Discorso di Erne Guidi, a nome del CC del PMLI, per il 46° Anniversario della scomparsa di Mao
Gli insegnamenti di Mao sull'imperialismo, la situazione internazionale, l'imperialismo italiano

 
Care compagne, cari compagni, care amiche e cari amici,
un saluto caloroso a tutti voi che siete qui presenti, in particolare al compagno Paolo Babini delegato del Partito dei Carc che fa parte di Unità Popolare, come ogni anno, puntuali e con grande spirito proletario rivoluzionario, siamo qui a commemorare Mao, grande Maestro del proletariato internazionale, dei popoli e delle nazioni oppressi, nel 46° Anniversario della sua scomparsa. Il Comitato Centrale del PMLI, a cui nome mi onoro di parlare, ritiene e lo riterrà per sempre un dovere e un impegno marxisti-leninisti imprescindibili commemorare annualmente Mao per ricordarlo, per trasmettere alle nuove generazioni marxiste-leniniste i suoi immortali insegnamenti e per rilanciare, sulle basi di essi, la nostra azione rivoluzionaria marxista-leninista. Una manifestazione da vivere, prima con la massima concentrazione fisica e mentale e dopo con lo studio e l’applicazione pratica di ciò che abbiamo imparato nelle lotte quotidiane contro il capitalismo e l’imperialismo, per il socialismo e il proletariato al potere.
“Lo studio, il sostegno, la difesa, la propaganda e l’applicazione del pensiero di Mao costituiscono la cartina di tornasole per verificare se un partito o un individuo è un autentico comunista, cioè marxista-leninista, antirevisionista, antiriformista, anticapitalista e antimperialista”. Così ha detto il compagno Giovanni Scuderi, Segretario generale, Maestro, educatore, guida e organizzatore del PMLI.
Quest’anno gli avvenimenti internazionali ci riportano a parlare degli insegnamenti di Mao sull’imperialismo. Una parola che sembrava cancellata dal vocabolario della storia, come avrebbero voluto tutti i reazionari dopo il cosiddetto “crollo del comunismo”. L’aggressione imperialista russa all’Ucraina ha dimostrato ai popoli e ai Paesi di tutto il mondo che l’imperialismo esiste ancora. Il PMLI coglie questa occasione in termini marxisti-leninisti e di classe per spiegare come si presenta oggi l’imperialismo e qual è la relativa contraddizione principale del momento, che determina il nemico da combattere. Non è infatti sufficiente conoscere l’imperialismo in generale e in termini teorici, se poi non si è capaci di analizzarlo concretamente in riferimento alla realtà in corso e alle contraddizioni interimperialiste, come dimostrano le posizioni errate che circolano tra i sinceri comunisti e gli antimperialisti sulla guerra all’Ucraina.
Riflettere perciò sugli insegnamenti di Mao sull'imperialismo e la lotta all'imperialismo è quanto mai attuale, illuminante e utile a comprendere la guerra del nuovo zar Putin all'Ucraina e i pericoli di guerra imperialista mondiale che fanno da sfondo alla lotta senza quartiere tra l'imperialismo dell'Ovest e l'imperialismo dell'Est per la conquista dell'egemonia mondiale.
In Cina Mao è ancora vivo. Il nuovo imperatore Xi Jinping non è riuscito a cancellarlo dalla mente e dall’opera degli autentici comunisti cinesi. Come dimostra il messaggio di saluto che un giovane comunista cinese ha inviato a questa commemorazione di Mao. Il PMLI farà l’impossibile per sostenere questo compagno e quanti assieme a lui lottano contro la dittatura fascista di Xi e per la restaurazione del socialismo in Cina.
 
L’imperialismo
L’imperialismo non vuol dire solo guerre, aggressioni e sfruttamento dei popoli. Vuol dire anche pandemie perché saccheggia l’ambiente e l’ecosistema, inquina terre e mari, pratica l’allevamento intensivo degli animali e distrugge tutti gli habitat naturali nel nome della ricchezza e del massimo profitto di un pugno di capitalisti. La pandemia per coronavirus ha portato la morte di 6 milioni e mezzo di persone nel mondo, oltre 175mila in Italia. Di fronte a tutto ciò non dobbiamo aver paura di dire le cose come stanno, ossia che la strage del coronavirus grava sulle spalle dell’imperialismo e su quelle dei suoi governanti.
Nei due anni di pandemia i 10 uomini più ricchi del mondo hanno raddoppiato le proprie fortune, mentre nel mondo si stima che 163 milioni di persone in più sono cadute in povertà. Lo spiega il rapporto pubblicato il 17 gennaio di quest’anno da Oxfam, “La pandemia della disuguaglianza”. In questo periodo i 10 uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni, passati da 700 a 1.500 miliardi di dollari, al ritmo di 15mila dollari al secondo, 1,3 miliardi di dollari al giorno. I 10 super ricchi detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio del 40% più povero della popolazione mondiale, composto da 3,1 miliardi di persone. Dall’inizio dell’emergenza Covid-19, ogni 26 ore un nuovo miliardario si è unito ad una élite composta da oltre 2.600 super ricchi le cui fortune sono aumentate di ben 5 mila miliardi di dollari, in termini reali, tra marzo 2020 e novembre 2021. Il surplus patrimoniale del solo Jeff Bezos, padrone di Amazon, nei primi 21 mesi della pandemia (+81,5 miliardi di dollari) equivale al costo completo stimato della vaccinazione (due dosi e booster) per l’intera popolazione mondiale.
Mentre nella notte del 17 giugno all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) di Ginevra gli interessi multimiliardari di BigPharma e dei paesi ricchi dell’occidente hanno vinto sul diritto alla salute di due terzi dell’umanità, nessuna sospensione dei brevetti sui vaccini è stata decisa, nonostante la richiesta avanzata da tempo da India e Sudafrica assieme ad un centinaio di paesi poveri e migliaia di personalità e organizzazioni a livello mondiale, nel mondo oltre tre miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile, mentre essa viene quotata in borsa, circa un decimo della popolazione mondiale, oltre 800 milioni di persone è sottoalimentato, mentre i ripetuti vertici del G20 non risolvono il problema dell’ambiente e del clima, sacrificati ancora una volta nel nome del massimo profitto.
L’imperialismo russo ha scatenato l’aggressione all’Ucraina. Secondo l’Onu, la guerra in Ucraina ha già causato la morte di oltre 6.000 civili accertati, altre fonti parlano di oltre 26.000 con un bilancio in tragico aggiornamento di giorno in giorno e ha costretto quasi sette milioni di persone a diventare rifugiati. Questi numeri non includono almeno 50.000 morti militari e i più di 8 milioni di sfollati all’interno dell’Ucraina. La guerra ha provocato la distruzione e il saccheggio di intere città la cui ricostruzione richiederà decenni. Questa brutale invasione del nuovo zar russo Putin, con i bombardamenti sulle città e migliaia di vittime civili, tra cui anziani e bambini, non ha alcuna giustificazione. Anche qui dobbiamo essere chiari e diretti. Come lo è stato il compagno Giovanni Scuderi, nell’importantissimo Comunicato dell’Ufficio stampa del PMLI del 24 febbraio dal titolo “Isolare l’aggressore russo” emesso qualche ora dopo l’aggressione. Un comunicato con un alto contenuto ideologico, politico e strategico, un modello di analisi marxista-leninista dell’attuale situazione dell’imperialismo. “Il PMLI - vi si legge – condanna fermamente l'aggressione della Russia all'Ucraina. Come si deduce dal suo discorso del 21 febbraio, il nuovo zar Putin vuole restaurare l'impero russo zarista, approfittando dell'inconcludenza degli USA, della NATO e dell'UE. La conquista dell'Ucraina è il primo obiettivo, successivamente cercherà di annettersi, in una forma o nell'altra, altri paesi che facevano parte dell'impero zarista. Va fermato: l'unica via è la resistenza armata del popolo e del governo ucraino, e l'isolamento politico, diplomatico, economico e commerciale della Russia da parte di tutti i paesi amanti della pace e dell'indipendenza e della sovranità nazionali. Che lo facciano subito il governo Draghi e il parlamento italiano e, al contempo, dichiarino l'uscita dell'Italia dalla NATO e dall'UE. L'eventuale risposta militare contro la Russia da parte degli USA, della NATO e dell'UE vorrebbe dire la guerra mondiale, che va assolutamente scongiurata. In ogni caso l'Italia non vi deve partecipare, altrimenti il popolo italiano dovrà insorgere per impedirglielo. Non possiamo appoggiare né l'imperialismo dell'Est né l'imperialismo dell'Ovest, bisogna essere contro ogni imperialismo. L'imperialismo, qualsiasi sia la sua faccia, è il nemico mortale di tutti i popoli del mondo”.
Poi nell’Editoriale per il 45° Anniversario della fondazione del PMLI del 4 aprile scorso ha aggiunto: “Non è accettabile l'obiettivo dichiarato del nuovo zar Putin nel famigerato discorso del 21 febbraio scorso, in cui si attaccano falsamente Lenin e Stalin per aver creato lo Stato dell’Ucraina, di voler ‘demilitarizzare’ e ‘denazificare’ l’Ucraina. Ancor più non è accettabile l’obiettivo non dichiarato di Putin che è quello di annettere l’Ucraina alla Russia in base all’infondata tesi che l’Ucraina fa parte integrante della Russia. E’ evidente che Putin vuole restaurare l’impero zarista. Non bisogna quindi – continua Scuderi - dare alcun appiglio a Putin per giustificare la sua aggressione all'Ucraina, Stato sovrano e indipendente; bisogna invece isolare l'aggressore russo sui piani politico, diplomatico, economico e commerciale e appoggiare l'eroica Resistenza del popolo, dell'esercito e del governo dell'Ucraina. Non tutti gli antimperialisti lo capiscono perché, oltre a essere confusi dalla propaganda menzognera di Putin, dei suoi sostenitori e dei suoi agenti, come Manlio Dinucci, sono condizionati dal fatto che l'Ucraina è appoggiata anche dagli USA, dalla NATO e dall'UE imperialisti”. Ma ciò, compagne e compagni, se ci pensate bene non dovrebbe essere un problema se si pensa che Mao si alleò con i nazionalisti reazionari del Kuomintang contro l’imperialismo giapponese che aveva proditoriamente aggredito la Cina, o nella seconda guerra mondiale, dove, come prosegue Scuderi, “l'URSS di Stalin si alleò con l'imperialismo americano e con quello di altri Paesi per respingere l'aggressore imperialista tedesco. Certamente gli alleati imperialisti dell'Ucraina hanno i loro obiettivi politici, economici e militari strategici contro l'imperialismo russo, ma questo non è un buon motivo da parte degli antimperialisti per non stare dalla parte dell'Ucraina aggredita. Le superpotenze imperialiste dell'Ovest e quelle dell'Est, Cina e Russia, si contendono la nuova spartizione e il dominio del mondo, non si può quindi stare con le une o con le altre; quando un qualsiasi paese, anche se capitalista, viene aggredito da una di esse bisogna stare dalla sua parte. In base ai principi che la sovranità, l’indipendenza e la libertà di ogni paese sono inviolabili; che ogni popolo è padrone del proprio destino; che ogni nazione ha il diritto all’autodeterminazione; che l’antifascismo, l’antinazismo, così come la rivoluzione e il socialismo non si esportano con le armi”. Il sostegno alla guerra d’aggressione russa è quindi un grave errore politico.
Il nostro discorso sull’imperialismo si basa sugli insegnamenti dei grandi Maestri del proletariato internazionale, Lenin, Stalin e Mao che hanno applicato e aggiornato gli insegnamenti di Marx e Engels sul capitalismo non ancora giunto nella fase dell’imperialismo. La celebre opera di Lenin del 1916 “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”, oggi più attuale che mai, ne è la base. Essa dimostra che l’imperialismo dei nostri giorni conserva infatti interamente le stesse caratteristiche attribuitegli da Lenin, ossia il dominio dei monopoli, la creazione di un’oligarchia finanziaria, l’importanza crescente dell’esportazione di capitali rispetto all’esportazione di merci, la competizione nella redistribuzione di nuovi mercati e territori. Esito ultimo dell’analisi leninista dell’imperialismo è la seguente conclusione: "L'imperialismo è un particolare stadio storico del capitalismo. E questa particolarità è triplice: l'imperialismo è (1) - capitalismo monopolistico; (2) - capitalismo parassitario e imputridente; (3) - capitalismo morente".
Stalin nella sua opera "Principi del leninismo" ci ha insegnato la tattica antimperialista da adottare: "Nelle condizioni dell'oppressione imperialistica, il carattere rivoluzionario del movimento nazionale non implica affatto obbligatoriamente l'esistenza di elementi proletari nel movimento, l'esistenza di un programma rivoluzionario o repubblicano del movimento, l'esistenza di una base democratica del movimento. La lotta dell'emiro afghano per l'indipendenza dell'Afghanistan è oggettivamente una lotta rivoluzionaria, malgrado il carattere monarchico delle concezioni dell'emiro e dei suoi seguaci, poiché essa indebolisce, disgrega, scalza l'imperialismo... La lotta dei mercanti e degli intellettuali borghesi egiziani per l’indipendenza dell’Egitto – continua Stalin -, è, per le stesse ragioni, una lotta oggettivamente rivoluzionaria, quantunque i capi del movimento nazionale egiziano siano borghesi per origine e appartenenza sociale e quantunque essi siano contro il socialismo... E non parlo del movimento nazionale degli altri paesi coloniali e dipendenti più grandi, come l'India e la Cina, ogni passo dei quali sulla via della loro liberazione, anche se contravviene alle esigenze della democrazia formale, è un colpo di maglio assestato all'imperialismo, ed è perciò incontestabilmente un passo rivoluzionario". Queste frasi di Stalin ribadiscono e al tempo stesso attualizzano alla situazione odierna un principio fondamentale del marxismo-leninismo-pensiero di Mao che ci permette di orientarci correttamente nei confronti delle lotte antimperialiste, per quanto complesse, peculiari e diverse appaiono tra loro. Come in tutti i fenomeni si tratta sempre di individuare la contraddizione principale che è la lotta antimperialista, la lotta di popolo contro l'occupante militare oppressore, la lotta di liberazione nazionale dall'aggressore straniero. Ed è questa che va appoggiata senza tentennamenti e riserve, senza farsi condizionare dalla propaganda dell'imperialismo, che sia dell’Ovest o dell’Est, che taccia di terrorista qualsiasi forza o movimento osi impugnare le armi e combattere contro la sua rapacità e prepotenza.
Per Mao l’imperialismo, in ultima analisi, non è così potente e invincibile come appare. Può essere sconfitto anche da un piccolo popolo purché questo sia unito, determinato, deciso a impugnare le armi e a proseguire la lotta fino alla vittoria. Al grande raduno di massa in Piazza Tian an Men a Pechino del 20 maggio 1970 Mao lesse una storica dichiarazione in appoggio alla lotta dei popoli del mondo contro l’imperialismo americano che ben si adatta all’attuale conflitto tra Russia e Ucraina: “Un paese debole può vincere un paese forte, e un piccolo paese può vincere un grande paese. Se il popolo di un piccolo paese osa sollevarsi per la lotta, osa impugnare le armi e prende nelle mani il destino del proprio paese, sarà certamente in grado di conquistare la vittoria sull’aggressione da parte di un grande paese. Questa è una legge della storia. Popoli di tutto il mondo unitevi per sconfiggere gli aggressori americani e tutti i loro lacché”.
In precedenza, il 14 luglio del 1956, ne “L’imperialismo americano è una tigre di carta” Mao aveva affermato: “Se una cosa è grande, non bisogna averne paura. Ciò che è grande è destinato a essere rovesciato da ciò che è piccolo, e questo diventerà grande. (…) Chi dispone di forze esigue, ma è legato al popolo, è forte; chi dispone di forze ingenti, ma è contro il popolo, è debole (…) I grandi e potenti non riescono a vincere, i piccoli e deboli finiscono sempre per vincere. (…) Tutta la storia, la storia di alcuni millenni della società umana divisa in classi conferma questo assunto: i forti devono cedere il posto ai deboli. (…)
Una grande pace potrà aversi solo dopo che l'imperialismo sarà stato annientato. Verrà il giorno in cui la tigre di carta sarà distrutta. Ma essa non si distruggerà da sé saranno necessarie raffiche di vento e scrosci di pioggia.
Quando definiamo l’imperialismo americano una tigre di carta parliamo in termini strategici. Da un punto di vista complessivo dobbiamo disprezzarlo, ma in ogni situazione specifica dobbiamo prenderlo sul serio. È dotato di artigli e di zanne. Per venirne a capo bisogna strappargliele una alla volta. Mettiamo che abbia dieci zanne: la prima volta gliene strappiamo una, gliene restano nove; la seconda volta un’altra e gliene restano otto. Quando gli abbiamo strappato tutte le zanne, gli restano gli artigli. Se procediamo gradualmente e coscienziosamente, alla fine ci riusciremo.
Sul piano strategico bisogna assolutamente disprezzare l’imperialismo. Sul piano tattico bisogna prenderlo sul serio. Combattendo contro di esso bisogna prendere sul serio ogni battaglia, ogni aspetto specifico. Adesso gli Stati Uniti sono molto forti, ma se li consideriamo in un ambito più vasto nell’insieme della situazione e in una prospettiva di lungo periodo, essi sono impopolari, la loro politica non piace perché opprimono e sfruttano i popoli. Per questo la tigre è destinata a morire. Quindi non è terribile, la si può disprezzare. (...)
Noi ci troviamo nelle stesse condizioni dei nostri amici dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa dato che facciamo lo stesso lavoro: operare nell’interesse del popolo per ridurre l’oppressione dell’imperialismo. Se lavoriamo bene, questa oppressione può essere radicalmente eliminata. In questo siamo compagni.
Nella lotta contro l’oppressione imperialista, tra noi e voi c’è un’identità sostanziale, le differenze riguardano l’area geografica, la nazionalità e la lingua. Con l’imperialismo abbiamo invece una differenza di carattere sostanziale, la sola vista dell’imperialismo ci fa star male.
A che serve l’imperialismo? Il popolo cinese non lo vuole e nemmeno i popoli di tutto il mondo. L’imperialismo non ha alcun motivo di esistere."
 

L’imperialismo americano
Gli Stati Uniti sono ancora oggi la prima potenza imperialista a livello mondiale. La prima economia e la prima potenza militare e il principale produttore di armi nel mondo. Le sue 750 basi in 80 paesi toccano i cinque continenti, il suo ruolo egemone nella NATO persiste dalla fondazione di essa. Eppure col passare degli anni e soprattutto dall’ingresso nel nuovo secolo la superpotenza USA ha mostrato un declino che prosegue tutt’oggi, tanto da sentire sempre più il fiato sul collo della superpotenza imperialista cinese che la sta insidiando in tutti i campi, economico, politico, finanziario e commerciale, divenendo di fatto il suo pericolo numero uno nella lotta per l’egemonia mondiale.
L'imperialismo americano, col viaggio di Biden in Corea del Sud e Giappone dal 20 al 24 maggio, ha messo in evidenza che anche nel pieno della guerra all’Ucraina la sua priorità strategica resta il contenimento dell’ascesa del socialimperialismo cinese nell'Indo-Pacifico, accelerata dal nuovo imperatore Xi Jinping per spingersi alla conquista dell'egemonia mondiale lungo la nuova Via della Seta. Per gli USA il tentativo di abbattere l'influenza e la penetrazione del socialimperialismo cinese nella regione viaggia intanto sul consolidamento delle alleanze politiche e militari, dal QUAD, il cosiddetto “quadrilatero della democrazia” del 2007, con Giappone, India e Australia alla NATO asiatica, l'AUKUS, siglato lo scorso ottobre con Australia e Gran Bretagna e con la creazione di nuove alleanze economiche che non ricalchino lo schema ritenuto oramai superato dalla Casa Bianca dei consueti accordi di libero scambio multilaterali e centrati sullo sviluppo degli affari facilitato dalla riduzione dei dazi ma che seguano l'obiettivo di costruire un blocco commerciale e economico fra paesi che sono alleati a tutti i livelli. A questo obiettivo risponde proprio il nuovo accordo economico regionale, l’Indo-Pacific Economic Framework (IPEF), indicato da Biden a Tokyo come "la nuova piattaforma economica che sarà introdotta per ostacolare l'espansionismo della Cina". E che non riguarda solo l'area Asia-Pacifico ma la regione Indo-Pacifico per tirare dentro l'altro gigante imperialista, l'India di Modi, raggiungendo il 40% del Pil mondiale. Al Segretario di Stato americano Antony Blinken il 26 maggio all'Università George Washington, il prestigioso ateneo privato a due passi dalla Casa Bianca, è spettato il compito di illustrare quella che è la risposta americana, la strategia dell'imperialismo americano contro il socialimperialismo cinese, quella che porterà verso lo scontro diretto a tutto campo per il dominio del mondo. “Dobbiamo rimanere concentrati sulla più seria sfida a lungo termine all'ordine internazionale rappresentata dalla Cina che possiede il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per rimodellare l'ordine internazionale”. Questa la sintesi della strategia USA: “Investire, allineare, competere” .
Tuttavia la superpotenza imperialista americana non dimentica il suo ruolo egemone nella NATO imponendo ai suoi alleati europei le linee della strategia militare dell’imperialismo USA nel 21° secolo adottate sotto la guida di Clinton, Bush, Obama, Trump e Biden. A partire dall’allargamento a Est voluto fortemente da Washington in funzione antirussa, che in meno di 20 anni ha inglobato ben 15 paesi dell’Est e del Nord Europa, comprendendo gli ultimi Svezia e Finlandia, fino al varo del nuovo concetto strategico in previsione della guerra mondiale avvenuto all’ultimo vertice NATO di Madrid di fine giugno, dove, per la prima volta, hanno invitato unilateralmente senza chiedere il consenso ai membri europei i rappresentanti della difesa di Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del Sud, passando dalle vere e proprie bacchettate a quei paesi membri riluttanti a seguire le direttive della Casa Bianca, come nel caso dell’imposizione a destinare almeno il 2% del Pil alle spese militari in funzione delle nuove necessità operative aggressive dell’Alleanza atlantica.
Così come, nonostante la bruciante sconfitta in Afghanistan e la sua leadership insidiata dall’imperialismo russo in Medioriente, gli USA continuano a bombardare in Siria, come avvenuto il 24 agosto contro gruppi alleati dell’Iran, lanciando messaggi precisi a Assad e a Teheran sul fatto che non si ritireranno dal paese e dall’intera zona.
Che alla sua guida ci sia un repubblicano o un democratico poco cambia, gli Stati Uniti non sono per niente la “patria della democrazia” e dei “diritti civili e umani”. Basti pensare che il suo presidente uscente, il golpista Trump, è ancora indagato, in quanto ideatore e provocatore dell’assalto al Congresso USA del 6 gennaio 2021 contro l’elezione di Biden, dove nell’irruzione e scontri morirono 5 persone.
L’imperialismo americano è il principale violatore dei diritti umani, in casa sua e in tutto il mondo. Guerre di aggressione ingiustificate, bombardamenti contro la popolazione civile, prigioni clandestine che utilizzano i più efferati metodi di tortura, imposizione di misure unilaterali illegali contro le economie di diversi paesi. È l’unico paese che ha osato usare armi nucleari contro un altro paese, il Giappone durante la seconda guerra mondiale, generando centinaia di migliaia di morti. Un paese che calpestando il diritto internazionale, per restare alla storia recente, ha invaso l’Iraq nel 1991 e nel 2003 coprendosi dietro la falsità della ricerca di armi di distruzione di massa, mai trovate, provocando più di un milione di morti, l’Afghanistan nel 2001, a seguito degli attentati dell’11 settembre, che ha guidato la coalizione internazionale contro la Jugoslavia nel 1999 per stroncare il nascente euro che aveva messo in dubbio il predominio assoluto del dollaro come moneta di riferimento internazionale e per tenere sotto controllo i Balcani, che non ha avuto remora alcuna ad assassinare i leader dei movimenti islamici antimperialisti, a partire da Bin Laden in Pakistan nel 2011, Abu Bakr al Baghdadi in Siria nel 2019, il generale iraniano Qassem Soleimani in Iraq nel 2020, Abu Ibrahim al Quraishi in Siria lo scorso febbraio, Ayman al Zawahiri in Afghanistan il 2 agosto scorso, violando impunemente la sovranità territoriale degli Stati in cui si trovavano.
Tra il 1992 e il 2017 gli Stati Uniti hanno effettuato 188 interventi militari, quadruplicando le aggressioni belliche rispetto all’era della “guerra fredda” e attualmente sono il Paese che investe più di ogni altro nelle spese militari nel mondo. Secondo i dati dell’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (SIPRI), aggiornati a tutto il 2021, l'America del Nord spende 801 miliardi di dollari, pari al 3,7% del suo prodotto interno lordo, ma soprattutto pari al 39% dell'intera spesa militare di tutte le nazioni mondiali (2.001 miliardi di dollari).
Mao conosceva bene l’imperialismo americano. Nella Dichiarazione in appoggio alla resistenza del popolo dominicano e contro l’aggressione armata americana del 12 maggio 1965 affermava: “Gli Stati Uniti intervengono con le armi nella Repubblica dominicana, in nome della ‘difesa della libertà’. Che cosa è dunque questa ‘libertà’? La libertà di massacrare gli altri popoli con gli aerei, le navi da guerra, e i cannoni. La libertà di occupare dei territori, di mettersi sotto i piedi la sovranità delle altre nazioni a proprio piacimento, la libertà di uccidere e di saccheggiare come banditi di strada. La libertà di schiacciare gli altri paesi e gli altri popoli sotto i propri stivali. In questo modo gli Stati Uniti si stanno comportando nella Repubblica dominicana, nel Vietnam, nel Congo-Leopoldville e in numerosi altri luoghi”.
Se l’attacco dell’11 settembre 2001 mostrò la vulnerabilità di una superpotenza che si riteneva invincibile, le gestioni delle crisi seguenti, dalla Siria all’Iran, dal Venezuela a Hong Kong, passando dalle recenti Afghanistan e Ucraina, hanno dimostrato che gli oneri accumulati durante l’ormai secolare egemonia sono al di sopra delle sue forze attuali. Con le politiche antirecessione varate durante la pandemia, 5.000 miliardi di dollari di spesa pubblica fra Trump e Biden, 8.900 miliardi di liquidità immessi nell’economia dalla Banca centrale, gli USA sono entrati nel novero dei paesi con un debito pubblico superiore al 100% del Pil. Un paese in cui più di 40 milioni di persone vivono in povertà, il numero dei senzatetto raggiunge i 3,5 milioni, il 28% delle persone in condizioni di povertà non ha alcuna copertura sanitaria. Quasi il 20% delle famiglie statunitensi ha perso tutti i propri risparmi durante la pandemia e più di 60.000 persone vivono per strada dopo aver perso la propria casa.
10 mila bambini si trovano in carceri per adulti, uno dei pochi paesi al mondo dove i bambini possono essere condannati all’ergastolo. Gli USA sono uno dei 7 paesi al mondo che non ha ratificato la convenzione per l’eliminazione della discriminazione contro le donne, mentre la Corte Suprema statunitense, il 23 giugno scorso, ha abolito il diritto all’aborto riconosciuto dalla stessa Corte nel 1973. Questo funesto verdetto che cancella uno dei diritti fondamentali delle donne americane, e non solo, in sostanza dà il potere a ogni singolo Stato di applicare la sua legge in materia di aborto. Gli USA hanno deciso con Trump di costruire un muro al confine col Messico e emanato leggi che stabiliscono il pagamento del 7% di tasse sulle rimesse degli immigrati per finanziarlo, mentre nel giugno del 2021 Biden ha inviato il suo braccio destro Kamala Harris in America Centrale a dire che “le frontiere restano chiuse. Restate perché non vi accoglieremo”. Un paese in cui la discriminazione razziale non solo non è superata, ma esacerbata dalle politiche razziste e xenofobe di Trump prima e Biden ora, che ha provocato la nascita nel 2020 del movimento di massa “Black Lives Matters” (“Le vite dei neri contano”), nato dopo la morte violenta dell’afroamericano George Floyd, causata dagli agenti di polizia di Minneapolis durante un arresto, che non ha ratificato l’accordo sul clima di Parigi né tantomeno quello sull’uso delle armi nucleari all’ONU.
 
L’imperialismo cinese
La Cina di oggi non è più la Cina di Mao. È un paese capitalista e imperialista in tutto e per tutto, dalla salita al potere del rinnegato e traditore Deng Xiaoping nel 1979, in cui l'imprenditoria privata rappresenta già il 60% del Pil e l'80% dei posti di lavoro. Il PMLI ne ha parlato più volte e l'ha documentato attraverso "Il Bolscevico", organo del PMLI. Eppure per diversi partiti che si definiscono comunisti essa è ancora un paese socialista. Ma quale classe vi detiene il potere politico? La borghesia o il proletariato? Il potere risiede nella struttura economica, ed essendo questa struttura di tipo capitalista, perché sappiamo che è basata sulla proprietà privata e il libero mercato, mentre il proletariato è sfruttato come e più che in un qualsiasi altro paese capitalista, il potere reale non può che essere in mano alla classe borghese; sia pure (ma non soltanto, vedi i grandi finanzieri miliardari di statura internazionale che anche in Cina non mancano) sotto le sembianze di un'oligarchia burocratica che controlla lo Stato e il partito. Il fatto che sia il Partito Comunista Cinese a controllare l'economia non garantisce affatto che tale economia possa chiamarsi socialista, se questo partito di comunista ha conservato solo il nome come un paravento per ingannare le masse ed è in realtà in mano alla borghesia.
La cricca borghese socialimperialista di Pechino utilizza il partito come strumento di potere e di controllo delle masse e dell'economia, il partito che le ha consentito di restaurare il capitalismo. Il tanto sbandierato "miracolo" economico è stato pagato dal proletariato e dalle masse popolari : licenziamenti di massa e uno sfruttamento a livelli ottocenteschi dei lavoratori, che non per nulla provocano suicidi, ma anche sempre più frequenti scoppi di ribellione operaia, e uno spopolamento delle campagne e mostruose migrazioni di massa nelle città, ribaltando le indicazioni di Mao e la tendenza a ripopolare la campagna impressa dalla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, con una crescita della popolazione residente nelle città che è balzata dal 40,6% al 58,52% sul totale, e si prevede debba salire ancora.
A ciò si aggiunga la crescita esponenziale delle disuguaglianze, a tutti i livelli: tra ricchi e poveri, tra le coste e l'entroterra, con la trasformazione del glorioso PCC in un comitato d'affari di un'oligarchia burocratica e imprenditoriale, dove regnano affarismo, corruzione e nepotismo, e con la nascita di una casta di veri e propri supermiliardari. Come il fondatore di Alibaba, Jack Ma, premiato da Xi tra i "100 pionieri della Grande apertura e delle Riforme", che con 39 miliardi di dollari di patrimonio è tra i primi 26 nababbi al mondo, secondo il recente rapporto Oxfam. Per non parlare dello sfruttamento intensivo e dissennato delle risorse naturali e dell'inquinamento dell'ambiente, che ha ormai raggiunto livelli catastrofici, le emissioni carboniche della Cina sfiorano il 30% del totale mondiale, più del doppio degli Stai Uniti, più della somma tra Stati Uniti e Unione europea, nonché dello sfruttamento intensivo del genere animale. Non è un caso che l’attuale pandemia di Covid-19 sia partita dal contagio dei lavoratori del mercato umido di Wuhan, in cui si vendevano pesce e altri animali, anche vivi.
Oggi la Cina è guidata dal nuovo imperatore a vita Xi Jinping, così nominato dall’Assemblea nazionale del popolo sostenitrice del capitalismo nel marzo 2018, acclamato in precedenza dal 19° Congresso del PCC dell’ottobre del 2017 insieme alla sua nuova teoria denominata nel nuovo Statuto del Partito “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”. Un plenum che ha ribadito come la Cina si trovi "nello stadio primario del socialismo e vi rimarrà a lungo". Durante questa prima fase al "socialismo" è consentito accumulare risorse anche attraverso il mercato, ma non è dato sapere né come né quando potrà passare alla fase successiva. Ciò non ha niente a che vedere con il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e con l'autentico sviluppo della società socialista ben illustrato da Marx: "Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato". Come aggiunge Lenin, nel socialismo "non sarà più possibile lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, poiché non sarà più possibile impadronirsi, a titolo di proprietà privata, dei mezzi di produzione, fabbriche, macchine, terreni, ecc.". Sembra parlare ai revisionisti cinesi di oggi, Mao quando afferma: "Il nostro programma futuro, o programma massimo, ha come scopo di portare la Cina ad uno stadio superiore, allo stadio del socialismo e del comunismo". L'esatto contrario di Deng Xiaoping, Jiang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping che hanno invertito le ruote della storia e dimostrato che "la salita del revisionismo al potere è la salita della borghesia al potere".
Mao nel 1956 indicò chiaramente la strada da seguire in Cina con queste parole: "Lo scopo della rivoluzione socialista è liberare le forze produttive. La trasformazione della proprietà individuale in proprietà collettiva socialista nel campo dell'agricoltura e dell'artigianato e della proprietà capitalista in proprietà socialista nell'industria e nel commercio privati porterà necessariamente a una materiale liberazione delle forze produttive. Saranno così create le condizioni sociali per un enorme sviluppo della produzione industriale e agricola". Nell'anno successivo sottolineò che il sistema sociale socialista doveva essere consolidato e che "per raggiungere il suo consolidamento definitivo, è necessario non solo realizzare l'industrializzazione socialista del paese e perseverare nella rivoluzione socialista sul fronte economico, ma è anche necessario sui fronti politico e ideologico condurre costanti e ardue lotte rivoluzionarie socialiste e perseverare nell'educazione socialista". La linea violata dal cosiddetto "socialismo con caratteristiche cinesi", l'inganno ideologico dietro cui i revisionisti cinesi mascherano il capitalismo sfrenato agli occhi delle masse popolari.
Nella pratica di oggi l’1% della popolazione cinese possiede già oltre il 33% della ricchezza, mentre il 25% più povero meno del 2%. I recenti festeggiamenti del rinnegato Xi per lo “sradicamento della povertà estrema” nascono dal fatto che essa è calcolata su una base di 1,9 dollari al giorno, mentre il tasso di povertà in Cina raggiunge il 24%, se calcolato sulla base di un reddito giornaliero inferiore a 5,5 dollari. Intanto un giovane cinese su cinque oggi non lavora, come dicono i dati da aprile a luglio che vedono la disoccupazione giovanile galoppare al 20%, mai raggiunta finora. Dati che mostrano chiaramente l’enorme ingiustizia sociale e lo sfruttamento che caratterizza il modo di produzione capitalista cinese.
Se questi dati ci dicono come in Cina il ritorno al capitalismo sia pienamente completato, altri ci dimostrano come il paese sia ormai giunto anche alla fase imperialista, secondo i principi esposti da Lenin. L’esportazione cinese di capitali ha superato l'ammontare del capitale straniero nel paese, negli ultimi anni la Cina è risultata essere il più grande esportatore di capitale in Africa. Da stime recenti si apprende altresì che la Cina ha fatto più prestiti in America Latina della Banca mondiale, della Banca interamericana di sviluppo e della Banca degli Stati Uniti per l’import-export messe assieme. La sua moneta, lo yuan, fa ormai parte del paniere delle divise che compongono il sistema dei diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale. Approfittando della bancarotta dello Sri Lanka a luglio, dove gestisce da tempo la costruzione dei ponti, si è detta disposta ad “acquistare” il paese asiatico con una “gestione adeguata” del debito già contratto dal regime di Colombo e ora impossibile da rimborsare.
Attualmente la Cina è la seconda potenza economica al mondo. Partecipa all’Organizzazione mondiale del commercio, al Fondo monetario internazionale, alla Banca mondiale e a tutti i consessi dell’imperialismo finanziario e economico a livello mondiale. Basti pensare che le obbligazioni statunitensi nelle sole mani cinesi superano gli 1,1 trilioni di dollari. Svolge di fatto il ruolo di guida di tutta una serie di alleanze che puntano alla conquista dei mercati mondiali, come il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) decollato il 1° gennaio di quest’anno, di cui fanno parte i 10 membri dell’ASEAN, nonché proprio la Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Questo accordo rappresenta il più grande accordo commerciale stipulato tra le nazioni, il 30% dell’economia globale e il 30% della popolazione mondiale, raggiungendo circa 2,2 miliardi di consumatori. I suoi obiettivi includono la riduzione delle tariffe commerciali, il rafforzamento delle catene di approvvigionamento sulla base di norme comuni in materia di informazioni sull’origine dei prodotti, nonché la sistematizzazione delle norme che disciplinano il commercio elettronico.
L’imperialismo cinese svolge un ruolo da protagonista anche nel blocco dei BRICS, l’Associazione di cinque paesi tra le maggiori economie emergenti, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che conta più di 3 miliardi di persone rappresentanti di circa un quarto del Pil globale, il 20% del commercio e circa il 25% degli investimenti diretti, mentre il totale delle riserve internazionali all'inizio di quest'anno ammonta a circa il 35% delle riserve mondiali e che si propone di costruire un sistema commerciale globale attraverso accordi bilaterali che non siano basati sul petrodollaro, così come nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), di cui sono membri anche la Russia, l’India e il Pakistan e vari Stati dell’Asia Centrale.
Ma è con la cosiddetta “Nuova via della seta” che il socialimperialismo cinese intende affermarsi nel mondo, partendo dallo sviluppo delle infrastrutture di trasporto e logistica; la strategia di Pechino mira a favorire i flussi di investimenti internazionali e gli sbocchi commerciali per le produzioni cinesi. La “Via della seta” terrestre attraverserà tutta l’Asia Centrale arrivando dalla Cina fino alla Spagna. Quella marittima costeggerà tutta l’Asia Orientale e Meridionale, arrivando fino al Mar Mediterraneo attraverso il Canale di Suez. A questo proposito la Cina dal 2004 al 2021 ha comprato ingenti quote di ben 10 porti europei con un esborso di 5,6 miliardi di euro.
La mastodontica operazione imbastita dal socialimperialismo cinese coinvolgerà fino a 65 nazioni, più di metà della popolazione mondiale, tre quarti delle risorse energetiche e un terzo del prodotto interno lordo globale; rappresenterà il più grande progetto di investimento mai compiuto prima, superando di almeno 12 volte il Piano Marshall dell’imperialismo americano all’indomani della seconda guerra mondiale.
Se, come riconosciuto all’ultimo vertice tra Cina e i paesi dell’America latina e dei Caraibi del dicembre scorso, gli investimenti di Pechino sono notevolmente aumentati in quello che era il “cortile di casa” dell’imperialismo americano mentre le importazioni sono cresciute del 40% nell’ultimo anno, gli artigli di Pechino si stanno conficcando anche nel continente africano. Per sostenere la rapida crescita economica la Cina ha sempre più bisogno di risorse naturali di cui l’Africa dispone in abbondanza e la cui estrazione e trasformazione è resa possibile dalle nuove infrastrutture costruite da società cinesi. Gli accordi con l’Unione Africana per la realizzazione di infrastrutture e partnership industriali di oltre 40 miliardi di dollari, segnatamente in Algeria, Sudan, Mauritania, Ciad, Congo e Angola, funzionali all’esportazione di capitale cinese e a privare questi paesi di ingenti ricchezze, mentre quel che resta ai paesi depredati non va certo a finire nelle tasche delle popolazioni locali ma in quelle dei corrottissimi notabili africani, visto che anche laddove i cinesi reclutano forza-lavoro autoctona lo fanno in cambio di salari di fame e di condizioni considerate disumane. Sempre in Africa, a Gibuti, troviamo anche una grande e strategica base militare cinese con circa 10.000 soldati e navi da guerra veloci, mentre un’altra è in costruzione sulla costa atlantica dell’Africa, nella Guinea Equatoriale, in un territorio limitato ma ricco di petrolio ed in una posizione altrettanto strategica. Accordi per la costruzione di basi militari cinesi all’estero sono stati siglati recentemente tra Pechino e il Tagikistan, le Isole Salomone e con la Cambogia. Altresì la Cina si è appropriata, agendo con prudente silenzio, di una parte dell’ex base americana di Bagram, in Afghanistan, nella quale conduce corsi di addestramento per le unità talebane chiamate a contrastare l’Isis.
Il record storico dell’attivo commerciale cinese a 676 miliardi di dollari a fine 2021 ha dimostrato insieme al primo test cinese di missili ipersonici, che accorcerebbero di molto i tempi per un attacco al territorio americano, il sorpasso della marina militare cinese su quella americana per numero di navi, un traguardo inaudito che sembrava impossibile un decennio fa, che la superpotenza cinese è pronta a dominare il mondo nel prossimo futuro, a livello economico e finanziario ma anche a livello militare. Con un arsenale militare nucleare quello di Pechino che sarà quadruplicato entro il 2027, ben 700 testate, che arriveranno a mille entro la fine del decennio. Al di là delle dichiarazioni di facciata, come quelle recenti di Xi Jinping, per cui la Cina oggi “promuove attivamente la pace nel mondo e la stabilità dell’ordine economico globale”, la corsa al riarmo di Pechino e le ripetute dichiarazioni guerrafondaie del nuovo imperatore della Cina, confermate a ottobre dell’anno scorso dal 5° Plenum del XIX CC del PCC revisionista con l’ordine alle forze armate di rafforzare l’addestramento in condizioni di combattimento reali e di “aumentare le capacità di vincere le guerre”, fino alla firma della legge del 13 giugno che autorizza l'Esercito a condurre "operazioni speciali militari" al di fuori dei propri confini, dimostrano come questa superpotenza socialimperialista stia modernizzando il suo arsenale bellico e si attrezzi per le guerre financo nell’Artico e nello spazio, allargando l’area di controllo diretto negli atolli contesi del Mar Cinese Meridionale e inviando sistematicamente caccia e navi a violare cieli e mare di Taiwan per rimarcare come ha fatto di recente Xi che “riconquistare l’isola è una missione storica del partito”. Lo sa bene l’imperialismo americano che il 2 e 3 agosto ha mandato provocatoriamente in visita a Taipei la presidente della Camera Nancy Pelosi per ricordare la piena disponibilità di Washington al supporto economico e militare dell’isola, suscitando la dura risposta di Pechino che ha accerchiato Taiwan con grandi manovre militari e esercitazioni di attacco simulato e sospendendo la cooperazione con gli USA su alcuni dossier tra cui il clima.
 
L’imperialismo russo
I fatti dimostrano che la Russia è un paese capitalista a tutto tondo, al suo interno vige la legge dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, accompagnata dal dilagare di miseria e povertà della stragrande maggioranza della popolazione, disoccupazione, corruzione. Oggi il 3% dei russi più ricchi possiede l’87% dell’intera ricchezza. Sono gli oligarchi, alti burocrati, avventurieri, contrabbandieri, che, nel caos emergente dei primi tempi dalla dissoluzione dell’URSS non più socialista, si sono impadroniti, con varie forme fraudolente e con la necessaria complicità del potere, dei gangli vitali dell’economia, tra l’altro attraverso la privatizzazione dei grandi gruppi praticamente a costo zero. Il numero di miliardari in un anno (dal 2018 al 2019) è salito da 78 a 110, e quello dei milionari da 172.000 a 246.000. Per contro, il 21% dei russi, stiamo parlando di oltre 31 milioni di persone, vive nella povertà.
La Russia di Putin è imperialista, non solo a livello economico e finanziario con l’esportazione di capitali all’estero e l’acquisizione di grandi aziende in tutto il mondo, ma soprattutto militare. Una nota del Cremlino del 16 maggio dava conto dello svolgimento a Mosca della riunione dei capi di Stato dell'Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) in coincidenza con il 30esimo anniversario della firma del Trattato e del 20esimo anniversario della costituzione del suo organo dirigente, il Consiglio di sicurezza collettiva (CSC), cui avevano partecipato i leader dei paesi membri, Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. La CSTO è l'alleanza militare imperialista costituita il 15 maggio 1992 e formata nei primi anni di vita da nove paesi della dissolta Unione sovietica che per similitudine viene anche definita la Nato russa; il Consiglio è stato istituito il 14 maggio 2002. Da un punto di vista militare i cinque paesi non russi dell'alleanza contano numericamente e qualitativamente ben poco rispetto allo Stato guida, l'imperialismo russo, ma al nuovo zar Putin serviva lo stesso una immagine dello schieramento dei suoi alleati vicini, non sempre perfettamente allineati con Mosca e nell'occasione richiamati all'ordine dalla fida Bielorussia, da contrapporre a quella dello schieramento degli imperialisti occidentali che uniti dietro gli USA stanno bloccando le sue ambizioni espansioniste manifestate con la criminale invasione dell'Ucraina.
In Africa la Brigata “Wagner”, un’organizzazione fondata dal neonazista Dmitri Utkin, e altre milizie dell’esercito di dichiarata natura neonazista e composte da mercenari scelti direttamente dal Cremlino, sono determinanti per la stabilità del generale Khalifa Haftar a Bengasi in Libia; in Mali hanno preso il posto dei contingenti di occupazione francesi ritirati da Parigi; in Sudan la Russia di Putin lavora alla creazione di una base militare sul Mar Rosso e nella Repubblica Centroafricana si è posta a guardia delle locali miniere d’oro e diamanti da cui dipendono le casse nazionali e da cui si originano ogni sorta di traffici.
Ma è soprattutto forte del suo ruolo svolto in Siria e nell’intero Medioriente che l’imperialismo russo è tornato prepotentemente a far sentire la sua voce nel mondo e insediarsi con successo lungo il fianco sud della NATO. Garantendo Assad il Cremlino ha garantito se stesso e il rinnovato ruolo internazionale della superpotenza imperialista russa, da tempo ormai presente nella regione con basi militari stabili. In Siria gli è stata concessa quella aerea di Latakia e una marina a Tartus, sul Mar Mediterraneo, obiettivo primario di imposizione della propria presenza nella regione fin dall’ingresso nella guerra siriana del settembre 2015. Addirittura dal 20 luglio il Cremlino ha lanciato l’operazione navale “blocco dell’Adriatico”, con un caccia, un incrociatore, una fregata e una nave spia che si sono spinti fino all’Abruzzo per schermare la portaerei americana “Truman” da tempo in quelle acque. E il 31 luglio Putin ha firmato un documento in cui si indica come strategico il Mediterraneo, dove già schierano 20 navi da guerra.
L’imperialismo russo ha cementato un rapporto sempre più stretto con l’Egitto del golpista al-Sisi che ha accettato di ospitare navi e jet da guerra russi in basi lungo la costa egiziana e che ha partecipato a sorpresa di recente al forum economico di San Pietroburgo, nonché gli accordi col dittatore fascista turco Erdogan, a cui Putin ha venduto il micidiale sistema missilistico S-400, spacciato per difensivo ma poi viene utilizzato dalla Turchia nel massacro del popolo curdo.
Il sogno dell’impero zarista infine, simboleggiato nell’aquila bicipite che campeggia nel tricolore russo putiniano, è passato dagli interventi militari in Georgia, Ossezia del Sud e Abkhazia, fino all’annessione della Crimea. Per approdare ora all’invasione dell’Ucraina, spacciata per “demilitarizzazione” e “denazificazione”. Visti i punti di riferimento della Federazione Russa ci chiediamo con quale credibilità uno Stato del genere possa intraprendere la lotta contro il fascismo e il nazismo. L’ideologo di Putin, è Alexander Dugin, osannato dalla destra neonazista internazionale. Il suo teorema centrale è “l’idea eurasiatica”, cioè la difesa di una grande “Eurasia” dominata dalla Russia, che si oppone culturalmente al “mondo occidentale”, cioè al liberalismo e alla “globalizzazione”, che minerebbero la coesione delle nazioni. Anche il socialismo viene rifiutato, ovviamente. È questa la visione putiniana del “mondo multipolare”. A livello storico invece Putin fa riferimento all’intellettuale Ivan Ilyin, uno dei principali sostenitori della controrivoluzione “bianca” nel dopo Rivoluzione d’Ottobre e in seguito fascista dichiarato. La sua opera principale, “I nostri compiti”, è stata inviata a tutti gli alti funzionari e ai governatori regionali della Federazione Russa nel 2014, prima dell’annessione della Crimea. Ilyin invocava uno Stato leader tradizionalista in Russia, che avrebbe resistito aggressivamente a tutti i tentativi stranieri di destabilizzarlo e di smembrarlo. Ciò che blatera oggi il nuovo zar del Cremlino, che proponendosi come il suo erede e continuatore, nell'incontro del 9 giugno con giovani imprenditori e ingegneri, ha voluto paragonare l'attuale aggressione all'Ucraina alla Grande Guerra del Nord condotta dallo zar Pietro il Grande, guerre che, a suo dire, non avrebbero lo scopo di sottrarre e rubare territori ma di restituirli all'impero russo, appoggiato dal partito comunista della Federazione russa, il partito revisionista di Zyuganov, in prima linea nella guerra all’Ucraina, il primo partito a chiedere il riconoscimento delle cosiddette “repubbliche popolari” del Donbass. Come disse Stalin nel discorso per il XXIV Anniversario della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre del 6 novembre 1941: “Se questi imperialisti sfrenati e reazionari acerrimi continuano tuttora a coprirsi della veste di ‘nazionalisti’ e di ‘socialisti’, lo fanno per ingannare il popolo, per abbindolare la gente semplice, per coprire con la bandiera del ‘nazionalismo’ e del ‘socialismo’ la loro brigantesca essenza imperialista. Corvi che si rivestono di penne di pavone… Ma per quanto i corvi si rivestano di penne di pavone non cessano di essere corvi”.
Da tempo l’imperialismo russo ha stretto un patto di ferro col socialimperialismo cinese. Dal 2013 ad oggi, cioè dalla prima crisi tra Russia e Ucraina, e con le prime sanzioni comminate dopo l'annessione della Crimea, sono stati sempre più fitti gli accordi che hanno rafforzato i legami politici, economici, commerciali, energetici e militari tra la Cina e la Russia, stabiliti in centinaia di protocolli firmati in ben 39 incontri fisici e telematici tra Xi e Putin e consolidati, anche se non in una vera e propria alleanza, in quella che essi stessi hanno definito il 4 febbraio scorso a Pechino una “partnership strategica globale di coordinazione per una nuova era”. Contro gli USA e la NATO. E lo hanno fatto inneggiando alla democrazia borghese ritenuta “universale” e invocando un “fronte globale” contro “il terrorismo”, ossia gli antimperialisti islamici.
L’imperialismo russo, come quelli americano e cinese, si ingerisce negli affari interni dei vari paesi, cercando di condizionare la politica dei loro governi in vari modi, anche attraverso propri agenti mascherati, quali sono in Italia Manlio Dinucci, Fosco Giannini, Marco Rizzo, Fabio Mini e Alessandro Orsini. A livello governativo può contare su Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.
 
L’imperialismo europeo
Nata in funzione degli interessi dei rispettivi monopoli che stanno dietro ai governi nazionali e ne dettano la linea per potersi espandere e conquistare nuovi mercati, l’Unione europea è fonte di dominio, oppressione, rapina e sfruttamento dei popoli degli Stati che la compongono, ma anche di quelli dell’Est europeo e dei Balcani che non ne fanno parte e del Terzo mondo. Tutto il suo operato è stato ed è a beneficio del grande capitale a cui ha regalato un mercato unico, che rimane ancor oggi il più grande del mondo. Al pari di quello americano, cinese e russo oggi l’imperialismo europeo richiede un proprio spazio e ruolo nel mondo. Dopo gli ultimi decenni in cui l’euro non è riuscito a soppiantare il dollaro come moneta di riferimento mondiale, e la più devastante crisi economica del capitalismo mondiale dal 1929, l’ha messa in ginocchio dal punto di vista economico, politico, istituzionale e militare. Rispetto alle altre superpotenze l’UE appare oggi la più debole e più in difficoltà.
La guerra all’Ucraina tuttavia le ha fornito l’assist per rilanciarsi. Il 21 marzo scorso il Consiglio dei ministri degli Esteri e della Difesa dell'UE ha approvato a tambur di guerra la “Bussola strategica per rafforzare la sicurezza e la difesa dell'UE nel prossimo decennio”, ossia la direttiva di politica industriale e militare comune che deve portare, “con un calendario di attuazione preciso”, alla costruzione dell'esercito europeo imperialista e interventista.
Lo stesso documento del 21 marzo, approvato e ratificato dal successivo Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo dell'UE del 24 e 25 marzo, sottolinea che la Bussola “fornisce all'Unione europea un ambizioso piano d'azione per rafforzare la politica di sicurezza e di difesa entro il 2030”, a fronte “dell'accresciuta ostilità del contesto di sicurezza” che impone “un deciso salto di qualità”, e che essa “potenzierà l'autonomia strategica dell'UE e la sua capacità di lavorare con i partner per salvaguardare i suoi valori e interessi”. Un linguaggio tipicamente comune alle potenze imperialiste e guerrafondaie. Tutto questo, si tiene a specificare, senza sminuire il ruolo dell'Alleanza atlantica, perché “un'UE più forte e più capace in materia di sicurezza e difesa apporterà un contributo positivo alla sicurezza globale e transatlantica ed è complementare alla NATO, che resta il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri”.
Ciononostante poco dopo si afferma che la “Bussola” dovrà mettere in grado l'Europa di “agire in modo rapido ed energico quando scoppia una crisi, con i partner se possibile e da soli se necessario”: cioè, tradotto, anche al di fuori dell'ambito NATO, tanto più “in un’era di ipercompetitività” come affermato dal presidente della Commissione europea Ursula Van Der Leyen, e a tale scopo si comincerà subito col creare una forza di intervento rapido di 5.000 uomini, assistita da adeguate forze aeronavali per proiettarsi velocemente in qualsiasi teatro di operazioni anche oltre i confini europei, ed un corpo di 200 “esperti di missioni di politica di sicurezza e difesa comune (Psdc) pienamente equipaggiati entro 30 giorni, anche in ambienti complessi”. Saranno inoltre potenziate le capacità di intelligence e della ciberdifesa e sarà sviluppata una “strategia spaziale dell'UE”.
La “Bussola” prevede anche che gli Stati membri si impegnino “ad aumentare in modo sostanziale le spese per la difesa affinché siano all'altezza della nostra ambizione collettiva di ridurre le carenze critiche in termini di capacità militari e civili, nonché per rafforzare la nostra base industriale e tecnologica di difesa europea”. Cosa che molti hanno già cominciato a fare in proprio, vedi il riarmo della Germania da 100 miliardi deciso dal governo di “centro-sinistra” e quello dell'Italia di Draghi.
Si sottolinea poi che oltre a rafforzare la cooperazione con la NATO e altre organizzazioni internazionali di cui fa parte, l'Europa “svilupperà partenariati bilaterali più mirati con paesi e partner strategici che condividono gli stessi principi, come gli Stati Uniti, il Canada, la Norvegia, il Regno Unito, il Giappone e altri”. E svilupperà altresì “partenariati su misura nei Balcani occidentali, nel vicinato orientale e meridionale, in Africa, in Asia e in America latina”, a rimarcare le sue ambizioni non puramente difensive e solo concertate con i suoi alleati, ma anche imperialiste e interventiste per proprio conto su scala globale.
L'approvazione della “Bussola europea”, che dà attuazione all'agenda decisa a Versailles con la creazione del primo nucleo dell'esercito europeo interventista, realizza la proposta già avanzata in sede europea a novembre 2021 dopo lo shock dell'umiliante ritirata delle truppe USA e NATO dall'Afghanistan. Proposta rimasta finora sospesa di fronte all'ostacolo dell'unanimità della decisione, stante l'ostilità dei paesi baltici e dell'Europa orientale, che temevano un indebolimento della NATO, e di altri paesi come Olanda e Danimarca, più legati a Stati Uniti e Gran Bretagna. Ma la guerra di Putin all'Ucraina ha spuntato ogni loro obiezione e fornito ai suoi sponsor – Francia, Germania e Italia in primis – l'occasione giusta per sbloccare il progetto.
Il Consiglio europeo del 24 e 25 marzo, comunque, ha deciso all'unanimità la sua approvazione disponendo di “sfruttare tutto il potenziale degli strumenti e delle iniziative di finanziamento dell'Unione europea, in particolare il Fondo europeo per la difesa e la cooperazione strutturata permanente”, e che entro la fine del 2022 saranno adottate “misure per promuovere e facilitare l'accesso ai finanziamenti privati per l'industria della difesa”, anche coinvolgendo la Banca europea per gli investimenti.
L’UE è un inferno per la classe operaia, i lavoratori e le masse popolari. Povertà e disoccupazione vanno a braccetto con le differenze territoriali, con il razzismo e la xenofobia che bersagliano le decine di migliaia di migranti che bussano alle sue porte. La riduzione della spesa pubblica, per rientrare nel famigerato rapporto deficit/Pil imposto da Bruxelles, si è tradotta in tagli drastici ai servizi essenziali, quali pensioni, istruzione, sanità, trasporto pubblico, ricerca scientifica, infrastrutture necessarie allo sviluppo, assistenza e previdenza, mentre non sono state minimamente toccate le voci di spesa riguardanti, a vario titolo, dallo Stato alle grandi imprese e alle banche private, o le missioni di guerra imperialista in ogni parte del mondo, l’acquisto di nuove armi, o le “grandi opere” inutili per i popoli ma utili ai profitti delle multinazionali del vecchio continente.
Mentre tutti sono d’accordo sulla necessità di rafforzarsi dal punto di vista militare e della politica estera e che l’UE parli al mondo con un’unica, forte e autorevole voce presidenzialista e imperialista, all’interno dell’imperialismo europeo tuttora permangono contraddizioni su vari punti, a partire dall’immigrazione, dove dilagano nazionalismo, razzismo e xenofobia, al rapporto con la Russia di Putin in particolare sulle forniture di gas, al temporaneo stop dei vincoli di Maastricht dovuto alla pandemia, crisi economica e guerra all’Ucraina. Tanto che spesso si formano nuclei separati di alcuni paesi che si riuniscono separatamente per spingere nell’una o nell’altra direzione. E poi c’è Washington che sfrutta i tradizionali nemici dell’integrazione europea, come Regno Unito e Polonia, per costringere l’Europa al traino di questi.
L’UE è irriformabile, bisogna distruggerla, cominciando a tirarne fuori l’Italia. Per le stesse ragioni essa è inutilizzabile da parte del Partito del proletariato. Le sue istituzioni sono antidemocratiche e nemiche dei popoli.
Non è sufficiente “rompere” i trattati dell’UE o parlare di uscire dall’euro, occorre uscire dall’UE imperialista e dire basta a fare l’opposizione di sua maestà. Il punto focale che i falsi comunisti eludono è capire e far capire che solo il socialismo è in grado di realizzare l’Europa dei popoli, di abbattere tutte le barriere siano esse fisiche o economiche, perché il proletariato andrà al potere, i prodotti del lavoro potranno essere goduti interamente dal popolo lavoratore, sviluppate le conquiste sociali, economiche e politiche, costruito un nuovo ordine sociale sulle ceneri di quello capitalistico e imperialistico. Battersi per l’Europa socialista rimane un nostro dovere, noi faremo fino in fondo la nostra parte finché un giorno venga instaurata la Repubblica socialista d’Europa. Ma sarà impossibile passare pacificamente a questa nuova Europa se non si realizzerà il socialismo nei singoli paesi dell’UE, a cominciare dall’Italia.
 
L’imperialismo di altri paesi
Il Medioriente e tutta l’area del Golfo Persico, l’Africa, l’Indo-Pacifico, ma anche la stessa Europa dell’Est e i Balcani non sono solo teatri di scontro tra USA, Cina, Russia e Unione europea. Al suo interno sono diversi gli imperialismi regionali che si confrontano per l’egemonia.
A partire dalla Gran Bretagna, il paese europeo più armato e la seconda economia dopo la Germania, che dal primo gennaio 2021 non fa più parte dell’Unione europea dove era entrata nel 1973. La Brexit ha già messo in crisi il giro commerciale e finanziario di 770 milioni di euro l’anno con l’UE, che sommato alla pandemia, in cui il governo del dimissionario Boris Johnson ha permesso criminalmente al Covid di diffondersi in tutta la popolazione nel tentativo di raggiungere l’“immunità di gregge” provocando oltre 23 milioni di contagiati e 205.000 morti, hanno prodotto una delle più gravi crisi recenti del capitalismo inglese.
Per rispondere a questa situazione l’imperialismo britannico ha stretto ulteriormente i rapporti con Washington. La loro cooperazione è cresciuta velocemente dopo la Brexit tanto da venire definita “speciale”. Ciò ha spinto Londra ad una forte revisione della sua politica estera condensata nel marzo dello scorso anno nel documento “La Gran Bretagna globale nell’epoca della concorrenza”, in cui sono presenti le direttrici per un ritorno al passato imperialista di primo piano e della diplomazia delle cannoniere collegata. In contemporanea con la firma dell’accordo AUKUS insieme a USA e Australia la Gran Bretagna ha inviato una flotta nel Pacifico a supporto della linea di contenimento della crescente potenza navale della Cina. Mentre in proprio allaccia nuovi rapporti e alleanze, come dimostra l’incontro del 5 maggio a Londra tra Johnson e il primo ministro giapponese Fumio Kishida, in cui hanno annunciato esercitazioni congiunte e l’aumento della collaborazione militare. Un accordo primo nel suo genere tra il Giappone e un paese europeo. Di punta il ruolo svolto dalla Gran Bretagna in Ucraina prima e dopo l’aggressione russa.
L’India guidata dal premier Narendra Modi dal punto di vista puramente quantitativo è già una grande potenza. È il secondo paese più popoloso del mondo. Ha la quinta economia mondiale e dispone di potenti forze armate in corso di profonda ristrutturazione. La componente terrestre, finalizzata al mantenimento dell’ordine pubblico e a un conflitto contro il Pakistan e, nella frontiera himalayana, contro la Cina, passerà in secondo piano rispetto alla marina e alla componente aeronavale, destinate al dominio dell’Oceano Indiano. L’India dispone di sistemi nucleari in grado di colpire l’intera Cina. Ha notevoli capacità sia spaziali che nel cyberspazio.
Eppure è un vero caso di equilibrismo imperialista. Accompagna la sua partecipazione ad alleanze con gli USA, come nel caso del QUAD a una forte cooperazione con Mosca, come nel caso del BRICS o della SCO. Evidenti sono stati e lo sono tuttora i tentativi degli USA nel costruire un forte rapporto di fiducia tra l’America e l’India affinché l’elefante di Delhi faccia la sua parte nel contenimento delle ambizioni cinesi nell’Indo-Pacifico, sostenendo la continua ascesa di questo paese e la sua leadership regionale.
L’India è da tempo il più importante acquirente della Russia nel settore degli armamenti di cui il 60% è ancora oggi di produzione russa. In base all’accordo del 5 ottobre 2018, l’India ha iniziato nel dicembre 2021 il dispiegamento del sistema missilistico di difesa aerea S-400, di fabbricazione russa, nel Punjab, al confine con il Pakistan. Nell’ultimo periodo, però, l’India si è molto avvicinata anche agli Stati Uniti. L’interscambio commerciale con gli Stati Uniti è molto più ampio di quello con la Russia, che ormai tende a essere focalizzato solo sugli armamenti e nel contempo le spese militari con gli USA sono passate da 0 a 20 miliardi di dollari in questi ultimi dieci anni e il filoamericanismo è in continua crescita.
La possibilità dell’India di continuare in tale equilibrismo si sta erodendo per l’aumento delle tensioni fra gli USA e la Cina, sia per la politica cinese divenuta con Xi Jinping più aggressiva nell’intera Eurasia, inclusa l’Asia Meridionale e l’Oceano Indiano, considerati dall’India zone di sua esclusiva influenza. La riluttanza a trasformare la collaborazione militare con gli USA e il Giappone in alleanza delle “democrazie dell’’Indo-Pacifico” in funzione anticinese permane, pur essendo stata di recente erosa anche dalla prospettiva di consistenti accordi economici fra Pechino e Teheran, che escludono l’India dal paese di obbligato passaggio per accedere all’Asia Centrale, tramite il porto di Chabahar e l’Afghanistan, e alla Russia Europea con il Corridoio Nord-Sud, che da Bandar Abbas e l’Azerbaijan raggiunge San Pietroburgo. Entrambi tali vie di comunicazione costituiscono una specie di risposta indiana alla Via della Seta continentale cinese.
Il Giappone è oggi una potenza regionale, che possiede un sistema economico e una rete di relazioni internazionali tali da permettergli di svolgere un ruolo di primo piano nel panorama asiatico. Inoltre, sebbene dal 2010 sia stato superato dalla Cina, per più di quarant’anni il Giappone ha mantenuto lo status di seconda potenza economica al mondo dopo gli Stati Uniti. Già indebolito dalla crisi economica internazionale, seguita al terribile terremoto del 2011 che ha distrutto parti importanti del paese punta ora a capitalizzare il forte deprezzamento dello yen con una forte ripresa delle esportazioni.
I rapporti con la Cina sono a tutt’oggi ambivalenti: da un lato Pechino è il primo partner commerciale del Giappone, ma dall’altro la Cina compete con Tokyo per questioni di influenza regionale. Nello specifico, le vertenze si concentrano attorno ai diritti di sovranità sulle Isole Senkaku-Diaoyu, nel Mar Cinese Orientale, rivendicate da entrambi i paesi anche in ragione delle ingenti riserve di idrocarburi che sarebbero presenti al largo delle loro coste. Altre dispute territoriali ad oggi ancora aperte sono quelle con la Russia, relative al possesso delle Isole Curili. È proprio tale vertenza, infatti, a costituire uno dei maggiori ostacoli nei rapporti tra Giappone e Russia, tanto che i due paesi non hanno ancora firmato un trattato di pace che sancisca la chiusura del secondo conflitto mondiale.
Nell’ottica di Tokyo, dunque, essere risoluti con Putin oggi serve per scoraggiare Pechino a non fare nulla di simile domani. Il premier Fumio Kishida lo ha detto chiaramente allo Shagri – La Dialogue, davanti alle delegazioni di 42 paesi riuniti a Singapore nel forum sulla sicurezza nella regione e poi al vertice NATO di Madrid di fine giugno, dove è stato il primo leader giapponese a partecipare ad un consesso dell’Alleanza atlantica. Un attivismo antirusso per cui è stato recentemente inserito nella lista nera di persone non gradite a Mosca.
Dietro ciò c’è in realtà una profonda revisione della dottrina di difesa del Giappone. Il punto di partenza è la spesa militare. Kishida punta a raddoppiare il budget della difesa, portandolo al 2% del Pil come raccomandato dalla NATO. L’anno scorso la spesa è aumentata al tasso più alto dal 1972 arrivando all’1,24% del Pil, con stanziamenti per quasi 60 miliardi. In valore assoluto, il budget per la difesa giapponese è ancora poco più di un quinto di quello cinese e lontanissimo dagli 800 miliardi degli Usa. Il Giappone ha tuttavia il terzo Pil del mondo e se ne spendesse il 2% per la difesa, potrebbe nel tempo diventare una delle maggiori potenze militari del pianeta. Il Giappone resta sotto l’ombrello nucleare americano, ospita basi Usa, ma è sempre più convinto di dover fare da sé. Tutt’ora la sua Carta costituzionale ripudia la guerra e vieta l’uso della forza nelle controversie internazionali, ma da tempo Tokio ha ottenuto la partecipazione di suoi contingenti militari in zone calde del mondo come è stato in Iraq nel 2003. Per ora non si parla di “attacchi preventivi” ma di colpire “basi nemiche che stanno per lanciare missili contro il Giappone”.
Non meno ambizioso e pericoloso per il Medioriente è l’attuale regime fascista turco di Erdogan. Successore dell’impero ottomano la Turchia si considera una potenza globale. Ha istituito una base militare in Qatar e ha messo un piede in Siria violandone la sovranità.
Nonostante sia membro della NATO, dall’autunno del 2016 irritata dall’appoggio di Washington alle forze curde in Siria, la Turchia sulla questione siriana si è alleata con la Russia di Putin.
L’obiettivo di Ankara è quello di creare in Siria una “fascia di sicurezza” di 30 chilometri che funga da zona cuscinetto al suo confine meridionale, spezzando la contiguità territoriale curda, e collocandosi altresì in una situazione in cui gli interessi di Turchia, Russia e Iran convergono sulla spartizione delle zone di influenza del nord-ovest della Siria.
È evidente che la Turchia attualmente sta giocando su più tavoli. Da una parte si allea con Putin sulla Siria tentando di strappare al nuovo zar del Cremlino condizioni ancora migliori nel Mediterraneo a unico vantaggio del proprio progetto neottomano di leadership sulle maggiori risorse locali, dall’altra sfrutta le nuove relazioni con gli USA di Biden, dopo il sì all’adesione di Finlandia e Svezia alla NATO in cambio di una fornitura di F16 e dell’espulsione di dozzine di militanti curdi del PKK, per far entrare tanto Libia e Siria sotto la sua sfera d’influenza.
Dall’inizio di questo secolo la Turchia ha incrementato i suoi rapporti commerciali e d’affari con il Medioriente, portandoli da 9 a 70 miliardi di dollari. Il sostegno al governo regionale del Kurdistan iracheno di Masoud Barzani, che ricambia con l’aiuto a bombardare le popolazione curde, passa da lucrativi progetti su energia e costruzioni.
L’Iran vuole espandere il proprio potere, la sua influenza e il suo interventismo diretto nella regione. Il suo progetto è quello di controllare il Medio Oriente con due “mezzelune sciite”: la prima che parte da Teheran e, attraverso l’Iraq, arriva fino in Siria e in Libano. La seconda muove dal Bahrein e, attraverso lo Yemen, giunge fino al Mar Rosso. L’ingiusto embargo dei paesi imperialisti contro l’Iran per il suo programma nucleare civile ha pesato sull’economia iraniana, assieme alla caduta del prezzo del petrolio e dalla pandemia che hanno ridotto le entrate del bilancio statale.
Il paese guidato dal presidente Ebrahim Raisi guarda ora verso la Cina e la Russia. Con Pechino il legame è stato stretto dallo scorso agosto con la firma dell’accordo venticinquennale che prevede investimenti cinesi in infrastrutture in Iran pari a 400 miliardi di dollari, due terzi dei quali nel settore petrolifero.
Con Mosca, la cooperazione bilaterale già funzionante da anni nella guerra per la spartizione della Siria e dal 2002, insieme anche a Turkmenistan, Azerbaigian e Kazakistan, nel consesso del Mar Caspio, è stata ribadita al vertice del 19 luglio a Teheran, con Russia e Turchia, suggellato da nuovi e sostanziosi accordi economici, di cooperazione tecnico-militare, nonché nei settori dell’energia nucleare, informatico, lo spazio e la sicurezza. Accompagnati dalla benedizione della guida spirituale Ali Khamenei che si è schierato totalmente con Putin e la sua aggressione imperialista all’Ucraina e contro la NATO.
Il governo di Teheran ha aiutato l’alleato sciita Assad per tenere aperto il corridoio terrestre che gli permette di tenere il collegamento con le formazioni filoiraniane della resistenza libanese contro i sionisti di Tel Aviv. I tre componenti del cosiddetto formato di Astana possono ripetere e ripetere a parole che la soluzione della crisi siriana spetta al popolo siriano, il loro comportamento passato dimostra l'opposto, dimostra che il loro intervento è funzionale solo ai rispettivi interessi imperialisti e egemonici locali che li hanno portati a spartirsi il controllo della Siria, a marginalizzare la concorrenza dell'imperialismo americano presente coi marines nei territori dei curdi siriani in seguito all'alleanza contro lo Stato islamico, a "sopportare" i bombardamenti dei sionisti contro le formazioni filoiraniane che operano in Siria in quella guerra praticata ma non dichiarata da Tel Aviv contro la Repubblica islamica iraniana.
L’imperialismo sionista e nazista di Israele può contare su diverse multinazionali nei settori farmaceutico, bancario, chimico, petrolifero e del gas.
L’esercito di Israele con 170mila uomini e 600mila riservisti e il più numeroso del mondo in percentuale sulla popolazione e occupa il 16° posto su 136 Stati in termini assoluti. Tel Aviv investe nell’esercito tra i 7 e i 10 milioni di dollari all’anno, ben il 9% del pil, di cui 4 provengono dalle casse degli USA. Per questo le armate sioniste sono equipaggiate con armamenti altamente tecnologici come i droni armati e possiede 200 bombe atomiche. Sono oltre 50 anni che Israele produce armi nucleari nell’impianto di Dimona, costruito con il supporto di Stati Uniti e Francia. Esso non viene sottoposto a ispezioni in quanto lo Stato sionista non aderisce al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, che invece l’Iran ha sottoscritto più di 50 anni fa. Altresì le forze nucleari israeliane sono integrate nel sistema elettronico della NATO, nel quadro del “Programma di cooperazione individuale”, e pur non essendo membro dell’Alleanza atlantica imperialista, Israele ha ottenuto una missione permanente nel quartier generale di Bruxelles.
L’imperialismo israeliano si fa quotidianamente beffa del diritto internazionale e delle risoluzioni dell’ONU che periodicamente negli anni sono state approvate ma mai riconosciute e attuate dai nazisti di Tel Aviv, che oltre che a reprimere nel sangue da decenni le aspirazioni e la lotta dell’eroico popolo palestinese, puntano a stabilizzarsi nel nord dell’Iraq, ad espandersi in Siria dove mantiene l’occupazione delle alture del Golan e in Libano, per contendere il petrolio e il gas presente copiosamente nella regione alle altre potenze mondiali e locali.
Il summit del 27 e 28 marzo che si è svolto nel deserto del Negev, ovviamente presentato come un summit di pace, su iniziativa del premier sionista Naftali Bennet ha posto le basi per la creazione di una alleanza militare strategica e di intelligence con Bahrain, Emirati, Marocco ed Egitto, guidata dall'entità sionista. Una alleanza benedetta dalla presenza dell'inviato USA e diretta apertamente contro il loro comune nemico, l'Iran, sulla scia del patto di Adamo stretto durante l'amministrazione Trump nella seconda metà del 2020 che ha come obiettivo la costruzione di una alleanza militare regionale con l’intento di dare alla luce un nuovo “guardiano del Medio Oriente” che sorvegli i nemici dell’Occidente e compensi il disimpegno americano nella zona.
Un regime quello sionista criminale e nazista, che non disdegna di fare vedere al mondo intero, come è avvenuto il 13 maggio durante i funerali della giornalista di Al Jazera una barbarie, un orrore e una provocazione antipalestinese senza precedenti, che non si accontentava di assassinare la giornalista palestinese ma si spingeva a profanarne persino la bara fino a tentare di farla rotolare nella polvere.
L’Arabia Saudita è il paese più esteso della Penisola Arabica ed è posto nel cuore dello scacchiere mediorientale. La sua rilevanza geopolitica porta con sé non solo le intense relazioni con i paesi del Golfo, ma anche il coinvolgimento nelle dinamiche più ampie del Medio Oriente e in quelle globali. Da qui la partecipazione al G20 e il ruolo preponderante nell’ambito dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). Una rilevanza regionale che a seguito delle Primavere arabe del 2011 si è trasformata in leadership politica e morale visto l’attivismo imperialista saudita nei principali teatri di crisi mediorientali, tra i quali spiccano l’Egitto (dove la corona degli al-Saud ha definito fin da subito un deciso sostegno al presidente Abdel Fattah al-Sisi), il Bahrain, la Siria, lo Yemen e la Libia. L’Arabia Saudita rappresenta la maggiore economia e potenza politica del Consiglio per la cooperazione del Golfo (Gcc) che comprende Bahrain, Oman, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Kuwait. Nei confronti dei piccoli paesi del Golfo, compreso il Qatar, l’Arabia Saudita ha sempre tentato di imporre una politica di egemonia.
L’aggressione dell’Arabia saudita al confinante Yemen per tenere in piedi il governo del presidente Hadi, che sarebbe già caduto più volte sotto l’offensiva delle forze della minoranza sciita Houthi guidata dal movimento Ansar Allah, dura da oltre 7 anni con un immane bilancio di vittime civili che supera le 13mila persone di cui 5mila bambini. Nonostante alcune violazioni, la tregua mediata dall’ONU, in vigore da aprile, tiene ed è stata rinnovata. L’Arabia Saudita, che in Yemen ha militarmente fallito, l’appoggia, provando intanto a ricostruire il fronte politico anti-Houthi: un Consiglio Presidenziale di otto membri ha sostituito il debole presidente Hadi, spinto da Riyadh a lasciare.
L’aggressione dell’imperialismo saudita allo Yemen è potuta continuare grazie all’appoggio militare e politico dei complici e protettori imperialisti USA e UE che già avevano spinto la monarchia reazionaria wahabita dei Salman a guidare la coalizione sunnita contro lo Stato islamico, e che vogliono imporla come potenza imperialista egemone nell’area, a fianco dei sionisti di Israele, in funzione anti Iran. Il regno saudita è sempre più preoccupato dall’espansionismo iraniano, prima in Iraq, poi in Siria, fino al Libano. Ora c’è un corridoio controllato dagli iraniani che va da Teheran a Beirut, con la presenza militare iraniana diretta e indiretta. I sauditi sono estremamente preoccupati per questo, perché loro considerano l’Iran il loro nemico per eccellenza dal 1979, allorché la rivoluzione islamica abbatté la monarchia dello scià.
Il riarmo dell’Arabia saudita, da sempre sostenuto dalle amministrazioni americane, è proseguito con Trump che ha firmato nel 2017 l’ultimo contratto di vendita di armi per un valore di 110 miliardi di dollari; altre armi sono state vendute dai paesi europei, Italia compresa. Non per nulla Ryad è tra i primi tre paesi al mondo con il più alto rapporto percentuale tra spese militari e Pil, un valore che sfiora il 10%.
 
Il pericolo di una guerra imperialista mondiale
Attualmente nel sistema imperialista internazionale cresce il capitale accumulato che non trova sbocchi di investimento redditizio. In questo contesto crescono i conflitti tra i paesi imperialisti per il controllo e la redistribuzione dei mercati, le fonti di energia e in generale dei territori con grande rilievo economico. Le superpotenze imperialiste sono unite nel depredare le ricchezze dei paesi del mondo e nel soggiogare i rispettivi popoli, ma si dividono quando si tratta di spartirsi il bottino.
Le contraddizioni interimperialiste sfociano inevitabilmente in guerre economiche, commerciali e finanziarie come accade tutt'oggi e possono generare anche guerre militari, come accade tutt’oggi, finanche mondiali come è accaduto nel passato e come tocchiamo con mano tutt’oggi. La tendenza attuale va in quella direzione, tant’è che i pericoli di guerra imperialista mondiale sono i più gravi dalla fine degli anni ‘80. “La guerra – spiega Mao “Sulla guerra di lunga durata” nel maggio 1938 – è la continuazione della politica con altri mezzi. Quando la politica raggiunge un certo stadio del suo sviluppo che non può essere superato con altri mezzi abituali, scoppia la guerra per spazzare via gli ostacoli che impediscono il cammino”.
Se fino a qualche tempo fa la contraddizione principale interimperialista era quella tra USA e Russia, strategicamente lo sarà in maniera dirompente con la Cina. Le due maggiori superpotenze imperialiste si battono per l’egemonia mondiale. Quella americana cerca di conservare l’attuale ordine mondiale da essa egemonizzato mentre quella cinese si batte per un nuovo ordine “multipolare” da essa egemonizzato. Questa contesa irrefrenabile porta inevitabilmente alla guerra imperialista mondiale. Una qualsiasi questione che colpisca direttamente uno dei due contendenti può farla deflagrare, un’esca potrebbe essere la questione di Taiwan.
Trump aveva descritto la superpotenza cinese come “un avversario strategico”, mentre già con l’amministrazione di Obama, nel 2013, gli USA avevano deciso lo spostamento del 60% del proprio apparato militare in Asia e nel Pacifico entro il 2020. Ora come abbiamo visto è Biden e il suo entourage con la NATO del Pacifico, insieme a inglesi e australiani, a rivolgere i propri cannoni contro il socialimperialismo cinese, che non sta certo a guardare. L’imperialismo russo con l’aggressione all’Ucraina è tornato a brandire anche il ricorso all’arma atomica e nucleare. Tutti i paesi dotati di armi nucleari sulla Terra possiedono circa 13.000 testate nucleari. Circa il 48% è a disposizione della Russia e il 42,5% degli Stati Uniti. Di queste 1.458 della Russia e 1.389 degli USA sono installate su razzi o bombardieri e sono immediatamente pronte per l’uso. Pericoli di guerra si avvertono anche nel continente asiatico. Navi da guerra USA sono penetrate più volte all’interno dell’arcipelago delle Spratly nel Pacifico, intorno all’isolotto creato da Pechino. Quel corridoio marittimo è uno dei più frequentati del mondo, utilizzato soprattutto per il traffico di petroliere tra il Medio Oriente e il Giappone. Qui gli USA hanno avviato l’installazione di una rete di batterie di missili guidati. La Cina ha risposto con il posizionamento di missili tecnologicamente evoluti e lo schieramento della sua flotta. Flotte contrapposte anche di fronte alle acque di Taiwan. Tali "giochi di guerra" su larga scala difficilmente servono alla comune "difesa contro il terrorismo", come si giustificano di solito i socialimperialisti cinesi, ma piuttosto al posizionamento delle proprie forze militari in competizione con la NATO. Sebbene non si svolgano nelle immediate vicinanze degli Stati Uniti (a differenza delle manovre della NATO, che si svolgono deliberatamente in prossimità geografica della Russia), possono certamente essere interpretate anche dagli alleati statunitensi nella regione, come Giappone, Corea del Sud e Australia, come una minaccia ai loro interessi di sicurezza.
L’attivismo della NATO, che secondo la sua carta costitutiva non avrebbe più senso di esistere dopo il crollo del socialimperialismo sovietico, è foriero di nuove guerre. All’ultimo vertice di Madrid del 29 e 30 giugno la NATO ha varato il nuovo concetto strategico in previsione della guerra mondiale, Cina, Russia e terrorismo, ossia movimenti islamici antimperialisti, considerati i nemici principali. Un vertice che ha risposto alla situazione che è stata modificata in Europa dalla criminale aggressione dell'armata neonazista del nuovo zar Putin all'Ucraina, e dal fatto che "non si può escludere la possibilità di un attacco contro la sovranità e l'integrità territoriale degli alleati", con l'aumento della forza d'intervento rapido da 40mila a 300mila uomini entro il 2023 e capace di rispondere in prima battuta alla "minaccia" dell'esercito russo affinché sia chiaro che "se si ripetono aggressioni come quelle alla Georgia nel 2008 o all'Ucraina ora, scatenerà la risposta completa di tutta l'Alleanza" come dichiarato dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg; con il rafforzamento del presidio della frontiera orientale e la creazione della prima base americana permanente in Polonia. Oltre a quello dedicato direttamente alla guerra della NATO alla Russia, Biden evidenziava il contributo americano alla militarizzazione della frontiera orientale dell'Europa che saliva fino a 100mila soldati, un terzo del contingente di pronto intervento da rendere operativo secondo le decisioni di Madrid, compresi quelli della brigata già dislocata in Polonia finora a rotazione e che resterà in pianta stabile nella base permanente che ospiterà il quartier generale del V Corps; tra l'altro quella in Polonia sarà ufficialmente la prima base permanente dell'Alleanza sul territorio dell'ex Patto di Varsavia. Un'altra brigata americana di 5mila uomini si aggiungerà a quelli presenti nella base di Costanza in Romania mentre nei paesi baltici le divisioni americane presenti con la bandiera della NATO sarebbero ancora presenti a rotazione, l'avvio del processo di adesione di Svezia e Finlandia che al termine della procedura iniziata il 5 luglio con la firma di ratifica della domanda porteranno a 32 il numero dei membri dell'alleanza militare imperialista. Iniziative belliciste, quantunque la NATO ripeta più volte di essere "una alleanza difensiva", in linea con il nuovo concetto strategico, che aggiorna il precedente del 2010 approvato a Lisbona e dove la Russia era considerata un partner e la Cina non era nemmeno menzionata e che, elencando per ordine di importanza, definisce la Russia come “la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza dei suoi Paesi membri”, il terrorismo, ossia i movimenti islamici antimperialisti, la "minaccia asimmetrica più diretta" e la Cina come “una sfida sistemica” se non ancora sul piano militare certamente su quello tecnologico.
Il suo ulteriore allargamento a Svezia e Finlandia oggettivamente avvicina il pericolo di una guerra imperialista mondiale, come già affermato dalla contrarietà al loro ingresso nell'Alleanza da parte della Russia e dalla chiusura dei rifornimenti di gas alla Finlandia. Con l'effettivo ingresso di questi due paesi anche nella NATO (oltre che nell'UE di cui sono già parte) il Mar Baltico, strategico nell'ambito della contrapposizione tra l'imperialismo dell'ovest e quello dell'est, finirebbe per diventare un'area sotto il controllo esclusivo della NATO e porterebbe quest'ultima a rafforzare i suoi mostruosi armamenti proprio a ridosso della Russia, che si troverebbe così circondata sul Baltico (e a poter contare sul piano militare solo sugli armamenti presenti nella base militare dell'enclave russa di Kaliningrad) e le truppe della NATO a un passo da San Pietroburgo anche sul confine finlandese, lungo ben 1300 chilometri.
Il nuovo concetto strategico della NATO deciso a Madrid guarda anche all’Indo-Pacifico. Dal 29 agosto sono in corso a Darwin, in Australia, imponenti e inedite esercitazioni militari che coinvolgeranno per la prima volta le forze aeree di 6 paesi membri, USA, Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania e Olanda, quelle dei paesi del QUAD e le forze armate di cinque paesi dell’ASEAN, Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e Thailandia. A questi si aggiungeranno anche la Corea del Sud, che ha iniziato delle esercitazioni bilaterali con gli USA nel Mar cinese orientale, e gli Emirati Arabi Uniti.
Insomma la NATO può intervenire dentro e fuori i suoi confini dove e tutte le volte che ritenga minacciate la “stabilità e la sicurezza” degli alleati, in tutti i campi e settori, in maniera unilaterale e insindacabile. In questo scenario non c’è una ragione una che giustifichi la sua esistenza. La NATO va sciolta. Occorre battersi affinché l’Italia esca da questa alleanza imperialista, iniziando dallo smantellamento delle sue basi logistiche e militari presenti nel nostro Paese, che già più di una volta sono servite da trampolino per aggressioni militari a Stati e popoli sovrani. A partire dall’hub di Napoli. La parola d’ordine “Via l’Italia dalla NATO. Via la NATO dall’Italia” resta più attuale che mai.
È un dato di fatto che ormai oggi le potenze imperialiste fanno e disfanno come vogliono, in base ai loro esclusivi interessi economici, politici, commerciali, militari e diplomatici, non curandosi della legalità internazionale e dell’ONU. Essa non risponde più all’esigenza della sua costituzione, ha fatto il suo tempo e va sciolta. Dopo l’avallo dell’aggressione alla Federazione jugoslava, dopo che non ha mosso un dito sulla prima e la seconda guerra del Golfo, dopo che consente a Israele di disattendere tutte le sue risoluzioni sulla Palestina, dopo che di fatto non ha mosso un dito sull’aggressione imperialista russa dell’Ucraina, l’ONU ha perso ogni credibilità e funzione. Bisogna finirla una volta per tutte col culto di questa organizzazione imperialista che non è affatto qualcosa di sacro. Occorre una nuova organizzazione mondiale, senza membri permanenti e privilegiati, senza diritto di veto, con uguali diritti e doveri, fondata sui principi sempre più attuali enunciati a Bandung dalla Cina di Mao. Una volta assicurato il loro rispetto, essa potrà svolgere un ruolo positivo e benefico nella risoluzione delle dispute internazionali, le controversie politiche, di confine, economiche, finanziarie e commerciali. Tanto prima i popoli del mondo e soprattutto dei paesi più poveri e depredati dall’imperialismo faranno questo passo rivoluzionario tanto prima romperanno le catene dello sfruttamento e dell’oppressione imperialista. Una proposta simile a quella fatta dal presidente dell’Ucraina Zelensky il 5 aprile scorso al Consiglio di sicurezza dell’ONU, il primo capo di Stato al mondo che ha avuto questo coraggio.
Ma come si impedisce e si combatte la guerra imperialista? Nel dicembre 1936 in “Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina” Mao spiega come ci si può liberare dalla guerra: “La guerra, questo mostro che porta gli uomini a massacrarsi gli uni con gli altri, finirà con l'essere eliminata dallo sviluppo della società umana, e in un futuro non molto lontano. Ma per eliminarla vi è un solo mezzo: opporre la guerra alla guerra, opporre la guerra rivoluzionaria alla guerra controrivoluzionaria, opporre la guerra nazionale rivoluzionaria alla guerra nazionale controrivoluzionaria, opporre la guerra rivoluzionaria di classe alla guerra controrivoluzionaria di classe. La storia conosce solo due tipi di guerre: le guerre giuste e le guerre ingiuste. Noi siamo per le guerre giuste e contro le guerre ingiuste. Tutte le guerre controrivoluzionarie sono ingiuste, tutte le guerre rivoluzionarie sono giuste”.
E sempre “Sulla guerra di lunga durata” del maggio 1938 aggiunge: “Quando l’umanità avrà eliminato il capitalismo, raggiungerà l’epoca della pace perenne e non avrà più bisogno delle guerre. Non ci sarà più bisogno di eserciti, di navi da guerra, di aerei militari né di gas asfissianti. Dopo di allora l’umanità non conoscerà mai più la guerra”.
In altre parole Mao ci insegna che non c'è mai una separazione netta tra la politica e la guerra ma si tratta di due categorie strettamente interdipendenti della storia, e dall'una si passa all'altra quando le armi della politica non bastano più a risolvere una determinata contraddizione, che viene perciò risolta con la politica delle armi. E questo di per sé non è un male assoluto, dipende se gli obiettivi della politica, ed eventualmente della guerra, sono giusti o ingiusti, sono progressivi o reazionari, se si tratta di una guerra di difesa o di aggressione, e così via. Nella visione idealistica dei pacifisti come il prete comboniano Alex Zanotelli, nonché di papa Bergoglio, invece, la guerra è considerata sempre e comunque una mostruosità anomala, mentre è un prodotto normale del sistema imperialistico che domina nel mondo, perfettamente funzionale alla sua natura sfruttatrice e predatoria nei confronti delle nazioni e dei popoli più deboli, che hanno tutto il diritto di resistere con la lotta armata alle aggressioni degli imperialismi dell'Est e dell'Ovest: vale oggi per gli ucraini contro gli invasori russi e per i palestinesi contro gli oppressori nazisionisti, come valeva ieri per la lotta armata dei popoli afghano e iracheno contro gli invasori USA e della NATO. Come è valso in Italia con la Resistenza contro l’invasore nazista e il fascismo. La nonviolenza non può quindi essere un'arma di lotta per gli sfruttati e gli oppressi. Fa solo il gioco del più forte, dell’aggressore sull’aggredito, decretando la sottomissione perenne di popoli e paesi al dominio dell’imperialismo, che sia esso dell’Ovest o dell’Est.
I marxisti-leninisti e i sinceri comunisti devono lottare con decisione in modo che la classe operaia e le masse lavoratrici e popolari non seguano la classe borghese e il suo governo, non restino intrappolati e non si schierino con una delle parti in competizione tra alleanze imperialiste. Solo in questa condizione, possono utilizzare le contraddizioni tra i paesi imperialisti a beneficio degli interessi dei popoli, imparando da Mao, e rovesciare con la rivoluzione la classe borghese al potere in ogni paese.
Come ci insegna Mao tutti i popoli del mondo devono unirsi per combattere l’imperialismo. Ciascun popolo deve mettere nel mirino in primo luogo il “proprio” imperialismo. Noi siamo solidali con tutti i popoli del mondo che combattono l’imperialismo indipendentemente dalle forze anche anticomuniste che li dirigono. Per questo abbiamo appoggiato lo Stato islamico contro la santa alleanza imperialista, i talebani che hanno cacciato gli imperialisti occidentali dall’Afghanistan e continuiamo ad appoggiare i movimenti islamici antimperialisti che ancora combattono e non si sono arresi. Pur non condividendo l’ideologia, la strategia, i programmi, i metodi di lotta compresi gli attentati terroristi ai civili e la loro politica interna reazionaria e antifemminile. Ma ciò non può e non deve costituire un ostacolo all’appoggio militante antimperialista.
Noi siamo al fianco dell’eroico popolo palestinese contro la repressione e lo sterminio da parte dei governanti sionisti e nazisti israeliani, che hanno estromesso con la violenza e il terrorismo le popolazioni arabe autoctone della Palestina, cacciate a forza dalle loro case e dalle loro terre e costrette da allora a vivere come esuli all’estero o come schiavi sotto l’occupazione militare israeliana. Lo Stato ebraico di Israele si comporta col popolo palestinese come Hitler nell’olocausto degli ebrei. Nel ribadire la nostra posizione due popoli uno Stato, appoggiamo e solidarizziamo con la resistenza armata palestinese contro l’ennesimo massacro perpetrato dai criminali, nazisti e sionisti di Tel Aviv nella striscia di Gaza dal 5 al 7 agosto. Tre giorni di bombardamenti che hanno provocato 45 morti, tra cui il leader della Jihad islamica palestinese Taysir al Jabari, 16 bambini, più di 360 feriti e 1.600 case distrutte, con un incalcolabile numero di sfollati.
Siamo al fianco del popolo di Cuba che da oltre 50 anni lotta contro il criminale embargo degli USA e di quello del Venezuela nella sua lotta contro le medesime sanzioni americane. Siamo al fianco della Repubblica popolare democratica di Corea che rivendica il diritto all’arma nucleare.
Noi siamo al fianco dei popoli catalano e del Saharawi e del Fronte Polisario nella sua lotta armata contro il Marocco, in quanto sosteniamo il loro diritto all’autodeterminazione in quanto nazione.
Noi siamo al fianco dell’eroico e combattivo popolo curdo sparso in Siria, Iraq e Iran che lotta per l’autonomia contro l’oppressione dei governi di quei paesi. Nel passato lottava per l’indipendenza nazionale ma poi le forze riformiste e opportuniste che lo guidano l’hanno costretto a rinunciarvi. Soprattutto per responsabilità di Öcalan, che è passato dal “marxismo-leninismo” all’anarchismo e all’ecologismo del trotzkista americano Murray Bookchin. In Siria le Organizzazioni armate guidate dai curdi sono state strumentalizzate dagli USA per distruggere lo Stato islamico, per poi essere abbandonate e date in pasto a Erdogan e Assad.
Siamo altresì al fianco del Fronte di liberazione popolare del Tigray che da decenni combatte il regime dell’Etiopia che gli nega l’indipendenza, con le masse popolari del Sudan, di Myanmar e dello Srilanka schiacciate dal pugno di ferro dei vari governi installati un golpe militare dopo l’altro.
 
L’imperialismo italiano
Con l’avvento del governo Draghi, questo “fenomeno”, “salvatore della patria”, “Tutto il mondo ci invidia Draghi”, “L'italiano più famoso nel mondo”, “La risorsa migliore della Repubblica italiana”, in realtà un importante esponente del capitalismo, della finanza italiana e internazionale, dell'UE imperialista, delle banche e della massoneria che con questa veste non ha mai fatto del bene all'Italia, sostenuto da una disgustosa ammucchiata dei partiti della destra e della “sinistra” borghesi, l’imperialismo italiano ha rispolverato a tutto tondo la sua politica estera atlantista e europeista. A caldo, il Comitato Centrale del PMLI, nel suo lungimirante documento del 17 febbraio dell’anno scorso sulla costituzione di quel governo nato dal golpe bianco del presidente della Repubblica Mattarella, lo aveva denunciato: “Ora Draghi si propone di incardinare l'Italia nelle tradizionali alleanze imperialistiche pronunciando al Senato questa lapidaria frase: ‘Questo governo sarà convintamente europeista e atlantista’. Noi non ci stiamo perché ciò significa vincolare il nostro Paese a decisioni politiche, economiche, sociali e militari dell'Unione europea e della Nato che colpiscono l'autonomia, l'indipendenza e la sovranità nazionali. Allo stesso tempo Draghi ha indicato le aree di influenza e di intervento dell'imperialismo italiano affermando che ‘resta forte la nostra attenzione e proiezione verso le aree di naturale interesse prioritario, come i Balcani, il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all'Africa’. Quanto ai migranti ha dichiarato che ‘cruciale sarà anche la costruzione di una politica europea dei rimpatri’”.
Atlantismo e europeismo che sono stati riconosciuti a Draghi dal capofila degli imperialisti occidentali, il presidente USA Joe Biden, che nell’incontro del 10 maggio a Washington lo ha accolto con un significativo “Hai unito NATO e UE”, e oltremodo esplosi dopo l'invasione russa dell'Ucraina. Lo ha ribadito a chiare lettere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella convocando e presiedendo a febbraio il Consiglio supremo di difesa straordinario nelle alte stanze del Quirinale, mentre già prima del summit il ministro della Guerra, il PD Guerini, aveva annunciato la partecipazione dell’Italia alle “misure di rafforzamento della deterrenza” chieste dalla NATO, incluse le cosiddette “forze in prontezza” che in sostanza sono contingenti militari di uomini e mezzi offrendo la disponibilità di altri 1.500 uomini oltre ai 300 già a disposizione e incassando il plauso del Capo del Pentagono, Lloyd Austin: “L’Italia è l’alleato più affidabile degli Stati Uniti nella Nato” ha rimarcato il ministro della Difesa di Washington nel ricevere il ministro Guerini in America.
Un rapporto, quello tra il nostro Paese e gli USA, definito di “partnership strategica cruciale per l’intera Alleanza Atlantica” ha proseguito Austin, elogiando il contributo dell'Italia alla sicurezza internazionale, all’assistenza all’Ucraina e al dispiegamento militare sul fianco Est.
Durante una informativa urgente alla Camera sulla crisi in Ucraina, Mario Draghi ha rilanciato la posta dichiarando che “Le forze italiane che prevediamo essere impiegate dalla Nato sono costituite da unità già schierate in zona di operazioni - circa 240 uomini attualmente in Lettonia -, insieme a forze navali, e a velivoli in Romania; e da altre che saranno attivate su richiesta del Comando Alleato. Per queste, siamo pronti a contribuire con circa 1.400 uomini e donne dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, e con ulteriori 2.000 militari disponibili ”.
L'interventismo militare italiano ha subito un'ulteriore escalation col successivo decreto di Draghi del 31 marzo che decideva di consegnare al governo ucraino missili Stinger antiaerei, missili Spike controcarro, mitragliatrici Browning e Mg e relative munizioni. Una decisione gravissima assunta dal governo giustificata da “straordinaria necessità e urgenza” che peraltro deroga alla legge 185 del 1990 sull’esportazione di armi a un paese in guerra e calpesta platealmente l'art. 11 della Costituzione: così ha gettato direttamente l'Italia nel conflitto. E forte del voto unanime del Consiglio dei ministri il guerrafondaio Draghi ha potuto contare su un altrettanto unanime voto del parlamento nero, compreso quello dei neofascisti di FdI, alla risoluzione che decideva l'invio di “sistemi d’arma e altri equipaggiamenti militari” all'Ucraina.
Bisogna essere consapevoli che, dando un appoggio incondizionato a UE e NATO, il governo Draghi e il parlamento nero che lo ha sostenuto hanno coinvolto direttamente il Paese in un intervento armato, e ciò in conseguenza dell’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico che stabilisce che “un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti ”; mentre l'articolo 4 recita: “Le parti si consulteranno ogni volta che, nell’opinione di esse, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata ”.
A questo articolo infatti fanno riferimento quegli Stati, come appunto Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania, che si sentono in pericolo davanti alla strategia imperialista di Putin. E se la NATO decidesse di intervenire militarmente in Ucraina non in quanto Paese membro dell’Alleanza, ma perché segnale di un pericolo allargato ad altri Paesi NATO, l'Italia di Draghi e Mattarella sarebbe obbligata a parteciparvi. In tal caso, in qualsiasi forma l’Italia entrasse in guerra, chiameremo il nostro popolo a unirsi come un sol corpo e a insorgere.
A marzo la Camera ha altresì approvato un ordine del giorno che impegna il governo ad avviare l'incremento delle spese per la difesa fino al 2 per cento del Pil contro l'1,54% attuale, che tradotti, secondo i dati dell'Osservatorio Milex, significherà passare da 68 a 104 milioni di euro di spesa giornaliera, e da 25 a 38 miliardi ogni anno. Se consideriamo che nel 2019 il nostro Paese spendeva circa 21 miliardi di euro nelle spese militari, comprendiamo bene che con questo provvedimento si sfiora un aumento del 100% in soli 3, massimo 4 anni in base a quando si concretizzerà. Un provvedimento economico che priverà i veri settori fondamentali per le masse popolari come la sanità, la scuola, la previdenza e i servizi allo sfascio del cosiddetto Stato sociale, anche delle poche risorse che sono loro state conferite dal governo Draghi. Il tutto con il PD al governo, e con un suo ministro alla Difesa.
Il provvedimento, che ha raccolto gli apprezzamenti della NATO, rappresenta l'escalation bellicista dell'Italia voluta dal governo atlantista del banchiere massone Draghi e dal ministro della Guerra Guerini che si è fatto portavoce del militarismo imperialista italiano rilasciando una lunga intervista al “Corriere della Sera” del 18 marzo che gronda di interventismo. Il ministro vi sostiene infatti: “Forze armate efficienti e moderne sono garanzia in primis per i cittadini e per la loro sicurezza ma anche per il ruolo dell'Italia nel mondo (…) esse sono chiamate a rispondere a missioni decisive: la difesa dello Stato e dei suoi interessi vitali, la difesa degli spazi euro-atlantici e euro-mediterranei, le missioni internazionali”, esprimendo sia la volontà del governo di mantenere e rafforzare quel ruolo egemone e di raccordo dell'imperialismo occidentale nel bacino mediterraneo e nel nord-Africa, ma senza escludere altre missioni, come ad esempio il rafforzamento di quella in Iraq dove il tricolore si è già candidato a guidare la missione NATO. La questione Ucraina poi sdogana praticamente ogni mira militarista.
Non a caso il segretario generale della NATO, il socialdemocratico norvegese Stoltemberg, ha elogiato “l'impegno italiano”, annunciando anche che sarà rafforzato il fianco Est dell'Alleanza; Guerini, inebriato da queste parole al miele, non ha fatto attendere ulteriori annunci secondo i quali l'Italia non si limiterà alla sorveglianza degli spazi atlantici in Romania con gli 8 Eurofighter e del Mediterraneo orientale con la flotta (oltre all'aumento già noto dei contingenti militari in Lettonia), ma opererà anche a sud-est: “ho intensificato – ha detto il ministro – le interlocuzioni con l'Ungheria dove parteciperemo ad esercitazioni congiunte”, dimostrando che quando si parla di imperialismo, non ci sono remore neppure a collaborare col governo fascista e razzista di Orban. In un’altra intervista del 3 luglio, questa volta alla compiacente “Repubblica”, Guerini ha bene illustrato il “Documento strategico” appena varato per il governo, analizzando l’altra direttrice strategica dell’imperialismo italiano, il Mediterraneo, l’Africa e in particolare la regione del Sahel. “Stiamo parlando di un mare che rappresenta la rotta più vantaggiosa tra l’Oceano Atlantico e l’Indo-Pacifico, con un punto di obbligato passaggio nello Stretto di Sicilia, su cui transita circa il 20% del traffico commerciale marittimo mondiale e sui cui fondali giacciono le ‘dorsali di comunicazione’ subacquee che connettono tra loro Europa, Asia e Africa. Per il nostro Paese il Mediterraneo è fondamentale per l’economia nazionale e, quindi, per il benessere e la prosperità delle nostre imprese e dei nostri cittadini… L’Africa – ha continuato il ministro piddino della guerra – è la direzione a cui guardiamo da tempo con maggiore attenzione. L’intricata e persistente condizione della Libia; la fragilità di alcuni Stati dell’area sub-sahariana; la presenza di gruppi terroristici; la postura aggressiva, anche militare, di alcuni attori internazionali; i venti di guerra nel Corno d’Africa”.
L’Italia capitalista ha da sempre partecipato alle guerre imperialiste per la spartizione del mondo e per il saccheggio delle materie prime e delle risorse dei paesi del Medio Oriente e dell’Africa.
Nel 2011 ha partecipato all’aggressione militare alla Libia. E oggi è in prima linea in Europa, Africa e Asia, dove operano forti contingenti militari, per combattere i movimenti antimperialisti islamici e l’immigrazione. Dall’esame della deliberazione del Governo sulle missioni internazionali inviato al Parlamento, da leggere insieme alle disposizioni del Decreto Ucraina approvato a marzo, emergono chiaramente le direttrici attuali dell’imperialismo italiano nel mondo. Le missioni militari italiane all’estero per il 2022, ben 42, presentano, rispetto allo scorso anno, un incremento di costi complessivi (da 1,35 a 1,5 miliardi di euro) e di personale impiegato (da circa 9.500 a oltre 12 mila uomini). Questo accade in virtù dei nuovi impegni in ambito NATO sul fronte est-europeo in funzione anti-russa, che compensano ampiamente gli effetti della conclusione della missione in Afghanistan.
Oltre alla partecipazione alla forza di reazione ultra-rapida della NATO (VJTF) attivata in funzione di difesa anti-russa – 86 milioni di euro per l’approntamento di 1.350 uomini e relativi mezzi terrestri e aeronavali da combattimento – si registra l’invio di nutriti contingenti dell’Esercito Italiano per la formazione dei Battle Group NATO in Bulgaria (750 uomini, comando italiano) e Ungheria (250 uomini) per un costo totale di quasi 40 milioni di euro e il rinforzo della nostra presenza militare in Lettonia (che sale a 250 uomini) per 30 milioni. L’altro notevole incremento riguarda le operazioni di difesa aerea anti-russa della NATO a cui partecipano i caccia della nostra Aeronautica Militare che pattugliano i caldissimi cieli della Polonia confinante con l’Ucraina (dopo aver pattugliato quelli della Romania e del Mar Nero) e le aerocisterne e aerei-spia italiane che operano a supporto degli altri caccia NATO. Un incremento di costi (da 33 a 79 milioni e da 2 a 17 milioni) dovuto all’intensificazione delle sortite e quindi dell’aumento delle ore di volo. È invece dovuto all’invio di nuove navi militari della Marina Militare con relativi equipaggi l’incremento del costo (da 17 a 50 milioni) della partecipazione alla missione NATO di pattugliamento navale in funzione anti-russa nel Mediterraneo Orientale e nel Mar Nero, dove incroceranno i nostri cacciamine a supporto della Marina militare rumena. Collegato alla guerra in Ucraina e alle tensioni tra NATO e Russia è anche l’incremento del costo della partecipazione alla missione NATO nei Balcani (da 81 a 109 milioni) dovuto al “preallertamento” di un battaglione dell’Esercito Italiano pronto a intervenire nella regione per contrastare tensioni legate alla crisi internazionale est-europea. Indirettamente legata alla crisi è anche la nuova missione militare in Mozambico (costo 1,2 milioni) a supporto delle forze armate locali che operano in funzione anti-guerriglia nella provincia di Cabo Delgado, teatro di un ribellione – sfruttata da gruppi jihadisti – a seguito della scoperta di mega-giacimenti di gas off-shore strategiche per l’Eni in vista dello stop delle forniture russe. Restando in Africa, in Mali la missione italiana continua a costare una cifra ingente seppur in diminuzione (da 49 a 35 milioni) nonostante la chiusura dell’operazione anti-jihadista Takuba a guida Francese in seguito alla rottura diplomatica con la giunta golpista di Bamako e il suo progressivo riposizionamento nel vicino Niger, dove infatti si registra per la missione italiana un incremento di costi (da 44 a 62 milioni) e di personale. In Libia, se da una parte si registra una riduzione dell’operazione nazionale di supporto medico a Misurata – MIASIT, ex Ippocrate – e quindi del suo costo (da 47 a 40 milioni), dall’altra si mantiene consistenza e costo della missione di supporto alla Guardia Costiera e alla Marina libiche (95 milioni) prevedendo anzi un rafforzamento del dispositivo aeronavale. Questo nonostante le mozioni parlamentari che chiedevano al Governo il superamento di questa missione con il trasferimento delle sue funzioni alle missioni europee – che invece rimangono puramente simboliche: la missione europea di assistenza alle frontiere (EU Border Assistance Mission in Libya – EUBAM) conta 5 uomini dall’Italia (per meno di mezzo milione di euro). Da ultimo l’Iraq, dove è ancora in corso il passaggio di consegne tra la missione anti-Isis a guida USA e quella NATO di cui l’Italia ha assunto il comando: qui il travaso di uomini e mezzi risulta in un incremento dei costi complessivi (da 245 a quasi 300 milioni) in virtù del raddoppio dei mezzi terrestri schierati (da 110 a quasi 200). Nei prossimi mesi, i nostri militari saranno impegnati in tre nuove missioni all’estero. È quanto disposto nel Decreto Missioni 2022 presentato alle Camere. La missione in Qatar per i Mondiali di calcio 2022, che si svolgeranno tra novembre e dicembre, vedrà impegnati fino a 560 militari, 46 mezzi terrestri, un pattugliatore d’altura (PPA) della Marina e due velivoli. In questa missione l’Italia collaborerà con le forze militari di Francia, Regno Unito, Usa e Turchia, all’interno della Combined Joint Force Qatar 2022. Il nostro contingente supporterà le Forze armate dell’Emirato, fornendo aiuto nella gestione, controllo e protezione dello spazio aereo e marittimo anche contro le minacce provenienti da droni, velivoli lenti e missili, oltre a controlli antiterrorismo e anti-IED. La missione in Qatar avrà un costo di 10,8milioni di euro, di cui 3,5 relativi al 2023. Lo scopo è proteggere i mondiali di calcio che si disputeranno in un clima di instabilità dovuta alla guerra e alla crisi economica. La seconda missione sarà in Mozambico, dove la Ue ha varato una operazione di addestramento delle forze locali a guida portoghese, la EUTM. “L’obiettivo della missione è formare e sostenere le forze armate mozambicane nella protezione della popolazione civile e nel ripristino della sicurezza e della protezione nella provincia di Cabo Delgado” dove da tempo è in atto un’insurrezione islamista che minaccia lo sfruttamento delle risorse energetiche, si osserva nel documento inviato alle Camere. L’impegno è simbolico ma al contempo significativo. Saranno impegnati solo 15 militari che verranno stanziati nelle basi di Maputo, Chimoio e Katembe, da dove opereranno. Più ingente sarà invece l’impegno per il rafforzamento del fianco est della Nato, nell’ambito della Enhanced Forward Presence e delle Enhanced Vigilance Activities della NATO.Una zona particolarmente attenzionata per via della guerra in Ucraina. Lì, verranno schierati un massimo di 1.150 militari italiani, 380 mezzi e 750 unità in Bulgaria e Ungheria. Per il potenziamento della presenza Nato ad Est il contingente italiano sarà presente con una componente di manovra e una logistica potenziate attraverso un team per la protezione cibernetica delle reti e sarà configurato, ove le condizioni lo consentano, “per l’acquisizione del ruolo di nazione quadro (framework nation) dei dispositivo multinazionale in Bulgaria”. Il costo dell’operazione è di 39,6 milioni di euro.
Anche il governo Draghi, dunque, non è sfuggito alle ambizioni e obiettivi storici dell’imperialismo italiano. Che si ritrovano anche nei nuovi fornitori che dovranno sostituire 2/3 del gas russo impiegato finora in Italia. 9 miliardi di metri cubi di gas arriveranno all’Italia dall’Algeria, quella che ha legami così forti con la Russia da aver appena ricevuto i complimenti da Lavrov. La stessa che si è astenuta all’ONU sulla condanna dell’invasione e che ha votato contro l’esclusione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani. La stessa Algeria in cui la situazione dei migranti non è poi così diversa da quella degli innocenti che con i nostri soldi teniamo rinchiusi in campi illegali in Libia tra torture e stupri.
3 miliardi di metri cubi di gas liquefatto dall’Egitto, i cui servizi segreti hanno torturato e ucciso senza motivo il giovane ricercatore italiano Giulio Regeni. 5 miliardi di metri cubi di gas dal Congo, tartassato dall’ebola ad un Governo corrotto. Bande armate da Uganda, Rwanda e Burundi occupano illegalmente aree di territorio, si contendono i giacimenti nel sottosuolo producendo da molti anni una serie infinita di violenze, stupri, stragi, crimini di guerra. 1,5 miliardi di metri cubi dall’Angola, un paese talmente democratico che lo stesso partito governa da 46 anni. Uno dei paesi più poveri dell’Africa, nonostante sia terzo in classifica per produzione di petrolio nel continente. Alla popolazione non arriva nulla dei proventi del greggio e di altre ricchezze minerarie. Tanti letteralmente muoiono di fame dopo l’esplosione dell’inflazione, così da mesi le strade sono piene di manifestanti, le proteste vengono represse e molti attivisti arrestati ingiustamente.
Cambiare fornitore serve a poco se davvero, come amano ripetere i governanti dell’imperialismo italiano, si vogliono difendere “diritti umani, libertà e futuro”. Cambiare radicalmente energia è l’unica via. La guerra imperialista è fossile come gas e petrolio, la pace è rinnovabile come solare ed eolico.
“Le sfide sono molte, e di non facile soluzione” ha affermato Draghi il 24 agosto al Meeting di “Comunione e liberazione” a Rimini nel suo discorso presidenzialista, già da futuro presidente della Repubblica magari eletto dal popolo come vorrebbe l’aspirante duce d’Italia Meloni, tra cui “come continuare ad assicurare all’Italia un ruolo da protagonista nel mondo, all’interno dell’Unione Europea e del legame transatlantico”. “Nel febbraio dello scorso anno, - ha affermato il banchiere massone - quando è iniziata l’esperienza dell’esecutivo, eravamo in un contesto diverso da quello attuale, ma altrettanto difficile… A diciotto mesi di distanza, possiamo dire che … insieme, abbiamo dimostrato ancora una volta che l’Italia è un grande Paese, che ha tutto quello che serve per superare le difficoltà che la storia ci mette di nuovo davanti… Tra poche settimane gli italiani sceglieranno la composizione del nuovo Parlamento, che darà la fiducia a un nuovo governo, sulla base di un nuovo programma. A questo proposito: invito tutti ad andare a votare”. Mai si era visto un capo di governo in carica, per di più dopo aver snocciolato tutti i suoi “successi economici e sociali” , chiamare un popolo alle urne, se in
realtà non si ha la coscienza sporca e si teme l’astensionismo come il diavolo. Ma per Draghi “La credibilità interna deve andare di pari passo con la credibilità internazionale. Questa è fondamentale perché l’Italia abbia un peso in Europa e nel mondo coerente con la sua storia, con le aspettative dei suoi cittadini. L’Italia è un Paese fondatore dell’Unione Europea, protagonista del G7 e della NATO”.
Il contributo più grande, più concreto e più efficace che noi marxisti-leninisti italiani possiamo dare alla lotta contro l’imperialismo è quello di combattere con tutte le nostre forze contro l’imperialismo italiano e il governo che dal prossimo ottobre ne reggerà le sorti. Nel quadro della strategia per abbattere il capitalismo e il potere della borghesia e conquistare il socialismo e il potere politico del proletariato. L’unico modo possibile per cambiare realmente e radicalmente l’Italia. Come recita il documento elettorale astensionista dell’Ufficio politico del PMLI del 24 luglio; “Il socialismo è quanto mai necessario anche per impedire che l'Italia venga trascinata nella guerra imperialista mondiale che si profila all'orizzonte tra le superpotenze imperialiste dell'Ovest e quelle dell'Est, Cina e Russia, che si contendono la nuova spartizione e il dominio del mondo.
Intanto bisogna schierarsi risolutamente con l'eroica Resistenza dell'Ucraina, aggredita e invasa dalla Russia imperialista del nuovo zar Putin che si propone di restaurare l'impero zarista (...)
Noi siamo convinti, come recita il Programma generale del PMLI, approvato dal Congresso di fondazione svoltosi il 9 Aprile 1977, che “solo il socialismo può salvare l'Italia dallo sfascio, dalla miseria, dal fascismo e dalla guerra. Solo il socialismo può fare dell'Italia un paese prospero, avanzato, libero, indipendente e pacifico”(…) Se non si lotta per il socialismo sarà impossibile bloccare la politica estera e militare dell'Italia tesa a saziare le grandi ambizioni neocolonialiste e imperialiste dei monopoli italiani.(...)
La lista delle rivendicazioni è molto lunga, qui indichiamo solo le rivendicazioni più urgenti e importanti. In politica estera e militare: l'Italia esca dall'Ue e dalla Nato, chiuda tutte le basi Usa e Nato nel Paese, ritiri tutte le missioni militari all'estero e le truppe impegnate in paesi e luoghi per conto della Nato, rompa le relazioni economiche, commerciali e diplomatiche con la Russia finché questa non ritiri le sue truppe dall'Ucraina, dimezzi le spese militari, riconverta il modello militare da interventista a difesa del territorio nazionale, non partecipi all'esercito europeo(...)
Qualsiasi sia il governo che uscirà dalle urne trattiamolo come si conviene, rendendogli la vita difficile attraverso la lotta di classe.
Le forze anticapitaliste divise e senza un progetto comune di una nuova società incidono poco nella realtà politica e sociale. Un concetto elementare che hanno ben compreso i fondatori del recente Coordinamento di Unità Popolare del quale fa parte anche il PMLI con apertura e grande spirito unitario.
C'è però bisogno che tutte le forze anticapitaliste, a partire da quelle con la bandiera rossa, aprano una grande discussione pubblica per elaborare un progetto comune per la nuova società socialista. È una urgente necessità politica e sociale auspicata il 17 febbraio 2020 dal PMLI nel documento del Comitato centrale appena varato il governo Draghi.
Questa discussione rivoluzionaria è il primo passo per cominciare a lavorare unitariamente per abbattere il capitalismo, e così, passo dopo passo, si arriverà a respirare l'aria “pura” del socialismo in cui il proletariato, la classe delle operaie e degli operai che producono tutta la ricchezza del Paese ma ne riceve solo le briciole, è al potere.
Invitiamo calorosamente – conclude il documento - le elettrici e gli elettori che condividono questo documento a unirsi subito ai marxisti-leninisti per costituire le Squadre di propaganda dell'astensionismo tattico marxista-leninista.
Uniamoci impugnando l'arma dell'astensionismo per delegittimare il capitalismo e i suoi governi e partiti e per avanzare verso la conquista del socialismo e del potere politico del proletariato!
Uniamoci per combattere le istituzioni rappresentative della borghesia e per creare le istituzioni rappresentative delle masse fautrici del socialismo!
Uniamoci sulla via dell'Ottobre verso il socialismo e il potere politico del proletariato!”.
Compagne e compagni,
alfine di far fronte a questi gravosi compiti rivoluzionari, che possono adempiere solo dei marxisti-leninisti preparati ideologicamente, politicamente e organizzativamente, occorre solo il PMLI, che abbia un corpo da Gigante Rosso. Il compagno Scuderi, alle ultime due Sessioni plenarie del 5° Comitato centrale del Partito, ha detto che cosa è necessario fare. Alla Commemorazione di Mao del 2016 nel suo potente e storico discorso “Da Marx a Mao” egli ha sottolineato che “Oggi più che preoccuparci di quando arriverà il socialismo, di quando avverrà la svolta rivoluzionaria della lotta di classe, di quando il proletariato si schiererà con noi, dobbiamo preoccuparci di dare al PMLI un corpo da Gigante Rosso radicandolo ed estendendolo nelle città e regioni dove siamo presenti, in modo da ricavarne le forze per espanderlo in tutta Italia. Questo deve essere il nostro obiettivo strategico a medio termine. Questo è quello che ci è richiesto dall’attuale lotta di classe e dall’attuale situazione del nostro Paese. Se non ce la facciamo a raggiungere tale obiettivo a medio termine, non ci resta che rilanciarlo una o più volte fino a conquistarlo. Non tutto dipende da noi, cioè dalle nostre capacità e dal nostro impegno. Noi abbiamo in mano solo metà della chiave del problema, l’altra metà l’hanno la lotta di classe, il proletariato e le nuove generazioni”. Mettiamocela allora tutta per attuarlo, ciascuno dando il meglio secondo le proprie capacità e condizioni, consapevoli che dal compimento di questo obiettivo strategico passa il salto di qualità rivoluzionario della lotta di classe.
Riscontriamo infatti nella pratica che più conosciamo e applichiamo la teoria rivoluzionaria di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao più siamo in grado di trasformare il mondo e noi stessi. Il che significa fare bene la lotta di classe, migliorare il nostro lavoro politico e organizzativo, tenere per quanto è possibile fuori dal Partito e da noi stessi ogni influenza borghese e pensare, vivere e lottare coerentemente alla concezione proletaria del mondo. Il nostro Partito si fonda sul marxismo-leninismo-pensiero di Mao, la scienza del socialismo e del comunismo, ossia gli elementi principali del successo dei Partiti marxisti-leninisti di tutto il mondo. Secondo noi, riflettendo sulla storia del movimento comunista internazionale, delle rivoluzioni dirette dai partiti comunisti e della costituzione dei Paesi socialisti, di fronte al marxismo-leninismo-pensiero di Mao, tutti i partiti marxisti-leninisti dovrebbero fare un doppio sforzo. Uno per capirlo, afferrarne l’animo proletario internazionale, e trarne gli elementi utili alla rivoluzione del proprio Paese. Un altro per applicarlo alle condizioni concrete del proprio Paese, evitando il dogmatismo, il revisionismo di destra, lo spontaneismo e l’avventurismo piccolo borghese. Non è facile, ma se studiamo e conosciamo bene la storia e il presente del proprio Paese, passo dopo passo, qualsiasi sia il tempo che ci impiegheremo, riusciremo a conquistare il proletariato e le classi alleate, le masse popolari, al nostro messaggio rivoluzionario. Consapevoli che senza il consenso e il coinvolgimento delle masse non riusciremo mai a raggiungere l’obiettivo. Con le masse, a partire dal proletariato, possiamo fare tutto, senza le masse, a partire dal proletariato, non possiamo fare niente. Come ci insegnano i grandi Maestri del proletariato internazionale, Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao, e come è confermato dalla storia del movimento comunista internazionale. Dobbiamo prestare massima e serie attenzione alla risposta delle masse alle nostre proposte, come ha fatto Mao in tutta la sua vita. Chi vuol fare come Mao e condivide la linea del PMLI venga a darci una mano prendendo posto nel PMLI o al suo fianco. C’è posto per tutti gli autentici rivoluzionari e fautori del socialismo, specie se operaie e operai, ragazze e ragazzi. Non c’è cosa più bella e utile che dare la propria vita per l’Italia unita, rossa e socialista.
Con Mao per sempre contro l’imperialismo!
Abbasso l’imperialismo e la guerra imperialista!
Viva l’internazionalismo proletario!
Viva la guerra di liberazione nazionale dei popoli e delle nazioni oppressi!
Avanti con forza e fiducia sulla via dell’Ottobre verso l’Italia unita, rossa e socialista!
Coi Maestri e il PMLI vinceremo!

14 settembre 2022