XX Congresso nazionale del PCC borghese, revisionista e fascista
Il nuovo imperatore della Cina Xi Jinping traccia la linea per sviluppare il socialimperialismo e per conquistare l'egemonia mondiale
L'imbroglione antimarxista-leninista autoproclama il suo pensiero come il marxismo adatto alla Cina

Con la celebrazione del XX Congresso del Partito Comunista Cinese, che si è tenuta a Pechino dal 16 al 22 ottobre, il nuovo imperatore Xi Jinping si è attribuito il terzo mandato consecutivo per governare la Cina come un sovrano assoluto, rafforzando il suo triplice potere di Segretario del partito, presidente della Repubblica e capo delle forze armate, con la liquidazione dei superstiti della vecchia guardia ancora legata al suo predecessore Hu Jintao e il controllo totale sull'Ufficio politico e sul suo Comitato permanente. Al tempo stesso ha istituzionalizzato il “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, ovvero il suo pensiero, come il “marxismo adatto alla Cina”, facendolo inserire nello Statuto del PCC insieme alla “posizione centrale” della sua leadership; ha ribadito il legame indissolubile del “socialismo con caratteristiche cinesi” con il mercato e la proprietà privata, secondo la formula del suo maestro rinnegato Deng Xiaoping; e ha proclamato gli obiettivi della “sicurezza” interna su tutti i fronti (economico, sociale, sanitario, ambientale), dell'autosufficienza tecnologica della Cina e dell'ammodernamento “a livello mondiale” delle forze armate: ciò che non può che intendersi come sviluppo del socialimperialismo cinese in preparazione del confronto militare con l'imperialismo USA per contendergli l'egemonia mondiale.
Al XIX Congresso del 2017, Xi aveva lanciato la parola d'ordine del “nuovo sogno cinese”: entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare, e due secoli dopo la Guerra dell'oppio che segnò la sua decadenza da grande nazione a semicolonia dell'imperialismo, la Cina avrebbe dovuto recuperare la sua potenza e “tornare sulla vetta del mondo”. Il sogno imperialista di Xi, nel suo rapporto tenuto a nome del 19° CC del partito e letto solo in forma ridotta, viene ribadito indicando il traguardo del “ringiovanimento” e della piena realizzazione di un “grande Paese socialista e moderno” entro tale data, e dando per già superata la prima tappa della “società moderatamente prosperosa” proclamata nel 2021 in occasione del centenario del PCC. Da qui ad allora Xi indica altre tappe intermedie da raggiungere, come il 2027, anniversario dell'Esercito Popolare di Liberazione, per la modernizzazione delle forze armate, e il 2035 per la “modernizzazione socialista”. Obiettivi, questi ultimi, che aspira a governare personalmente, avendo istituito di fatto, con l'abolizione nel 2018 del vincolo costituzionale dei due mandati, la sua leadership virtualmente a vita sul partito e sul Paese.
 

L'operazione antimarxista-leninista dell'imbroglione Xi
Il motore ideologico e politico per la realizzazione di questo gigantesco programma è, secondo la sua stessa definizione, il “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, ossia il suo pensiero. Una sfacciata sostituzione del pensiero di Mao con un'ideologia di tutt'altra specie, cioè di stampo borghese, revisionista, nazionalista e socialimperialista, che affonda le radici nel revisionismo capitalista e fascista del rinnegato Deng.
Xi, infatti, non solo non si rifà al pensiero di Mao (“non dobbiamo tornare all'isolamento e alle rigidità del passato”, ha detto liquidandolo senza nominarlo), ma nemmeno di Lenin, rifiutando così l'intero marxismo-leninismo-pensiero di Mao, e riallacciandosi strumentalmente al solo marxismo: un innocuo e generico marxismo “adattato” alla Cina, cioè non applicato nella sua genuina integrità, bensì da lui e dai suoi predecessori opportunisticamente “interpretato” a copertura del loro tradimento dell'eredità di Mao. Operazione che a ben guardare è tipica degli opportunisti e dei revisionisti di ogni epoca, che si richiamano al marxismo a parole, ma rifiutano il suo sviluppo in marxismo-leninismo-pensiero di Mao per poter allargare il campo del marxismo alla socialdemocrazia, al liberalismo e ad altre varianti di regime borghese capitalista. Ivi incluso quello capitalista e fascista travestito di rosso instaurato in Cina dopo la morte di Mao.
“Il più grande partito marxista di governo al mondo”, cioè non marxista-leninista: così definisce infatti il PCC il nuovo imperatore cinese. Secondo il quale “il successo del socialismo con caratteristiche cinesi” è dovuto al fatto che “il marxismo funziona, in particolare quando viene adattato al contesto cinese e alle esigenze del nostro tempo”. Ed è “responsabilità storica dei comunisti cinesi di oggi continuare ad aprire nuovi capitoli” di tale “adattamento”.
È dal XVIII Congresso - ha sottolineato Xi rivendicando questa spregiudicata strumentalizzazione del marxismo – che “abbiamo il coraggio nel portare avanti l’esplorazione e l’innovazione teorica, nell’approfondire la comprensione delle leggi del governo del Partito Comunista, delle leggi della costruzione socialista e delle leggi dello sviluppo della società umana da una nuova prospettiva, e abbiamo raggiunto importanti innovazioni teoriche, che sono incarnate nel socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”.
Aderiamo al marxismo “non per memorizzare e ripetere le sue conclusioni specifiche e il suo orientamento lessicale, né tanto meno per prendere il marxismo come un dogma immutabile”, ha aggiunto come scontata giustificazione della sua operazione revisionista. Spinta fino a includere in questo “adattamento” la rivalutazione e la promozione a livello culturale di massa della “cultura tradizionale cinese”, a portare avanti “le virtù tradizionali cinesi”, a incoraggiare “la creazione culturale incentrata sulle persone”, a rimanere “saldamente radicati nella cultura cinese”. in altre parole a promuovere e sviluppare il confucianesimo, una filosofia che ben si adatta al pervasivo controllo sociale esercitato dal governo e dal partito sulla popolazione e a far accettare con rassegnazione ai lavoratori e alle masse popolari cinesi lo sfruttamento, l'egoismo e l'individualismo borghesi e le rinate e sempre più abnormi differenze di classe: “Per sostenere e sviluppare il marxismo, dobbiamo integrarlo con la raffinata cultura tradizionale cinese”, si legge infatti nel rapporto.
 

L'inganno del “socialismo con caratteristiche cinesi”
Da qui a vedere nel “socialismo con caratteristiche cinesi” una caricatura del vero socialismo, quello preconizzato da Marx ed Engels e storicamente realizzato da Lenin, Stalin e Mao, inventata al solo scopo di imbellettare l'attuale socialimperialismo cinese radicato sul capitalismo, la proprietà privata e il mercato, il passo è breve. “Dobbiamo sostenere e migliorare il sistema economico socialista di base della Cina”, ha detto Xi. Ma in cosa consiste questo “sistema socialista di Base”, visto che dopo le privatizzazioni e l'apertura al mercato di Deng l'imprenditoria privata in Cina è arrivata a produrre il 60% del Pil e impiegare l'80% della mano d'opera? Per quanto ultimamente Xi stia cercando di ridurre lo strapotere raggiunto dalle grandi imprese private (vedi Alibaba) e far riacquistare al partito più potere di controllo sull'economia, non può né vuole di certo invertire il corso delle cose. E infatti aggiunge subito dopo: “Dobbiamo consolidare e sviluppare senza sosta il settore pubblico e incoraggiare, sostenere e guidare senza sosta lo sviluppo del settore non pubblico. Lavoreremo per far sì che il mercato svolga il ruolo decisivo nell'allocazione delle risorse e che il governo svolga meglio il suo ruolo”. Col che ammette che l'economia privata capitalista è di fatto il vero motore dell'impetuoso sviluppo cinese basato sullo sfruttamento intensivo e inumano di milioni di operai e contadini e dell'ambiente e sulla crescita esponenziale delle disuguaglianze economiche e sociali di classe; e il “socialismo con caratteristiche cinesi” è solo il paravento propagandistico, verniciato di rosso, dietro cui nasconde questa mostruosa realtà.
Ciò traspare anche dall'enfasi che ha messo sulle promesse di migliorare “il sistema della distribuzione del reddito” (usando però la formula borghese liberale classica “promuoveremo l'uguaglianza delle opportunità”) e di intensificare la lotta contro l'inquinamento e il miglioramento dell'ambiente per una “Bella Cina”; ma poi, per quanto riguarda la riduzione dell'uso del carbone e delle emissioni, ha ribadito che si procederà “in modo ben pianificato e graduale, in linea con il principio di costruire il nuovo prima di abbandonare il vecchio”.
La realtà è che nonostante Xi abbia vantato di aver “sradicato la povertà assoluta e terminato la costruzione di una società moderatamente prospera sotto tutti i punti di vista, completando il primo obiettivo del Centenario”, la situazione dell'economia del Paese non è affatto quella da lui sbandierata (ma senza fornire cifre, stavolta), che sconta le difficoltà dovute alle conseguenze della guerra in Ucraina e dei pesanti lockdown imposti a Shanghai e ad altre grandi città con la rigida politica cinese dello zero Covid che dura da tre anni. Non a caso è stata rinviata a dopo il Congresso la pubblicazione dei dati del Pil del terzo trimestre, che segnano una crescita al di sotto del 4%; superiore al 2,5% del primo semestre ma ancora ben sotto le previsioni del 5,5% per quest'anno. Molte aziende sono in bancarotta, il mercato immobiliare è crollato, le banche non riescono a rientrare dagli ingenti investimenti fatti all'estero per finanziare la Nuova Via della Seta e sono arrivate a bloccare i conti dei piccoli e medi risparmiatori. La disoccupazione giovanile è salita al 20%, aumenta anche la precarietà del lavoro e le coppie rimandano matrimoni e figli, in una società che già soffre il grave problema dell'invecchiamento: esattamente l'opposto del “ringiovanimento” della Cina invocato ad ogni piè sospinto dal suo nuovo imperatore. Di conseguenza aumentano anche il malcontento e le proteste, anche in reazione agli spietati confinamenti anti Covid, di cui sono stati una spia gli striscioni apparsi alla vigilia del Congresso in un cavalcavia di Pechino, e subito fatti sparire, in cui si chiamava a scioperare nelle scuole e nel lavoro e a rimuovere “il traditore dittatoriale Xi Jinping”.
 

“Sicurezza nazionale” e indipendenza tecnologica
Evidentemente le nuove difficoltà dell'economia stanno intaccando il modello che ha permesso fin qui alla cricca revisionista e fascista al potere di mascherare le enormi sperequazioni sociali dietro la forte e ininterrotta crescita del Pil e dei beni di consumo, e la lotta di classe si sta rinfocolando sotto la cenere. Ma essa finge di non accorgersene, e spinge invece l'acceleratore sull'aumento della sorveglianza e la repressione di massa, sul nazionalismo e la politica di potenza socialimperialista. È in questo quadro che Xi ha messo infatti l'enfasi sulla “sicurezza”, il termine che ha usato circa 50 volte nel suo discorso, nonché sull'autosufficienza tecnologica e sull'ammodernamento delle forze armate, che rientrano sempre nello stesso concetto.
“La sicurezza nazionale è il fondamento del ringiovanimento nazionale e la stabilità sociale è un prerequisito per costruire una Cina forte e prospera”, ha detto Xi, e va rafforzata salvaguardando “con determinazione la sicurezza del potere statale, dei sistemi e dell'ideologia cinese”. L'autosufficienza tecnologica è un obiettivo urgente e di importanza strategica, sia a livello civile che militare, in quanto gli USA e gli altri imperialismi suoi alleati hanno già iniziato il “decoupling” (distacco) dalla Cina per quanto riguarda le tecnologie più avanzate come l'intelligenza artificiale, mettendo limiti alle esportazioni soprattutto di microchip, settore in cui la Cina ha una forte dipendenza dall'estero, in particolare da Taiwan che ne è il maggior produttore mondiale. L'importanza attribuita da Xi a questo obiettivo strategico è sottolineata anche dalla massiccia immissione di tecnocrati ai vertici del PCC: almeno sei nuovi membri dell'UP hanno qualifiche ed esperienza in campo scientifico e tecnologico. E tra i 205 membri del CC, ben 203 hanno almeno un titolo di studio di terzo grado. Sono anche aumentati da 25 a 29 i membri di importanti accademie di scienza e ingegneria.
 

“Forze armate per una nuova era” socialimperialista
Sicurezza nazionale, autosufficienza tecnologica e ammodernamento delle “forze armate per la nuova era”, che devono raggiungere uno “standard di livello mondiale” entro il 2027, sono obiettivi strategici palesemente inquadrati nella politica economica e militare socialimperialista di Pechino che mira a conquistare l'egemonia mondiale. E questo nonostante che sulla politica internazionale il rapporto di Xi non faccia che proclamare che la Cina persegue “una politica estera indipendente di pace” e una “politica di difesa nazionale difensiva”, che è “contraria a tutte le forme di egemonismo e di politica di potenza”, che “rispetta la sovranità e l'integrità territoriale di tutti i Paesi”, che “aderisce ai Cinque Principi della Coesistenza pacifica”, e così via. Ma leggendo attentamente emergono anche chiari segnali che il socialimperialismo cinese si prepara invece per la guerra.
Ne sono un chiaro esempio i ripetuti riferimenti alla metafora della “tempesta” in arrivo (“essere preparati ad affrontare gli scenari peggiori ed essere pronti a sopportare venti forti, acque agitate e persino pericolose tempeste”, ha detto Xi), mentre la situazione mondiale appare dominata da “atti di egemonia, prepotenza e di forza” e “il deficit di pace, sviluppo, sicurezza e governance sta crescendo”. Manca un riferimento esplicito all'imperialismo rivale, alla guerra in Ucraina e alla partnership con Putin, in linea con l'ambiguità della posizione tenuta finora, ma la strategia mondiale dei dirigenti di Pechino trapela lo stesso dai passaggi del rapporto in cui, in sfida alla nuova guerra fredda lanciata dall'imperialismo delll'Ovest contro Russia e Cina, quest'ultima “sostiene un vero multilateralismo” e una “governance globale più giusta ed equa”, “si oppone a tutte le forme di unilateralismo e alla formazione di blocchi e di gruppi esclusivi contro determinati Paesi” (perifrasi che allude alla NATO e alle alleanze militari promosse dagli USA nell'Indo-Pacifico in funzione anticinese), e auspica una “maggiore influenza” di organismi per la cooperazione internazionale da essa promossi come i BRICS e lo SCO, e che i Paesi in via di sviluppo “siano meglio rappresentati e abbiano più voce in capitolo negli affari globali”.
Per cambiare gli attuali equilibri mondiali, consolidati da oltre 70 anni, e poter affermare un simile complesso di interessi, il socialimperialismo cinese in ascesa sa di dover affrontare prima o poi militarmente l'attuale superpotenza declinante ma ancora dominante, gli Stati Uniti. Ed è per questo che Xi mette particolarmente l'accento sulla modernizzazione dell'esercito, “migliorando la preparazione al combattimento in tutti i settori, per far sì che le forze armate del nostro popolo possano combattere e vincere”. A tale scopo, ha aggiunto tra l'altro il nuovo imperatore, sarà creato “un forte sistema di deterrenza strategica” (missili strategici e testate nucleari, ndr), “accelereremo lo sviluppo di capacità di combattimento intelligenti e senza equipaggio” (intelligenza artificiale, droni ecc. ndr) e “intensificheremo l'addestramento militare in condizioni di combattimento”.
Quanto a Taiwan, che al momento rappresenta il massimo focolaio di tensione con l'imperialismo rivale, Xi ha offerto per la riunificazione la formula “un Paese, due sistemi” già sperimentata per Hong Kong e Macao (come se non fosse stata ampiamente violata imponendo loro con la forza il suo di sistema), e ha ha ribadito con forza la consueta linea della carota e del bastone nei confronti dell'isola: “Risolvere la questione di Taiwan è una questione di competenza dei cinesi, una questione che deve essere risolta dai cinesi”, ha detto. “Continueremo a lottare per una riunificazione pacifica con la massima sincerità e il massimo impegno, ma non prometteremo mai di rinunciare all'uso della forza e ci riserviamo la possibilità di prendere tutte le misure necessarie”. Anche se poi ha cercato di ammorbidire la minaccia aggiungendo che “questo è rivolto esclusivamente alle interferenze di forze esterne e ai pochi separatisti che cercano l''indipendenza di Taiwan' e alle loro attività separatiste; non è assolutamente rivolto ai nostri compatrioti taiwanesi”.
 

Il potere blindato del nuovo imperatore
Con questo Congresso Xi ha blindato il suo già forte potere sbarazzandosi di tutti i suoi possibili avversari rimasti, dopo la campagna anticorruzione da lui promossa con cui aveva già spazzato via da tutte le gerarchie del partito migliaia di vecchi dirigenti: vittoria simbolicamente proclamata in diretta tv con il brutale allontanamento del vecchio Hu Jintao dalla sala, fatto passare ufficialmente per un “malore”. Quattro dei sette componenti del vecchio Comitato permanente dell'UP vicini a Hu non sono entrati neanche nel Comitato centrale: si tratta dell'attuale premier Li Keqiang, del capo del parlamento Li Zhanshu, del vicepremier Han Zheng e di Wang Yang, dato fin alla vigilia in corsa per la carica di nuovo premier. Mentre resta nel CC ma esce dall'UP anche l'attuale vicepremier Hu Chunhua.
Nel nuovo Comitato permanente entrano solo fedelissimi di Xi, tutti sessantenni e senza grande esperienza di potere, quindi non in grado di insidiare il quarto mandato di Xi tra cinque anni. I nuovi membri sono il n. 2 del partito Li Qiang, destinato quindi alla carica di nuovo capo del governo nonostante sia responsabile della disastrosa gestione del Covid a Shanghai, Cai Qui, Ding Xuexiang e Li Xi, che diventa capo del temutissimo organismo anticorruzione. Tra i veterani restano nel Comitato solo Zhao Leji e Wang Huning, considerato l'ideologo di Xi. L'Ufficio politico è stato ridotto da 25 a 24 membri, con l'estromissione della sola donna ancora rimasta. Pochissime le donne nel CC, 11 su 205 membri, appena il 5%. Erano il 12% al tempo di Mao.
La blindatura del pensiero e del potere di Xi è stata poi completata con un emendamento che inserisce nello Statuto del PCC l'impegno a rafforzare e ammodernare le forze armate per elevarle a “standard di livello mondiale” (in grado cioè di confrontarsi alla pari con quelle degli USA e dei suoi alleati), a “opporsi risolutamente” ai separatisti che cercano “l'indipendenza di Taiwan” e a “promuovere la riunificazione nazionale”. Nel contempo obbliga tutti i membri a “seguire il nucleo della leadership e mantenersi in linea con la leadership centrale del Partito”; a “sostenere la posizione centrale del compagno Xi Jinping nel Comitato centrale del Partito e nel Partito nel suo insieme”; e ad “attuare pienamente il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”.
Così il nuovo imperatore della Cina e imbroglione anti marxista-leninista ha consolidato il suo potere dittatoriale e ha tracciato la linea per proiettare il socialimperialismo cinese verso la conquista dell'egemonia mondiale.

26 ottobre 2022