Il G20 condanna la guerra in Ucraina
Meloni, atlantista doc, fa affari d'oro con Xi, leader del socialimperialismo cinese

 
Il Gruppo dei Venti, il G20, è un organismo di dialogo informale e per lo scambio di informazioni sui temi finanziari ed economici creato nel 1999 cui partecipano almeno un volta all'anno i leader, i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi aderenti che non di rado hanno discusso soprattutto di temi politici in quel momento di maggior interesse; così come è successo al diciassettesimo incontro che si è tenuto a Nusa Dua, Bali, Indonesia dal 15 al 16 novembre dove ha tenuto banco la situazione in Ucraina. I temi economici e ambientali che occupano gran parte della dichiarazione finale finiranno sepolti negli archivi, salvo l'allarme sulla prossima annunciata recessione, e del vertice resteranno invece la condanna della guerra in Ucraina, la presentazione del piano di pace in dieci punti del presidente ucraino Zelensky che in collegamento da Kyiv ha sottolineato che il suo paese non può accettare compromessi su “sovranità, territorio e indipendenza”, e la consueta serie di incontri bilaterali, da quello dei due duellanti imperialisti per il dominio del mondo Usa e Cina a quelli che hanno concluso il tour de force dalla Ue alla Cop27 al G20 del nuovo signor primo ministro italiano, la leader neofascista Giorgia Meloni.
Il presidente indonesiano Joko Widodo prima di passare il testimone al premier indiano Narendra Modi che ospiterà a Nuova Delhi l'edizione 2023 presentava il comunicato finale messo a punto dagli addetti e senza modifiche dell'ultimo minuto che dichiarava come "la maggior parte" dei Paesi membri del G20 "ha condannato fermamente la guerra in Ucraina", che "sta causando immense sofferenze umane" e sta "aggravando le fragilità esistenti nell'economia globale". La responsabilità della mancata unanimità di una comunque generica condanna della guerra perché non si dice mai "guerra della Russia all’Ucraina", andrebbe ricercata non solo nell'opposizione degli aggressori russi rappresentati a Bali dal ministro degli Esteri Sergei Lavrov ma anche nelle posizioni di Cina e India che non hanno condannato Putin e la sua invasione dell'Ucraina e probabilmente di altri membri del G20 come Arabia Saudita, Sudafrica e Turchia che non hanno aderito alle sanzioni dell'imperialismo occidentale contro la Russia. Che l'impostazione del documento voluta dal gruppo dei paesi imperialisti guidati dagli Usa fosse una chiara condanna del rivale imperialista russo, il nuovo zar Putin, alleato strategico del nuovo imperatore cinese Xi Jinping, era messo in chiaro nel comunicato finale in un altro passaggio dove venivano ribadite "le nostre posizioni nazionali come espresso in altre sedi, tra cui il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e l'Assemblea generale delle Nazioni Unite, che, con delibera n. ES-11/1 del 2 marzo 2022, adottata a maggioranza, con 141 voti favorevoli, 5 contrari, 35 astenuti, 12 assenti, deplora con la massima fermezza l'aggressione da parte della Federazione Russa contro l'Ucraina e ne chiede il completo e incondizionato ritiro dal territorio dell'Ucraina". Il G20 "non è il forum per risolvere i problemi di sicurezza" ma questi problemi "possono avere conseguenze significative per l'economia globale" e quindi i partecipanti al vertice si dichiarano autorizzati a discutere anche di guerra, una parte di loro a condannarla a fronte di "diversi punti di vista e diverse valutazioni della situazione e delle sanzioni".
Nella dichiarazione finale si afferma anche che "l'uso o la minaccia di uso di armi nucleari è inammissibile. La risoluzione pacifica dei conflitti gli sforzi per affrontare le crisi, così come la diplomazia e il dialogo, sono vitali. L'era di oggi non deve essere di guerra", sottoscrivevano gli ipocriti imperialisti protagonisti e responsabili di una serie infinita di guerre sempre più spesso neanche dichiarate contro paesi sovrani e popoli. Resta chiara comunque la condanna delle reiterate minacce nucleari degli imperialisti russi da Putin a Medvedev.
Il ministro degli Esteri Lavrov accusava gli altri paesi di voler "politicizzare" la dichiarazione e se ne andava da Bali prima della fine dei lavori. Xi in ogni caso non poteva seguire la stessa strada e doveva cedere alle pressioni sembra soprattutto di India e Indonesia e infine approvare la dichiarazione che pure fissa il concetto che Mosca è l'aggressore e Kyiv l'aggredito.
Il nuovo imperatore cinese Xi appena due giorni prima aveva avuto il primo incontro
faccia a faccia col rivale imperialista americano Joe Biden che lo aveva pressato perché "come leader delle principali economie del mondo, dobbiamo gestire la competizione dei due nostri paesi". Come spiegava al Guardian un alto funzionario della Casa Bianca, "siamo in competizione. Il presidente Biden lo riconosce ma vuole assicurarsi che questa competizione resti entro dei limiti, che costruiamo dei guardrail, che ci dotiamo di regole chiare lungo la strada e che facciamo tutto quello che è necessario per garantire che la concorrenza non viri in conflitto”; quel conflitto che spunta quotidianamente dietro l'angolo alimentato anche dalle provocazioni americane a Pechino su Ucraina, Taiwan (per il Pentagono la Cina potrebbe essere in grado di invadere l'isola già nel 2024, tre ani prima delle precedenti previsioni) o dalle sanzioni economiche sui settori strategici delle nuove tecnologie. Xi non si sottraeva all'invito di gestire quelli che lui chiama i rapporti multilaterali che riguardano soprattutto quelli con la Casa Bianca tanto per registrare che i destini del mondo se li giocano le due principali superpotenze imperialiste ma ai saluti di Biden si limitava a rispondere con "è un piacere rivederti dall'ultima volta avvenuta nel 2017", quando era vice di Obama. La concessione del socialmperialismo cinese alle pressioni americane sulla condanna della guerra in Ucraina è arrrivata fino alle dichiarazioni che Pechino affidava a un anonimo diplomatico e rilasciate al Financial Times che rivelava come sull'invasione dell’Ucraina Putin “non disse la verità” al leader di Pechino, "se ce lo avesse detto non ci saremmo trovati in una situazione così difficile".
"Un incontro improntato alla cordialità", così come messo bene in evidenza dal comunicato di Palazzo Chigi, è stato invece quello del 16 novembre tra Giorgia Meloni e il presidente Xi che al termine del bilaterale l'ha invitata in visita ufficiale a Pechino. La frase sulla cordialità reciproca non compare, non ce ne era bisogno, nel comunicato del giorno precedente della leader del governo neofascista italiano sull'importante colloquio col presidente americano Biden, definito "incentrato sulla solidità dell’alleanza transatlantica e sull’eccellente cooperazione per fare fronte alle sfide globali, dalla crescita economica alla sicurezza comune", con una attenzione particolare sul "continuo sostegno all’Ucraina, la stabilità nel Mediterraneo e nell’Indo-pacifico e i rapporti con la Cina". Messa nero su bianco per l'ennesima volta la sua fedeltà atlantica, ricambiata con l'invito per una visita ufficiale alla Casa Bianca, Meloni lasciava Biden e passava all'omologo fascista turco, il presidente Erdogan, col quale era scontato l'impegno "insieme contro l'immigrazione clandestina".
Il vertice del G20 terminava ma Meloni restava a Bali per il primo faccia a faccia col leader del socialimperialismo cinese Xi all'insegna degli affari, affari d'oro per l'imperialismo italiano che il precedente governo Conte aveva tentato di imbastire presentando l'Italia come un terminale della nuova Via della Seta; l'accordo del 2019 il cui rinnovo sarebbe previsto nel 2024, era osteggiato dall'imperialismo americano per rendere più difficile la penetrazione del concorrente socialimperialista cinese in Europa. Una posizione perciò improponibile per l'atlantista neofascista che ha già dichiarato di preferire l'iniziativa della Ue, la Global Gateway, e quella del G7, la Partnership for Global Infrastructure and Investmen a guida Usa, concorrenti del progetto cinese. Con Pechino comunque cercava altre strade, favorita da uno Xi che si spendeva a favore della costruzione di rapporti tra Cina e Italia come un “modello per lo sviluppo di relazioni tra due paesi con sistemi sociali e contesti culturali diversi” e metteva sul piatto nuove possibilità di cooperazione su vari settori economici, dalla manifattura avanzata, all’energia pulita e all’aviazione. Proprio poche ore prima dell'incontro il governo di Pechino aveva dato il via libera all'acquisto di almeno 250 aerei della società italo-francese Atr entro il 2035, a conclusione di un negoziato commerciale durato tre anni. Arrivato il suo turno a Palazzo Chigi Meloni intascava il risultato e puntava a altri affari possibili a partire da quelli per la preparazione delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina del 2026 che vedono già le amministrazioni di destra di Lombardia e Veneto in difficoltà per scarsità di finanziamenti. Si vede che le leader neofascista ha preparato accuratamente la sua corsa alla poltrona di premier, almeno da quando si è afflosciata col primo governo Conte quella del compare neofascista Salvini, e ha una squadra di governo che non è affatto un'armata Brancaleone per portare avanti la linea nazionalista, sovranista, europeista, atlantista, razzista, meritocratica e filopadronale del suo governo neofascista.

23 novembre 2022