini al suo impulso speculativo e creare e distruggere ipotesi a migliaia.
Il terzo rapporto che interviene fino dalle prime origini nello sviluppo storico, è che gli uomini, i quali rifanno ogni giorno la loro propria vita, cominciano a fare altri uomini, a riprodursi; è il rapporto fra uomo e donna, tra genitori e figli: la famiglia. Questa famiglia, che da principio è l'unico rapporto sociale, diventa più tardi, quando gli aumentati bisogni creano nuovi rapporti sociali e l'aumentato numero della popolazione crea nuovi bisogni, un rapporto subordinato (tranne che in Germania[6]) e deve allora essere trattata e spiegata in base ai dati empirici esistenti, non in base al «concetto della famiglia» come si suol fare in Germania. D’altronde questi tre aspetti dell’attività sociale non vanno concepiti come tre gradi diversi, ma appunto solo come tre aspetti, o come tre «momenti» (tanto per scrivere in maniera chiara per i tedeschi), i quali sono esistiti fin dall’inizio della storia e fin dai primi uomini e ancor oggi hanno il loro peso nella storia.
La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e per quale scopo. Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anche esso una «forza produttiva»; ne deriva che la quantità delle forze produttive accessibili agli uomini condiziona la situazione sociale e che dunque la «storia dell’umanità» deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e dello scambio. Ma è anche chiaro come in Germania sia impossibile scrivere la storia in questo modo, perché ai tedeschi mancano non soltanto la capacità intellettiva e il materiale necessari, ma anche la «certezza sensibile», e al di là del Reno non si possono fare esperienze di queste cose perché laggiù la storia non va più avanti. Appare già dunque, fin dall’origine, un legame materiale fra gli uomini, il quale è condizionato dai bisogni e dal modo della produzione ed è antico quanto gli stessi uomini; un legame che assume sempre nuove forme e dunque presenta una «storia», anche senza che esista alcun non-senso politico o religioso fatto apposta per tenere congiunti gli uomini. Solo a questo punto, dopo avere già considerato quattro momenti, quattro aspetti delle condizioni storiche originarie, troviamo che l’uomo ha anche una «coscienza»(1*). Ma anche questa non esiste, fin dall’inizio, come «pura» coscienza. Fin dall’inizio lo «spirito» porta in sé la maledizione di essere «infetto» della materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me; l’animale non «ha rapporti » con alcunché e non ha affatto rapporti. Per l’animale, i suoi rapporti con altri non esistono come rapporti. La coscienza è dunque fin dall’inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono uomini. Naturalmente, la coscienza è innanzi tutto semplice coscienza dell’ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altre persone e cose esterne all’individuo che prende coscienza; in pari tempo è coscienza della natura, che inizialmente si erge di contro agli uomini come una potenza assolutamente estranea, onnipotente e inattaccabile, verso la quale gli uomini si comportano in modo puramente animale e dalla quale si lasciano dominare come le bestie: è dunque una coscienza puramente animale (religione naturale). Qui si vede subito che questa religione naturale, o questo determinato comportarsi verso la natura, è condizionato dalla forma sociale e viceversa. Qui, come dappertutto, l'identità di natura e uomo emerge anche in ciò, che il comportamento limitato degli uomini verso la natura condiziona il comportamento limitato fra uomini e uomini, e il comportamento limitato fra uomini e uomini condiziona i loro rapporti limitati con la natura, appunto perché la natura non è stata ancora quasi modificata storicamente, e d'altra parte la coscienza della necessità di stabilire dei contatti con gli individui circostanti, costituisce per l'uomo la prima coscienza del fatto che vive in una società. Questo inizio è di natura animale come la stessa vita sociale a questo stadio, è pura coscienza da gregge, e l’uomo a questo punto si distingue dal montone soltanto perché il suo è un istinto cosciente. Questa coscienza da montone o tribale perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell’accresciuta produttività, dell’aumento dei bisogni e dell’aumento della popolazione che sta alla base dell’uno e dell’altro fenomeno. Si sviluppa così la divisione del lavoro, che in origine era niente altro che la divisione del lavoro nell’atto sessuale, e poi la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o «naturalmente» in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso, ecc. La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale. Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la «pura» teoria, teologia, filosofia, morale, ecc. Ma anche quando questa teoria, teologia, filosofia, morale, ecc. entrano in contraddizione con i rapporti esistenti, ciò può accadere soltanto per il fatto che i rapporti sociali esistenti sono entrati in contraddizione con le forze produttive esistenti; d’altra parte in una cerchia di rapporti nazionale ciò può anche accadere per essersi prodotta la contraddizione non all’interno di questa cerchia nazionale, ma fra questa coscienza nazionale e la prassi delle altre nazioni, cioè fra la coscienza nazionale e la coscienza universale di una nazione(2*). D’altronde è del tutto indifferente quel che la coscienza si mette a fare per conto suo; da tutta questa porcheria ricaviamo, come unico risultato, che questi tre momenti, la forza produttiva, la situazione sociale e la coscienza, possono e debbono entrare in contraddizione fra loro, perché con la divisione del lavoro si dà la possibilità, anzi la realtà, che l’attività spirituale e l’attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi, e la possibilità che essi non entrino in contraddizione sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro. È di per sé evidente, del resto, che i «fantasmi», i «vincoli», l’«essere superiore», il «concetto», la «irresolutezza», altro non sono che l’espressione spirituale idealistica, la rappresentazione apparentemente dell’individuo isolato, in realtà di ceppi e barriere molto empirici entro i quali si muovono il modo di produzione della vita e la forma di relazioni che vi è connessa.
La divisione del lavoro, che implica tutte queste contraddizioni e che a sua volta è fondata sulla divisione naturale del lavoro nella famiglia e sulla separazione della società in singole famiglie opposte l’una all’altra, implica in pari tempo anche la ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale , sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà, che ha già il suo germe, la sua prima forma, nella famiglia, dove la donna e i figli sono gli schiavi dell’uomo. La schiavitù nella famiglia, che certamente è ancora molto rudimentale e allo stato latente, è la prima proprietà, che del resto in questa fase corrisponde già perfettamente alla definizione degli economisti moderni, secondo cui essa consiste nel disporre di forza-lavoro altrui. Del resto divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento all’attività esattamente ciò che con l’altra si esprime in riferimento al prodotto dell’attività. Inoltre con la divisione del lavoro è data immediatamente la contraddizione fra l’interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l’interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste puramente nell’immaginazione, come «universale», ma esiste innanzi tutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso. E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che gli uomini si trovano nella società naturale, fintanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l'attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l'azione propria dell'uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico[7], e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico. Questo fissarsi dell'attività sociale, questo consolidamento del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico, e appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato , separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria, ma sempre sulla base reale di legami esistenti in ogni conglomerato familiare e tribale, come la carne e il sangue, la lingua, la divisione del lavoro accentuata e altri interessi, e soprattutto - come vedremo più in particolarmente in seguito - sulla base delle classi già determinate dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di questo genere e delle quali una domina tutte le altre. Ne consegue che tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi (del quale fatto i teorici tedeschi non hanno il più vago sentore, benché nei Deutsch-Französische Jahrbücher e nella Sacra famiglia si siano date loro in proposito indicazioni sufficienti), e inoltre che ogni classe la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del dominio in genere, deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l’universale, essendovi costretta in un primo momento. Appunto perché gli individui cercano soltanto il loro particolare interesse, che per loro non coincide col loro interesse collettivo, e il generale di solito è forma illusoria della collettività, questo viene imposto come un interesse «generale», anch’esso a sua volta particolare e specifico, ad essi «estraneo» e da essi «indipendente», o gli stessi individui devono muoversi in questo dissidio, come nella democrazia. Giacché d’altra parte anche la lotta pratica di questi interessi particolari che sempre si oppongono realmente agli interessi collettivi e illusoriamente collettivi rende necessario l’intervento pratico e l’imbrigliamento da parte dell’interesse «generale» illusorio sotto forma di Stato. Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene e dove va, che quindi non possono più dominare e che al contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige questo volere e agire.
Questa «estraniazione», per usare un termine comprensibile ai filosofi, naturalmente può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche . Affinché essa diventi un potere «insostenibile», cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell’umanità affatto «priva di proprietà» e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale , invece che sui piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa «priva di proprietà» contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale , individui empiricamente universali. Senza di che 1) il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale, 2) le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare come potenze universali , e quindi insostenibili, e sarebbero rimaste «circostanze» relegate nella superstizione domestica, 3) ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale. Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in «una volta» e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che il comunismo implica. Altrimenti, per esempio, come avrebbe potuto la proprietà avere una storia qualsiasi, assumere forme diverse, e la proprietà fondiaria, a seconda dei diversi presupposti esistenti, spingere in Francia dalla suddivisione parcellare alla concentrazione in poche mani, e in Inghilterra dalla concentrazione in poche mani alla suddivisione parcellare, come oggi accade realmente? Ovvero come avviene che il commercio, il quale pur non è altro che lo scambio dei prodotti di individui e paesi diversi, attraverso il rapporto di domanda e di offerta domina il mondo intero - un rapporto che, come dice un economista inglese, simile all’antico fato sovrasta la terra e con mano invisibile ripartisce fortuna e disgrazia fra gli uomini, edifica e distrugge regni, fa sorgere e scomparire popoli - mentre con l’abolizione della base, la proprietà privata, con l’ordinamento comunistico della produzione e con la conseguente eliminazione di quell’estraneità che impronta le relazioni degli uomini con il loro proprio prodotto, la potenza del rapporto di domanda e di offerta si dilegua e gli uomini riprendono in loro potere lo scambio, la produzione, il modo del loro reciproco comportarsi?
Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente. D’altronde la massa di semplici operai - forza lavorativa privata in massa del capitale o di qualsiasi limitato soddisfacimento - e quindi anche la perdita non più temporanea di questo stesso lavoro come fonte di esistenza assicurata, presuppone, attraverso la concorrenza, il mercato mondiale . Il proletariato può dunque esistere soltanto sul piano della storia universale , così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza «storica universale». Esistenza storica universale degli individui, cioè esistenza degli individui che è legata direttamente alla storia universale.
La forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi, e che a sua volta le determina, è la società civile , la quale, come già risulta da quanto precede, ha come presupposto e fondamento la famiglia semplice e la famiglia composta, il cosiddetto ordinamento tribale, e nei suoi particolari è stata definita più sopra. Qui già si vede che questa società civile è il vero focolare, il teatro di ogni storia, e si vede quanto sia assurda la concezione della storia finora corrente, che si limita alle azioni di capi e di Stati e trascura i rapporti reali. La società civile comprende tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui all'interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive. Essa comprende tutto il complesso della vita commerciale e industriale di un grado di sviluppo e trascende quindi lo Stato e la nazione, benchè, d'altra parte debba nuovamente affermarsi verso l'esterno come nazionalità e organizzarsi verso l'interno come Stato. Il termine società civile sorse nel secolo diciottesimo quando i rapporti di proprietà si erano già fatti strada fuori dal tipo di comunità antico medievale. La società civile come tale comincia a svilupparsi con la borghesia; tuttavia l'organizzazione sociale sviluppatasi immediatamente dalla produzione e dagli scambi, la quale forma in tutti i tempi la base dello Stato e di ogni sovrastruttura idealistica, continua ad essere chiamata con lo stesso nome.
 

[2-] Sulla produzione della coscienza
 
Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto spirito del mondo), a un potere del cosiddetto spirito che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale . Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista (di cui parleremo più avanti) e l’abolizione della proprietà privata che con essa si identifica, questo potere così misterioso per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale. Che la ricchezza spirituale reale dell’individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto si è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di questa produzione universale di tutta la terra (creazioni degli uomini). La dipendenza universale , questa forma spontanea della cooperazione degli individui su piano storico universale , è trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e neI dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze assolutamente estranee. Questa concezione può a sua volta essere formulata in maniera speculativo-idealistica, ossia fantasticamente, come «autoproduzione della specie» (la «società come soggetto») e quindi la serie susseguentesi di individui che stanno in connessione può essere immaginata come un singolo individuo che compie il mistero di produrre se stesso. Appare qui che gli individui, certo, si fanno l’un l’altro , fisicamente e spiritualmente, ma non fanno se stessi, né nel nonsenso di san Bruno né nel senso dell’«unico»[8], dell’uomo «fatto».
Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l’uno sull’altro). Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall’idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza anche al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell’«autocoscienza» o trasformandoli in «spiriti», «fantasmi», «spettri», ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria. Essa mostra che la storia non finisce col risolversi nella «autocoscienza» come «spirito dello spirito», ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze. Questa somma di forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo e ogni generazione trova come qualche cosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come «sostanza» ed «essenza dell’uomo», di ciò che essi hanno divinizzato e combattuto, una base reale che non è minimamente disturbata, nei suoi effetti e nei suoi influssi sulla evoluzione degli uomini, dal fatto che questi filosofi, in quanto «autocoscienza» e «unico», si ribellano ad essa. Queste condizioni di vita preesistenti in cui le varie generazioni vengono a trovarsi decidono anche se la scossa rivoluzionaria periodicamente ricorrente nella storia sarà o no abbastanza forte per rovesciare la base di tutto ciò che è costituito, e qualora non vi siano questi elementi materiali per un rivolgimento totale, cioè da una parte le forze produttive esistenti, dall’altra la formazione di una massa rivoluzionaria che agisce rivoluzionariamente non solo contro alcune condizioni singole della società fino allora esistente, ma contro la stessa «produzione della vita» come è stata fino a quel momento, la «attività totale» su cui questa si fondava, allora è del tutto indifferente, per lo sviluppo pratico, se l’idea di questo rivolgimento sia già stata espressa mille volte: come dimostra la storia del comunismo.
Finora tutta la concezione della storia ha puramente e semplicemente ignorato questa base reale della storia oppure l’ha considerata come un semplice fatto marginale, privo di qualsiasi legame con il corso storico. Per questa ragione si è sempre costretti a scrivere la storia secondo un metro che ne sta al di fuori; la produzione reale della vita appare come qualche cosa di preistorico, mentre ciò che è storico, inteso come qualche cosa che è separato dalla vita comune, appare come extra e sovramondano. Il rapporto dell’uomo con la natura è quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l’antagonismo fra natura e storia. Questa concezione quindi ha visto nella storia soltanto azioni di capi di Stati e lotte religiose e in genere teoriche, e in ogni epoca, in particolare, ha dovuto condividere l’illusione dell’epoca stessa . Se un’epoca, per esempio, immagina di essere determinata da motivi puramente «politici» o «religiosi», benché «religione» e «politica» siano soltanto forme dei suoi motivi reali, il suo storico accetta questa opinione. L’«immagine», la «rappresentazione» che questi determinati uomini si fanno della loro prassi reale viene trasformata nell’unica forza determinante e attiva che domina e determina la prassi di questi uomini. Se la forma rozza in cui la divisione del lavoro si presenta presso gli indiani e gli egiziani dà origine presso questi popoli al sistema delle caste nello Stato e nella religione, lo storico crede che il sistema delle caste sia la potenza che ha prodotto quella rozza forma di società. Mentre i francesi e gli inglesi per lo meno si fermano all’allusione politica, che è ancora la più vicina alla realtà, i tedeschi si muovono nel campo del «puro spirito» e fanno dell’illusione religiosa la forza motrice della storia. La filosofia della storia di Hegel è l’ultima conseguenza, portata alla sua «espressione più pura», di tutta questa storiografia tedesca, nella quale non si tratta di interessi reali e neppure politici, ma di puri pensieri, e allora a san Bruno essa non può apparire che come una serie di «pensieri», di cui l’uno divora l’altro e infine scompare nell’«autocoscienza»; ancora più coerentemente questo corso storico doveva apparire a Max Stirner, il quale non sa nulla di tutta la storia reale, come una pura storia di «cavalieri», di masnadieri e di fantasmi, dalle cui visioni egli si può salvare, naturalmente, solo con l’«empietà»(3*) . Questa concezione è realmente religiosa, postula l’uomo religioso come l’uomo originario, dal quale deriva tutta la storia, e nella sua immaginazione pone la produzione di fantasie religiose al posto della produzione reale dei mezzi di sussistenza e della vita stessa. Tutta quanta questa concezione della storia insieme con la sua decomposizione e gli scrupoli e i dubbi che ne derivano è una faccenda puramente nazionale dei tedeschi ed ha solo interesse locale per la Germania; è il caso per esempio della importante questione, più volte dibattuta di recente, di come propriamente si «venga dal regno di Dio al regno dell’uomo», come se questo «regno di Dio» fosse mai esistito se non nell’immaginazione e i dotti signori non fossero sempre vissuti, senza saperlo, in quel «regno dell’uomo» del quale ora cercano la strada; e come se il passatempo scientifico - ché più di tanto non è - di spiegare la stravaganza di questo castello in aria teorico non stesse proprio, al contrario, nel dimostrare come sia sorto dalla situazione terrena reale. Per questi tedeschi si tratta sempre di risolvere il nonsenso in cui si imbattono in qualche altra bizzarria, di presupporre cioè che tutto questo nonsenso abbia in genere un senso speciale che va scoperto, laddove si tratta soltanto di spiegare questa fraseologia teorica sulla base delle reali condizioni esistenti. La vera, pratica risoluzione di questa fraseologia, l’eliminazione di queste rappresentazioni dalla coscienza degli uomini sarà effettuata, come si è già detto, attraverso una situazione trasformata, non attraverso deduzioni teoriche. Per la massa degli uomini, cioè per il proletariato, queste rappresentazioni teoriche non esistono, e quindi per essa non hanno neppure bisogno di essere risolte, e se questa massa ha posseduto delle rappresentazioni teoriche, per esempio la religione, esse sono già state da lungo tempo dissolte dalle circostanze. Il carattere puramente nazionale di queste questioni e di queste soluzioni appare anche in ciò, che questi teorici credono in tutta serietà che chimere quali «l’uomo-Dio», «l’uomo» ecc. abbiano presieduto alle singole epoche della storia - san Bruno arriva fino al punto di sostenere che soltanto «la critica e i critici hanno fatto la storia» - e se si dedicano anch’essi a fare costruzioni storiche saltano con la massima fretta tutte le età precedenti e dal «mongolismo»[9] passano senz’altro alla storia veramente «significativa», cioè alla storia degli Hallische Jahrbücher e dei Deutsche Jahrbücher e della dissoluzione della scuola hegeliana in una rissa generale. Tutte le altre nazioni, tutti gli avvenimenti reali vengono dimenticati, il theatrum mundi si limita alla fiera libraria di Lipsia e alle vicendevoli dispute della «critica», dell’«uomo» e dell’«unico». Se per avventura una volta la teoria si mette a trattare temi storici reali, come per esempio il diciottesimo secolo, costoro danno soltanto la storia delle rappresentazioni, avulse dai fatti e dagli sviluppi pratici che ne sono la base, e anche queste col solo scopo di rappresentare quest’epoca come un primo grado imperfetto, come l’antecedente ancora difettoso della vera età storica: l’età della lotta fra i filosofi tedeschi del 1840-44. A questo scopo - di scrivere una storia dei tempi passati per fare risplendere più luminosa la gloria di una persona non storica e delle sue fantasie - serve infatti il passare sotto silenzio gli avvenimenti storici reali e persino gli interventi realmente storici della politica nella storia, e l’offrire una narrazione fondata non su studi ma su costruzioni e su storie di chiacchiere letterarie: come è accaduto a san Bruno nella sua Storia del XVIII secolo [10] ora dimenticata. Questi alteri e magniloquenti bottegai del pensiero, che si credono infinitamente superiori a tutti i pregiudizi nazionali, nella prassi sono dunque ancor più nazionali dei filisteucci che sognano di una Germania unita. Non riconoscono realtà storica ai fatti degli altri popoli, vivono in Germania sulla Germania e per la Germania, trasformano il Canto del Reno in un canto liturgico e conquistano l’Alsazia e la Lorena saccheggiando la filosofia francese invece dello Stato francese, germanizzando i pensieri francesi invece delle province francesi. Il signor Venedey è un cosmopolita al cospetto dei santi Bruno e Max, i quali proclamano il dominio universale della Germania nel dominio universale della teoria.
Da queste spiegazioni appare anche quanto si inganni Feuerbach, quando (Wigand’s Vierteljahrsschrift, 1845, vol. II) in forza della qualifica «uomo comune» si dichiara comunista, trasformato in un predicato «dell’» uomo, e crede quindi di poter trasformare a sua volta in una semplice categoria la parola comunista, che nel mondo esistente designa il seguace di un partito rivoluzionario determinato. Tutta la deduzione di Feuerbach relativa ai rapporti reciproci degli uomini finisce soltanto col dimostrare che gli uomini hanno e sempre hanno avuto bisogno l’uno dell’altro. Egli vuole stabilire la coscienza di questo fatto, vuole dunque, come gli altri teorici, suscitare soltanto una giusta coscienza su un fatto esistente , mentre per il comunista autentico ciò che importa è rovesciare questo esistente. Noi d’altronde riconosciamo che cercando di creare la coscienza proprio di questo fatto Feuerbach si spinge avanti di tanto quanto in genere può spingersi un teorico senza cessare di essere teorico e filosofo. Ma è caratteristico che i santi Bruno e Max mettono senz’altro la concezione di Feuerbach al posto del comunista autentico, ciò che in parte fanno per poter combattere anche il comunismo come «spirito dello spirito» come categoria filosofica, come pari avversario (e da parte di san Bruno anche in vista di interessi prammatici). Come esempio del riconoscimento e insieme del misconoscimento della realtà esistente, che Feuerbach ha pur sempre in comune con i nostri avversari, ricordiamo il luogo della Filosofia dell’avvenire [11] in cui egli spiega come l’essere di una cosa o di un uomo sia anche la loro essenza, come le condizioni determinate di esistenza, il modo di vita e l’attività di un individuo animale o umano siano quelle in cui la sua «essenza» si sente soddisfatta. Qui ogni eccezione viene espressamente considerata come un caso disgraziato, come una anormalità che non può essere modificata. Se dunque milioni di proletari non si sentono per niente soddisfatti delle loro condizioni di esistenza, se il loro «essere»(...)[12] in realtà per il materialista pratico, cioè per il comunista , si tratta di rivoluzionare il mondo esistente, di mettere mano allo stato di cose incontrato e di trasformarlo. Se in Feuerbach si trovano talvolta punti di vista di questo genere, non vanno però mai al di là di qualche intuizione isolata e influiscono troppo poco sulla sua visione generale delle cose per poter essere considerati qui altrimenti che germi capaci di sviluppo. La «concezione» feuerbachiana del mondo sensibile si limita da una parte alla semplice intuizione; egli dice «l’uomo » anziché gli «uomini storici reali». «L’uomo» è realiter «il tedesco». Nel primo caso, nell’intuizione del mondo sensibile, egli urta necessariamente in cose che contraddicono alla sua coscienza e al suo sentimento, che disturbano l’armonia, da lui presupposta, di tutte le parti del mondo sensibile e in particolare dell’uomo con la natura(4*). Per eliminarle, egli deve quindi trovare scampo in una duplice visione, una visione profana, che scorge soltanto ciò che «si può toccare con mano», e una più alta, filosofica, che scorge la «vera essenza» delle cose. Egli non vede come il mondo sensibile che lo circonda sia non una cosa data immediatamente dall’eternità, sempre uguale a se stessa, bensì il prodotto dell’industria e delle condizioni sociali; e precisamente nel senso che è un prodotto storico, il risultato dell’attività di tutta una serie di generazioni, ciascuna delle quali si è appoggiata sulle spalle della precedente, ne ha ulteriormente perfezionato l’industria e le relazioni e ne ha modificato l’ordinamento sociale in base ai mutati bisogni. Anche gli oggetti della più semplice «certezza sensibile» gli sono dati solo attraverso lo sviluppo sociale, l’industria e le relazioni commerciali. È noto che il ciliegio, come quasi tutti gli alberi da frutta, è stato trapiantato nella nostra zona pochi secoli or sono grazie al commercio , e perciò soltanto grazie a questa azione di una determinata società in un determinato tempo esso fu offerto alla «certezza sensibile» di Feuerbach. D’altra parte in questa concezione delle cose così come realmente sono e sono accadute, quale apparirà ancora più chiaramente più sotto, ogni profondo problema filosofico si risolve con la massima semplicità in un fatto empirico. Per esempio la questione importante dei rapporti degli uomini con la natura (o magari, come dice Bruno a p. 110, delle «antitesi della natura e della storia», come se fossero due «cose» separate, e l’uomo non avesse sempre di fronte a sé una natura storica e una storia naturale), dalla quale sono uscite tutte le «opere incommesurabilmente profonde» sulla «sostanza» e l’«autocoscienza», finisce automaticamente nel nulla se ci si accorge che la celeberrima «unità dell’uomo con la natura» è sempre esistita nell’industria, e in ciascuna epoca è esistita in maniera diversa a seconda del maggiore o minore sviluppo dell’industria, così come la «lotta» dell’uomo con la natura esiste finché le sue forze produttive si sviluppino su una base adeguata. L’industria e il commercio, la produzione e lo scambio dei mezzi di sussistenza condizionano da parte loro (e ne vengono a loro volta condizionati quanto al modo in cui sono esercitati) la distribuzione, l’organizzazione delle diverse classi sociali: e accade cosi allora che per esempio Feuerbach vede soltanto fabbriche e macchine a Manchester, dove un secolo fa erano solo filatoi e telai a mano, o scopre soltanto pascoli e paludi nella, campagna di Roma [13], dove al tempo di Augusto non avrebbe trovato altro che vigneti e ville di capitalisti romani. Feuerbach parla in particolare della intuizione della scienza della natura, fa menzione di segreti che si rivelano soltanto all’occhio del fisico e del chimico; ma senza industria e commercio dove sarebbe la scienza della natura? Persino questa scienza «pura» della natura ottiene il suo scopo, così come ottiene il suo materiale, soltanto attraverso il commercio e l’industria, attraverso l’attività pratica degli uomini. È tanto vero che questa attività, questo continuo lavorare e produrre sensibile, questa produzione, è la base dell’intero mondo sensibile, quale ora esiste, che se fosse interrotta anche solo per un anno Feuerbach non solo troverebbe un enorme cambiamento nel mondo naturale, ma gli verrebbe ben presto a mancare l’intero mondo umano, la sua stessa facoltà intuitiva, e anzi la sua stessa esistenza. È vero che la priorità della natura esterna rimane ferma, e che tutto questo non si può applicare agli uomini originari, prodotti da generatio aequivoca [14]; ma questa distinzione ha senso solo in quanto si consideri l’uomo come distinto dalla natura. D’altronde questa natura che precede la storia umana non è la natura nella quale vive Feuerbach, non la natura che oggi non esiste più da nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione, e che quindi non esiste neppure per Feuerbach. Di fronte ai materialisti «puri» Feuerbach ha certo il grande vantaggio di intendere come anche l’uomo sia «oggetto sensibile»; ma a parte il fatto che lo concepisce soltanto come «oggetto sensibile» e non come «attività sensibile», poiché anche qui egli resta sul terreno della teoria, e non concepisce gli uomini nella loro connessione sociale, nelle loro presenti condizioni di vita, che hanno fatto di loro ciò che sono, egli non arriva agli uomini realmente esistenti e operanti ma resta fermo all’astrazione «l’uomo», e riesce a riconoscere solo nella sensazione l’«uomo reale, individuale, in carne e ossa», il che significa che non conosce altri «rapporti umani» «dell’uomo con l’uomo» se non l’amore e l’amicizia, e per di più idealizzati. Egli non offre alcuna critica dei rapporti attuali della vita. Non giunge mai, quindi, a concepire il mondo sensibile come l’insieme dell’attività sensibile vivente degli individui che lo formano, e perciò se in luogo di uomini sani, per esempio, vede una massa di affamati scrofolosi, sfiniti e tisici, è costretto a rifugiarsi nella «più alta intuizione» e nell’ideale «compensazione nella specie», e dunque è costretto a ricadere nell’idealismo proprio là dove il materialista comunista vede là necessità e insieme la condizione di una trasformazione tanto dell’industria quanto della struttura sociale.
Fin tanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare, e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un materialista. Materialismo e storia per lui sono del tutto divergenti, come del resto si spiega già in base a ciò che si è detto.
La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una parte continua, in circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata; è un processo che sul terreno speculativo viene distorto al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente, di assegnare per esempio alla scoperta dell’America lo scopo di favorire lo scoppio della Rivoluzione francese; per questa via poi la storia riceve i suoi scopi speciali e diventa una «persona accanto ad altre persone» (che sono: «autocoscienza, critica, unico», ecc.), mentre ciò che vien designato come «destinazione», «scopo», «germe», «idea» della storia anteriore altro non è che un’astrazione della storia posteriore, un’astrazione dell’influenza attiva che la storia anteriore esercita sulla successiva. A mano a mano poi che nel corso di questo sviluppo si allargano le singole sfere che agiscono l’una sull’altra, a mano a mano che l’originario isolamento delle singole nazionalità viene annullato dal modo di produzione sviluppato, dalle relazioni e dalla conseguente divisione naturale del lavoro fra le diverse nazioni, la storia diventa sempre più storia universale, cosicché, per esempio, se in Inghilterra viene inventata una macchina che riduce alla fame innumerevoli lavoratori in India e in Cina e sovverte tutta la forma di esistenza di questi imperi, questa invenzione diventa un fatto storico universale; oppure, lo zucchero e il caffè dimostrarono la loro importanza, storica universale nel secolo diciannovesimo, in quanto la mancanza di questi prodotti, provocata dal sistema continentale napoleonico, portò i tedeschi a insorgere contro Napoleone e divenne quindi la base reale delle gloriose guerre di liberazione del 1813. Da ciò segue che questa trasformazione della storia in storia universale è non già un semplice fatto astratto della «autocoscienza», dello spirito del mondo o di qualche altro fantasma metafisico, ma un fatto assolutamente materiale, dimostrabile empiricamente, un fatto di cui ciascun individuo dà prova nell’andare e venire, nel mangiare, nel bere e nel vestirsi.
Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongono la classe dominante posseggono fra l’altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell’epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come «legge eterna». La divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all’interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell’elaborazione dell’illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. All’interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da sé se sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa: allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto dal potere di questa classe. L’esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già l’esistenza di una classe rivoluzionaria sui cui presupposti abbiamo già detto quanto occorre.
Se ora nel considerare il corso della storia si svincolano le idee della classe dominante dalla classe dominante e si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un’epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di queste idee, e se quindi si ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee, allora si potrà dire per esempio che al tempo in cui dominava l’aristocrazia dominavano i concetti di onore, di fedeltà, ecc., e che durante il dominio della borghesia dominavano i concetti di libertà, di uguaglianza, ecc. Queste sono, in complesso, le immaginazioni della stessa classe dominante. Questa concezione della storia che è comune a tutti gli storici, particolarmente a partire dal diciottesimo secolo, deve urtare necessariamente contro il fenomeno che dominano idee sempre più astratte, cioè idee che assumono sempre più la forma dell’universalità. Infatti ogni classe che prenda il posto di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell’universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide. La classe rivoluzionaria si presenta senz’altro per il solo fatto che si contrappone a una classe , non come classe ma come rappresentante dell’intera società, appare come l’intera massa della società di contro all’unica classe dominante. Ciò le è possibile perché in realtà all’inizio il suo interesse è ancora più legato all’interesse comune di tutte le altre classi non dominanti, e sotto la pressione dei rapporti fino allora esistenti non si è ancora potuto sviluppare come interesse particolare di una classe particolare (5*). La sua vittoria giova perciò anche a molti individui delle altre classi che non giungono al dominio, ma solo in quanto pone questi individui in condizione di ascendere nella classe dominante. Quando la borghesia francese rovesciò il dominio dell’aristocrazia, con ciò rese possibile a molti proletari di innalzarsi al di sopra del proletariato, ma solo in quanto essi diventarono borghesi. Quindi ogni nuova classe non fa che porre il suo dominio su una base più larga della precedente, per la qual cosa anche l’opposizione delle classi non dominanti contro quella ora dominante si sviluppa più tardi con tanto maggiore asprezza e profondità. Queste due circostanze fanno sì che la lotta da condurre contro questa nuova classe dominante tenda a sua volta a una negazione della situazione sociale esistente più decisa e più radicale di quanto fosse possibile a tutte le classi che precedentemente avevano aspirato al dominio.
Tutta questa parvenza, che il dominio di una determinata classe altro non sia che il dominio di certe idee, cessa naturalmente da sé non appena il dominio di classi in generale cessa di essere la forma dell’ordinamento sociale, non appena quindi non è più necessario rappresentare un interesse particolare come universale o «l’universale» come dominante.
Una volta che le idee dominanti siano state separate dagli individui dominanti e soprattutto dai rapporti che risultano da un dato stadio del modo di produzione, e si sia giunti di conseguenza al risultato che nella storia dominano sempre le idee, è facilissimo astrarre da queste varie idee «l’idea», ecc., come ciò che domina nella storia e concepire così tutte queste singole idee e concetti come «autodeterminazioni» del concetto che si sviluppa nella storia. Allora è anche naturale che tutti i rapporti degli uomini possano venire ricavati dal concetto dell’uomo, dall’uomo quale viene rappresentato, dall’essenza dell’uomo, dall’ uomo. È ciò che ha fatto la filosofia speculativa. Hegel arriva a confessare, alla fine della sua filosofia della storia, «di avere considerato soltanto il processo del concetto » e di avere esposto nella storia la «vera teodicea »[15]. Si può quindi ritornare ai produttori «del concetto», ai teorici, agli ideologi e ai filosofi, e giungere quindi al risultato che i filosofi, i pensatori come tali, hanno dominato da sempre nella storia; un risultato che, come abbiamo visto, fu anche già espresso da Hegel. Quindi tutto il gioco di abilità, per dimostrare la sovranità dello spirito nella storia (gerarchia in Stirner), si riduce ai seguenti tre efforts :
1) Si devono separare le idee di coloro che dominano per ragioni empiriche, sotto condizioni empiriche e come individui materiali, da questi dominatori, e con ciò riconoscere il dominio di idee o illusioni nella storia.
2) Si deve metter un ordine in questo dominio delle idee, dimostrare un nesso mistico fra le successive idee dominanti, al che si perviene considerandole come «autodeterminazioni del concetto» (la cosa è possibile perché fra queste idee, attraverso la loro base empirica, esiste realmente un nesso, e perché esse, concepite come pure idee, diventano autodistinzioni, distinzioni fatte dal pensiero).
3) Per eliminare l’aspetto mistico di questo «concetto autodeterminantesi», lo si trasforma in una persona - «l’autocoscienza» - oppure, per apparire perfetti materialisti, in una serie di persone che rappresentano «il concetto» nella storia, i «pensatori», i «filosofi», gli ideologi, i quali ancora una volta sono concepiti come i fabbricanti della storia, come il «consesso dei guardiani», come i dominatori. Con ciò si sono eliminati dalla storia tutti quanti gli elementi materialistici e si possono allentare tranquillamente le briglie al destriero speculativo.
Mentre nella vita ordinaria qualsiasi shopkeeper sa distinguere benissimo fra ciò che ciascuno pretende di essere e ciò che realmente è, la nostra storiografia non è ancora arrivata a questa ovvia conoscenza. Essa crede sulla parola ciò che ogni epoca dice e immagina di se stessa.
Questo metodo storiografico che dominava soprattutto in Germania, e specie perché vi ha dominato, va spiegato muovendo dalla sua connessione con l’illusione degli ideologi in genere, per esempio le illusioni dei giuristi, dei politici (ivi compresi i pratici uomini di Stato), dai vaneggiamenti dogmatici di codesti tipi; la quale illusione è semplicissimamente spiegata dalla loro posizione pratica nella vita, dal loro mestiere e dalla divisione del lavoro.
Infine, dalla concezione della storia che abbiamo svolto otteniamo ancora i seguenti risultati: 1) Nello sviluppo delle forze produttive si presenta uno stadio nel quale vengono fatte sorgere forze produttive e mezzi di relazione che nelle situazioni esistenti fanno solo del male, che non sono più forze produttive ma forze distruttive (macchine e denaro) e, in connessione con tutto ciò, viene fatta sorgere una classe che deve sopportare tutti i pesi della società, forzata al più deciso antagonismo contro le altre classi; una classe che forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista, la quale naturalmente si può formare anche fra le altre classi, in virtù della considerazione della posizione di questa classe; 2) che le condizioni entro le quali possono essere impiegate determinate forze produttive sono le condizioni del dominio di una determinata classe della società, la cui potenza sociale, che scaturisce dal possesso di quelle forze, ha la sua espressione pratico -idealistica nella forma di Stato che si ha di volta in volta, e perciò ogni lotta rivoluzionaria si rivolge contro una classe che fino allora ha dominato (6*); 3) che in tutte le rivoluzioni sinora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone, mentre la rivoluzione comunista si rivolge contro il modo dell’attività che si è avuto finora, sopprime il lavoro e abolisce il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse, poiché essa è compiuta dalla classe che nella società non conta più come classe, che non è riconosciuta come classe, che in seno alla società odierna è già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi, nazionalità, ecc.; 4) che tanto per la produzione in massa di questa coscienza comunista quanto per il successo della cosa stessa è necessaria una trasformazione in massa degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione ; che quindi la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società.
 
[C-] Comunismo, produzione della forma di relazioni stessa
 
Il comunismo si distingue da tutti i movimenti finora esistiti in quanto rovescia la base di tutti i rapporti di produzione e le forme di relazione finora esistite e per la prima volta tratta coscientemente tutti i presupposti naturali come creazione degli uomini finora esistiti, li spoglia del loro carattere naturale e li assoggetta al potere degli individui uniti. La sua organizzazione è quindi essenzialmente economica, è la creazione materiale delle condizioni di questa unione, essa fa delle condizioni esistenti le condizioni dell’unione. Ciò che è tradotto in esistenza dal comunismo è appunto la base reale che rende impossibile tutto ciò che esiste indipendentemente dagli individui, nella misura in cui questo non è altro che un prodotto delle precedenti relazioni degli individui stessi. I comunisti dunque trattano praticamente le condizioni create dalla produzione e dalle relazioni anteriori come condizioni inorganiche, senza tuttavia immaginare che siano stati il piano o la missione delle generazioni precedenti a fornire loro del materiale, e senza credere che queste condizioni fossero inorganiche per gli individui che le creavano. La differenza fra individuo personale e individuo contingente non è una distinzione concettuale, ma un fatto storico. Questa distinzione ha un senso diverso in tempi diversi, per esempio l’ordine come qualche cosa di contingente per l’individuo nel secolo XVIII, plus ou moins anche la famiglia. È una distinzione che non dobbiamo fare noi per ciascuna epoca, ma che proprio ogni epoca fa tra i diversi elementi che trova già costituiti, e non sulla base di un concetto, ma costretta dalle collisioni materiali della vita. Ciò che appare come contingente all’epoca posteriore in opposizione all’epoca anteriore, e quindi anche fra gli elementi tramandati ad essa dall’epoca anteriore, è una forma di relazioni che corrispondeva a uno sviluppo determinato delle forze produttive. Il rapporto fra le forze produttive e la forma di relazioni è il rapporto fra la forma di relazioni e l’occupazione o l’attività degli individui. (La forma fondamentale di questa attività è naturalmente quella materiale, dalla quale dipende ogni altra forma intellettuale, politica, religiosa, ecc. La diversa configurazione della vita materiale è naturalmente dipendente, volta per volta, dai bisogni già sviluppati, e tanto la produzione quanto il soddisfacimento di questi bisogni sono essi stessi un processo storico, che non si trova in una pecora o in un cane, - capzioso argomento principale di Stirner adversus hominem ,- benché nella loro forma attuale pecore e cani siano senza dubbio, ma malgré eux , prodotti di un processo storico). Le condizioni sotto le quali gli individui, finché non è ancora apparsa la contraddizione, hanno relazioni tra loro, sono condizioni che appartengono alla loro individualità, non qualche cosa di esterno ad essi, condizioni sotto le quali soltanto questi individui determinati, esistenti in situazioni determinate, possono produrre la loro vita materiale e ciò che vi è connesso; esse sono quindi le condizioni della loro manifestazione personale e da questa sono prodotte. La determinata condizione nella quale essi producono corrisponde dunque, finché non è ancora apparsa la contraddizione, alla loro limitazione reale, alla loro esistenza unilaterale, la cui unilateralità si manifesta soltanto quando appare la contraddizione e quindi esiste solo per le generazioni posteriori. Allora questa condizione appare come un intralcio casuale, e allora si attribuisce anche all’epoca precedente la coscienza che essa è un intralcio. Queste diverse condizioni, che appaiono dapprima come condizioni della manifestazione personale e più tardi come un intralcio per essa, formano in tutto lo sviluppo storico una serie coerente di forme di relazioni, la cui connessione consiste in questo, che al posto della forma di relazioni precedente, diventata un intralcio, ne viene sostituita una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate e quindi al modo più progredito di manifestazione personale degli individui, e questa forma à son tour diventa poi un intralcio e quindi viene sostituita con un’altra. Poiché ad ogni stadio queste condizioni corrispondono allo sviluppo contemporaneo delle forze produttive, la loro storia è altresì la storia delle forze produttive che si sviluppano e che sono riprese da ogni nuova generazione, e pertanto è la storia dello sviluppo delle forze degli individui stessi.
Poiché questo sviluppo procede per via naturale, ossia non è subordinato a un piano complessivo di individui liberamente associati, esso muove da diverse località, tribù, nazioni, branche di lavoro, ecc., ciascuna delle quali all’inizio si sviluppa indipendentemente dalle altre e non entra che a poco a poco in collegamento con le altre. Inoltre esso procede assai lentamente; i diversi stadi e interessi non vengono mai completamente superati, ma soltanto subordinati all’interesse che trionfa e continua a trascinarsi per secoli accanto ad esso. Ne segue che anche all’interno di una nazione gli individui hanno sviluppi del tutto diversi, anche non tenendo conto delle loro condizioni finanziarie, e che un interesse anteriore, la cui peculiare forma di relazioni è già stata soppiantata da quella appartenente a un interesse posteriore, resta ancora a lungo in possesso di un potere tradizionale nella comunità apparente che si è resa indipendente di contro agli individui (Stato, diritto), un potere che in ultima analisi può essere spezzato soltanto da una rivoluzione. Ciò spiega anche perché in rapporto a singoli punti, che permettono una sintesi più generale, la coscienza possa apparire talvolta più avanzata rispetto alla situazione empirica contemporanea, cosicché nelle lotte di un periodo posteriore ci si può appoggiare, come autorità, a teorici anteriori. Al contrario, in paesi come il Nord America, che cominciano in un’epoca storica già progredita, lo sviluppo procede assai rapido. Tali paesi non hanno altri presupposti naturali all’infuori degli individui che vi si stabiliscono e che sono stati indotti a ciò dalle forme di relazioni dei vecchi paesi, non corrispondenti ai loro bisogni. Essi cominciano quindi con gli individui più evoluti dei vecchi paesi e pertanto con la forma di relazioni più sviluppata, corrispondente a questi individui, ancor prima che questa forma di relazioni possa imporsi nei vecchi paesi(7*). Questo è il caso di tutte le colonie, che non siano semplici stazioni militari e commerciali. Ne sono esempio Cartagine, le colonie greche e l’Islanda nel secolo XI e XII. Una situazione analoga si verifica nella conquista, quando nel paese conquistato viene trasportata bella e pronta la forma di relazioni sviluppata su un altro terreno; mentre nel luogo d’origine essa era ancora legata ad interessi e rapporti sopravvissuti da epoche precedenti, qui invece può e deve essere stabilita completamente e senza impedimenti, se non altro per assicurare un potere durevole ai conquistatori. (L’Inghilterra e Napoli dopo la conquista normanna, con cui ricevettero la forma più perfetta dell’organizzazione feudale).
Secondo la nostra concezione, dunque, tutte le collisioni della storia hanno la loro origine nella contraddizione tra le forze produttive e la forma di relazioni. D’altronde non è necessario che per provocare delle collisioni in un paese questa contraddizione sia spinta all’estremo in questo paese stesso. La concorrenza con paesi industrialmente più progrediti, provocata dall’allargamento delle relazioni internazionali, è sufficiente per generare una contraddizione analoga anche nei paesi con industria meno sviluppata (per esempio il proletariato latente in Germania, fatto apparire dalla concorrenza dell’industria inglese).
Questa contraddizione fra le forze produttive e la forma di relazioni, che come abbiamo visto si è già manifestata più volte nella storia fino ad oggi senza però comprometterne la base, dovette esplodere ogni volta in una rivoluzione, assumendo in pari tempo diverse forme accessorie, come totalità di collisioni, come collisioni di diverse classi, contraddizione della coscienza, lotta ideologica, ecc., lotta politica, ecc. Da un punto di vista limitato si può isolare una di queste forme accessorie e considerarla come la base di quelle rivoluzioni, ciò che è tanto più facile in quanto gli individui da cui procedevano le rivoluzioni si facevano essi stessi delle illusioni sulla loro propria attività, a seconda del loro grado di cultura e dello stadio dello sviluppo storico.
La trasformazione delle forze (rapporti) personali in forze oggettive, provocata dalla divisione del lavoro, non può essere abolita togliendosene dalla testa l’idea generale[16], ma soltanto se gli individui sussumono nuovamente sotto se stessi quelle forze oggettive e abolendo la divisione del lavoro. Questo non è possibile senza la comunità. Solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale. Nei surrogati di comunità che ci sono stati finora, nello Stato, ecc., la libertà personale esisteva soltanto per gli individui che si erano sviluppati nelle condizioni della classe dominante e solo in quanto erano individui di questa classe. La comunità apparente nella quale finora si sono uniti gli individui si è sempre resa autonoma di contro a loro e allo stesso tempo, essendo l’unione di una classe di contro a un’altra, per la classe dominata non era soltanto una comunità del tutto illusoria, ma anche una nuova catena. Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa.
Da tutto quello che si è visto finora risulta che il rapporto di comunità nel quale entravano gli individui di una classe e che era condizionato dai loro interessi comuni di fronte a un terzo, era sempre una comunità alla quale questi individui appartenevano soltanto come individui medi, soltanto in quanto vivevano nelle condizioni di esistenza della loro classe; era un rapporto al quale essi partecipavano non come individui, ma come membri di una classe. Nella comunità dei proletari rivoluzionari, invece, i quali prendono sotto il loro controllo le condizioni di esistenza proprie e di tutti i membri della società, è proprio l’opposto: ad essa gli individui prendono parte come individui. È proprio l’unione degli individui (naturalmente nell’ambito del presupposto delle forze produttive attualmente sviluppate), che mette le condizioni del libero sviluppo e del libero movimento degli individui sotto il loro controllo, condizioni che finora erano lasciate al caso e che si erano rese autonome di contro ai singoli individui proprio attraverso la loro necessaria unione, che era data con la divisione del lavoro ma che per la loro separazione era diventata un vincolo ad essi estraneo. L’unione che si è avuta finora non era affatto arbitraria, come viene rappresentata per esempio nel Contrat social , ma necessaria (si confronti per esempio la formazione dello Stato nordamericano e le repubbliche sudamericane) sulla base di quelle condizioni entro le quali poi gli individui potevano godere della casualità. Questo diritto, di poter godere indisturbati della casualità all’interno di certe condizioni, veniva finora chiamato libertà personale. Queste condizioni di esistenza sono naturalmente soltanto le forze di produzione e le forme di relazioni di ciascun periodo.
Se si considera filosoficamente questo sviluppo degli individui nelle condizioni comuni di esistenza degli ordini e delle classi che si susseguono nella storia, e nelle idee generali che perciò vengono loro imposte, ci si può facilmente immaginare che in questi individui si sia sviluppata la specie o l’uomo, o che essi abbiano sviluppato l’uomo: modo di immaginare che schiaffeggia sonoramente la storia(8*). Si possono allora concepire questi diversi ordini e classi come specificazioni dell’espressione generale, come suddivisioni della specie, come fasi di sviluppo dell’uomo.
Questa sussunzione degli individui sotto classi determinate non può essere superata finché non si sia formata una classe la quale non abbia più da imporre alcun interesse particolare di classe contro la classe dominante.
Gli individui hanno sempre preso le mosse da se stessi, ma naturalmente da sé nell’ambito delle loro date condizioni e situazioni storiche, non dal «puro» individuo nel senso degli ideologi. Ma nel corso dello sviluppo storico, e proprio attraverso l’indipendenza inevitabile che entro la divisione del lavoro acquistano i rapporti sociali, emerge una differenza tra la vita di ciascun individuo in quanto essa è personale, e in quanto è sussunta sotto un qualche ramo di lavoro e sotto le condizioni relative. (Ciò non va inteso nel senso che per esempio il rentier o il capitalista cessino di essere delle persone; ma la loro personalità è condizionata e determinata da rapporti di classe determinatissimi, e la differenza emerge solo nel contrasto con un’altra classe, e per loro stessi emerge solo quando fanno bancarotta). Nell’ordine (e più ancora nella tribù) questo fatto rimane ancora nascosto: per esempio un nobile resta sempre un nobile, un roturier, sempre un roturier , a prescindere da ogni altra sua condizione: è una qualità inseparabile dalla sua individualità. La differenza fra l’individuo personale e l’individuo come membro di una classe, la casualità delle condizioni di vita per l’individuo, si ha soltanto con la comparsa della classe che a sua volta è un prodotto della borghesia. Solo la concorrenza e la lotta degli individui tra di loro produce e sviluppa questa casualità come tale. Quindi sotto il dominio della borghesia gli individui sono più liberi di prima, nell’immaginazione, perché per loro le loro condizioni di vita sono casuali; nella realtà sono naturalmente meno liberi perché più subordinati a una forza oggettiva. La differenza dall’ordine si manifesta particolarmente nell’antagonismo fra borghesia e proletariato. Quando l’ordine della popolazione urbana, le corporazioni, ecc. si affermarono contro la nobiltà delle campagne, le loro condizioni di vita, la proprietà mobiliare e il lavoro artigiano, che già erano esistiti allo stato latente prima che si separassero dal vincolo feudale, apparvero come qualche cosa di positivo, che veniva fatto valere contro la proprietà fondiaria feudale, e quindi in un primo tempo anche assunsero a loro volta e a loro modo la forma feudale. Senza dubbio i servi della gleba che fuggivano consideravano la loro servitù come qualche cosa di casuale per la loro personalità. Ma con ciò facevano semplicemente la stessa cosa che fa ogni classe che si libera da un vincolo, e poi non si liberavano come classe, ma isolatamente. Inoltre essi non uscivano dall’ambito del sistema degli ordini, ma si limitarono a formare un nuovo ordine e conservarono il modo di lavoro che avevano avuto fino allora anche nella nuova situazione, e lo perfezionarono liberandolo dai vincoli che lo avevano impacciato fino allora e che non corrispondevano più allo sviluppo che esso aveva raggiunto(9*). Nel caso dei proletari, invece, la loro propria condizione di vita, il lavoro, e quindi tutto l’insieme delle condizioni di esistenza della società odierna, sono diventati qualche cosa di casuale, su cui i singoli proletari non hanno alcun controllo e su cui nessuna organizzazione sociale può dare loro il controllo; e la contraddizione tra la personalità del singolo proletario e la condizione di vita che gli è imposta, il lavoro, si manifesta al proletario stesso, soprattutto perché egli è stato sacrificato fin dalla giovinezza e perché gli manca la possibilità di arrivare, in seno alla sua classe, alle condizioni che lo farebbero passare nell’altra classe. Mentre i servi della gleba fuggitivi, dunque, volevano soltanto sviluppare e fare affermare liberamente le loro condizioni di esistenza già in atto, e quindi in ultima istanza arrivarono soltanto al lavoro libero, i proletari invece, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro. Essi si trovano quindi anche in antagonismo diretto con la forma nella quale gli individui della società si sono dati finora un’espressione collettiva, lo Stato, e devono rovesciare lo Stato per affermare la loro personalità.

 

 


Note

[1] Scritta da Marx nell'estate del 1846.
[2] In chimica questa espressione indica il residuo della distillazione, e in generale ciò che avanza dopo qualche operazione.
[3] In quanto trasformano tutto in dogmi e in rapporti religiosi Bauer e Stirner sono spesso chiamati qui ironicamente san Bruno e San Max.
[4] Allusione all'inizio dell'Essenza del cristianesimo di Feuerbach.
[5] Allusione ironica a una frase di B. Bauer, ripresa dall'articolo Charakteristik Ludwig Feuerbach (Profilo di L.F.), apparso sulla Wigard's Vierteljahrsschrift , 1845, vol. III, p. 130
[6] È detto ironicamente: la società borghese dissolve la famiglia, ma nell'arretrata Germania, più che altrove “alla sua sporca esistenza corrisponde il sacro concetto nella retorica ufficiale e nella generale ipocrisia”. Ideologia tedesca, Roma Editori Riuniti, 1959, p. 174.
(1*) Gli uomini hanno una storia perché devono produrre la loro vita, e lo devono, precisamente, in una maniera determinata; ciò è dovuto alal loro organizzazione fisica; così come la loro coscienza. (Nota marginale di Marx)
(2*) Religione . I tedeschi con l'ideologia come tale. (Nota marginale di Marx)
[7] Il termine ironico “critica critica”, come si è visto, designa la critica “assoluta”, “pura”, “divina” di B. Bauer.
[8] Allusione a Stirner.
(3*) La cosiddetta storiografia obiettiva consisteva appunto nel concepire le situazioni storiche separate dall'attività. Carattere reazionario. (Nota marginale di Marx)
[9] Il “mongolismo” o periodo mongolico, nella costruzione storiografica di Stirner, L'Unico e la sua proprietà, è l'era cristiana, l'epoca in cui l'umanità dipende dai pensieri, dalle “idee fisse”.
[10] B. Bauer, Geschichte der Politik, Cultur und Aufklärung des achtzenten Jahrhunderts , 2 voll., Charlottenburg, 1843-45.
[11] L. Feuerbach, Grundsätze der Philosophie der Zukunft, Zürich Winterthur 1843.
[12] Il senso del passaggio che qui è caduto era all'incirca il seguente: se il loro “essere” [contraddice la loro «essenza», questa è certamente una anormalità, ma non un caso disgraziato. Un fatto storico che è fondato su rapporti sociali ben determinati. Feuerbach si contenta di constatare questo fatto; egli interpreta soltanto il mondo sensibile esistente, si pone di fronte ad esso soltanto come teorico, mentre ] in realtà...
(4*) L'errore non sta nel fatto che Feuerbach subordina le cose che si possono toccare con mano, l'apparenza sensibile, alla realtà sensibile constatata attraverso lo studio approfondito dei fatti sensibili, ma nel fatto che in ultima istanza egli non può venire a capo della realtà sensibile senza esaminarla con gli “occhi”, ossia con gli “occhiali”, del filosofo . (Nota di Marx ed Engels).
[13] In italiano nel testo.
[14] Generazione spontanea.
(5*) L'universalità corrisponde: 1) alla classe contra ordine, 2) alla concorrenza, relazioni mondiali, ecc., 3) alla grande consistenza numerica della classe dominante, 4) all'illusione della comunità di interessi (inizialmente questa illusione è vera), 5) all'inganno degli ideologi e alla divisione del lavoro. (Nota marginale di Marx).
[15] Nella filosofia moderna “teodicea” significa “giustificazione di Dio” per ciò che riguarda il problema dell'essistenza del male nel mondo.
(6*) Che costoro sono interessati a conservare le condizioni attuali della produzione. (Nota marginale di Marx) .
(7*) Energia personale degli individui di singole nazioni – tedeschi e americani – energia già per incrocio di razze – donde il cretinismo dei tedeschi – in Francia, Inghilterra, ecc. popoli stranieri trapiantati su un terreno già sviluppato, in America su un terreno tutto nuovo, in Germania la popolazione naturale è rimasta tranquillamente al suo post.o (nota di Marx ed Engels).
[16] Allusione a Stirner, che proclamava di conquistarsi la libertà personale “togliendosi dalla testa” le “idee fisse”.
(8*) La frase che ricorre spesso in San Max, che ciascuno è tutto ciò che è attraverso lo Stato, è in sostanza identica all'affermazione secondo cui il borghese è soltanto un esemplare della specie borghese; affermazione che presuppone che la classe dei borghesi sia esistita già prima degli individui che la compongono. (Nota di Marx ed Engels).
(9*) Non va dimenticato che la stessa necessità di esistere, per i servi della gleba, e l'impossibilità di una economia in grande, che comportava la ripartizione parcellare fra i servi, ridussero ben presto le obbligazioni dei servi verso il signore feudale ad una media di versamenti in natura e di corvèes ; ciò che permetteva al servo di accumulare proprietà mobiliare e quindi facilitare la sua evasione dalla proprietà del signore e gli apriva la prospettiva di riuscire come cittadino; ciò creava anche gradi diversi tra i servi cosicché i servi fuggiti sono già per metà cittadini. Qui appare anche chiaro che i contadini servi in possesso di un mestiere avevano più di tutti possibilità di acquistarsi una proprietà mobiliare. (Nota di Marx ed Engels)

27 luglio 2022