Conferenza ONU sul clima a Sharm el-Sheik
Cop 27, ennesimo nulla di fatto contro il gas serra. Il Pianeta costretto al baratro climatico dal capitalismo
Quasi nessuno ha rispettato l'Accordo di Parigi sulla riduzione delle emissioni di CO2. La Cina peggio degli Usa. Maglia nera all'Italia per le morti da inquinamento
Nonostante i divieti del regime di Al-Sisi, proteste delle attiviste di Fridays for Future

 
Migliaia di delegati governativi, di istituti internazionali, ONG, scienziati e giornalisti provenienti da duecento nazioni, si sono incontrati in Egitto dal 6 al 18 novembre alla ventisettesima COP, per la conferenza ONU sul clima, che aveva l'obiettivo dichiarato di concordare proposte concrete sull'attuazione degli obiettivi fissati a Parigi (COP 21) del 2015. Grandi assenti la Russia per la guerra in Ucraina, ma anche due dei principali inquinatori del mondo quali la Cina e l'India. Certamente non un buon inizio per pensare di chiudere un summit finalmente proficuo nell'interesse del pianeta e delle popolazioni che lo abitano.
 

Clima. Il punto di partenza
Ma anche le premesse scientifiche del summit erano già catastrofiche. Secondo l'ultimo rapporto dell'UNFCC, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, gli attuali impegni fissati dai 195 Paesi firmatari dell'Accordo di Parigi portano ad un riscaldamento globale di circa 2,5/2,8 gradi Celsius entro la fine del secolo rispetto ai livelli preindustriali. Un rapporto che mostrava già con assoluta certezza che al momento, nonostante i ripetuti impegni presi e i protocolli firmati con tutte le celebrazioni del caso, le emissioni non stanno seguendo il percorso di riduzione ritenuto indispensabile dagli scienziati in questo decennio, avviando così un prossimo “inferno climatico” dalle conseguenze tragiche e irreparabili.
Anche il rappresentante del Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEP) ha affermato pochi giorni prima del summit che “non abbiamo ancora una roadmap credibile per gli 1,5 gradi”. Ma come potrebbe essere altrimenti se, ad un anno dalla conferenza di Glasgow e a sei da quella di Parigi che fu definita “storica” da politici, dalle associazioni filogovernative e ovviamente anche dalle multinazionali - ma non da noi che la criticammo immediatamente, soprattutto per l'inconsistenza dei provvedimenti a carico di chi non avrebbe dato seguito a quella firma -, solo 33 Paesi su 195 hanno aggiornato il loro piano climatico?
E comunque, secondo il Climate Change Performance Index 2023, nessuno di essi ha raggiunto i livelli necessari a contenere l’aumento della temperatura media globale entro la soglia critica di 1,5°C. In fondo a questa speciale classifica ci sono la Cina che ha pesantemente riaperto al carbone e che consolida il primato come maggiore inquinatore globale con 10 miliardi di tonnellate di CO2 emesse ogni anno (28% del totale), Arabia Saudita, Iran e USA.
I dati globali sono dunque impietosi e lanciano l'ennesimo, grave e urgente allarme. La rivista scientifica The Lancet ad esempio nel suo ultimo rapporto ha scritto fra le altre cose che le morti per eccesso di calore sono aumentate del 68% tra il 2017 e il 2021 rispetto al periodo 2000 – 2004, l'esposizione al rischi di incendio del 61%, e le alte temperature hanno fatto perdere complessivamente 470 miliardi di ore di lavoro con un arretramento del 6% circa dei redditi dei Paesi più poveri. In questo contesto le aree che hanno sofferto siccità estrema si sono ampliate del 29% nel periodo 2012/2021, portando a 98 milioni il numero di persone che soffre la fame. Prosegue, irreversibile, anche l'innalzamento dei mari salito mediamente in due anni di 10 millimetri, e cioè del 10% dell'innalzamento complessivo degli ultimi 30 anni.
È di tutta evidenza poi che sono i grandi Paesi industrializzati che inquinano per la quasi totalità delle emissioni che vanno a condizionare il clima globale e il suo riscaldamento che genera siccità, ma anche eventi meteorologici estremi come alluvioni e tempeste che colpiscono poi in maniera prevalente i paesi poveri e quelli in via di sviluppo che non hanno strumenti per difendersi o “adattarsi”, come dicono gli esperti.
Tornando all'Italia, il nostro Paese si è confermato nel 2019 maglia nera europea per i decessi da biossido d’azoto, come rilevato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Una evidenza dell'enorme tasso di inquinamento del Belpaese che smentisce di fatto le pelose dichiarazioni della neofascista Meloni rilasciate appena atterrata in suolo d'Egitto alla riunione sul clima e le politiche “per il clima” dei governi precedenti.
 

La COP ripulisce l'immagine del regime di Al-Sisi
Un dossier di Re-Common intitolato “La campagna d'Egitto” consolida le innumerevoli critiche che sono piovute sulla COP africana, e che hanno al centro proprio la scelta dell'ONU di svolgere in quel Paese la conferenza internazionale. Un regime liberticida, quello di Al-Sisi, salito al potere dopo un golpe militare di stampo fascista, che ben conosciamo anche a livello di massa in Italia date le note vicende del caso Regeni, ma al quale Meloni non ha esitato a stringere calorosamente la mano.
Re-Common infatti denuncia che con l'Egitto l'Italia ha un canale privilegiato poiché vi sono molto attivi tanti “campioni nazionali” del fossile come Eni e Snai, ma anche la più importante banca d'affari italiana Intesa San Paolo e l'assicurazione “pubblica” SACE, che non si fanno alcuno scrupolo di fare affari con il regime, e neppure di consegnare nelle mani dello stesso Al-Sisi la nostra sicurezza energetica.
Dello stesso tenore anche una lunga e articolata presa di posizione dei giovani del Fridays for Future che parlano sia di “greenwashing” di un Paese inquinante, ma anche di uno Stato di polizia che, secondo le organizzazioni civili per i diritti umani, è uno dei più repressivi al mondo e che in meno di dieci anni ha costruito ben 10 nuove prigioni: “Se il vertice dell'anno scorso è stato un bla bla bla, il significato di quello di quest'anno è anche più minaccioso; un blood blood blood, del sangue di mille manifestanti massacrati dalla polizia per proteggere il potere dell'attuale governante”.
 

L'ennesima conferenza del nulla di fatto
Visto il quadro generale a pochi centimetri dall'irreversibilità climatica che secondo molti scienziati è addirittura già assodata, a Sharm El-Sheik era quantomai necessario trovare soluzioni immediate e attive da subito per centrare – o comunque iniziare decisamente a percorrere - i 4 grandi obiettivi che la comunità scientifica si pone, e cioè “azioni audaci e imminenti” per limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 gradi, l'adattamento, la questione dei finanziamenti e dei ristori, e la cosiddetta “collaborazione”, cioè la facilitazione degli accordi dei negoziati. Oltre a quest'ultimo obiettivo che viene continuamente ricercato proponendo e stilando piani, programmi e obiettivi sempre meno ambizioni e quindi inutili, anche gli altri punti non registrano passi avanti sostanziali dopo la chiusura della conferenza.
Nei fatti, soltanto il 20 novembre, in un clima di caos e sospetto, è uscito il documento finale che, come i precedenti, contiene tante parole ma pochi fatti. Alla fine il fondo internazionale per le perdite e i danni (loss and damage) chiesto da tempo da G77 – Paesi in via di sviluppo – e Cina ma osteggiato dal “Nord” del mondo (inclusi USA e UE) è stato istituito. Tuttavia l'UE ha strappato alcune misure che lo limitano “a chi ne ha veramente bisogno”, come ha affermato Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione Europea. Non è tuttavia chiaro chi lo finanzierà (la richiesta dell'UE includerebbe anche la Cina, oltre a UE stessa, USA, Giappone, Canada e Australia), né come verranno circoscritti i Paesi “più vulnerabili”, il che rappresenta una mancanza tanto grave da compromettere questi primi timidi passi. E comunque si procede al contrario, perché si comincia dal correre ai ripari per coprire economicamente i danni degli eventi meteorologici estremi prima di entrare nel merito dell'eliminazione delle sue cause, e cioè le emissioni da combustibili fossili.
Rimane il tetto di aumento massimo ad 1,5 gradi - che come detto continua ad essere nella pratica disatteso – ma il documento finale arretra sui meccanismi di monitoraggio e di coordinamento concordato alla COP 26. Ciò conferma che si tratta di un limite esclusivamente formale, perché lontano dalla realtà perdurando le emissioni attuali. Sarebbe infatti necessaria una riduzione delle emissioni del 43% al 2030 rispetto al 2019; ma con gli impegni di decarbonizzazione attuali il taglio di emissioni sarebbe solo dello 0,3% sullo stesso periodo. Praticamente zero.
Ad ulteriore dimostrazione che la rigidità europea sul grado e mezzo di aumento sia solo aria fritta, basta rilevare che nella pratica i Paesi europei, così come in generale gli altri più industrializzati, continuano ad investire nei già citati combustibili fossili, rilanciati pesantemente alla luce della guerra in Ucraina e oggetto degli interessi speculativi e di borsa delle multinazionali dell'energia.
Il fallimento della COP 27 è sancito poi dal rimando senza alcuna sanzione dell'aggiornamento dei piani di decarbonizzazione (obiettivi 2030) entro la COP 28 del prossimo anno, e dal mantenimento della formulazione di “riduzione della produzione elettrica da carbone” e non di abbandono di tutte le fonti fossili come il mondo della scienza chiede da anni a gran voce. Si citano infatti come mezzo di decarbonizzazione le energie rinnovabili ma anche quelle “a basse emissioni”, in riferimento a nucleare e metano. In questa sciagurata ottica, va ricordato che l'UE ha già inserito nella nuova tassonomia “verde”, quindi soggetta a contributi pubblici, sia il nucleare che il gas, e allo stesso tempo ha il coraggio di inventarsi paladina del mantenimento del +1,5 gradi. Un paradosso, una burla, se non si trattasse di un fatto così grave perché in ballo ci sono le sorti del nostro pianeta.
Tornando alla questione economica, l'indignazione degli ambientalisti si è scagliata contro la decisione di “eliminare gradualmente” i sussidi inefficienti, che lobby e stati petroliferi continueranno dunque ad incassare. Nulla di fatto ancora in relazione al fondo più importante e urgente, quello da 100 miliardi all'anno previsto alla COP di Parigi e che dovrebbe aiutare i Paesi meno sviluppati nelle politiche climatiche. Non se ne parlerà fino al 2023. Bla, bla, bla. In relazione alla partita dei diritti umani, sono rimaste solo dichiarazioni confuse e leggere.
 

La repressione di Al-Sisi non ferma le proteste degli ambientalisti
Secondo Amnesty International la COP 27 è stata la più sorvegliata di sempre. Lo sarà anche la prossima, paradossalmente già fissata per il dicembre 2023 negli Emirati Arabi, ma concentriamoci su questa. Gli attivisti per il clima arrivati sono stati confinati lontano dalle telecamere, a pochi metri dal deserto, e ciascuno di essi per potersi orientare nello sterminato ammasso di padiglioni dell'area doveva scaricare una app che per funzionare richiede l'accesso alla telecamera del telefono, al suo microfono e persino alla email dell'utilizzatore. Un controllo pericoloso, legittimato dall'ONU, e assoluto, visto anche che il regime ha fatto piazzare anche telecamere su tutti i taxi in servizio.
Naturalmente in tutto il Paese al di fuori della cittadella della COP ogni tipo di manifestazione rimaneva vietato; tuttavia con grande coraggio alcune attiviste di Fridays for Future guidate da Helena Marschall, Luisa Neubauer e Vanessa Nakate che succedono in prima linea alla svedese Greta Thunberg (che non si è recata in Egitto per non partecipare ad un evento, come lei stessa ha affermato, di “ambientalismo di facciata”, “di passerella per i leader mondiali, inutile per il cambiamento radicale necessario a salvare il pianeta”), con le mani in alto dipinte di vari colori e con su scritto “No Gas” e “No more fossil fuel”, hanno raggiunto con un bliz improvvisato le telecamere della COP alla presenza di tantissimi media di altrettanti Paesi. Sempre all'interno dei padiglioni (proprio perché per tutta la durata della Kermesse quello è considerato territorio internazionale) si è svolta anche una manifestazione dal titolo “Uniti non saremo mai battuti” promossa e realizzata da centinaia di attiviste e di attivisti che partendo dalle vicende del dissidente politico Alaa Abd El-Fattah imprigionato da oltre dieci anni dal regime di Al-Sisi, da settimane in sciopero della fame e dall'inizio della COP anche della sete, hanno chiesto giustizia climatica e sociale. I giovani, al fianco delle comunità indigene, dei gender e di decine di associazioni africane hanno definito la COP come “ipocrita”, priva di diritti, carica di lobbysti delle fonti fossili e antidemocratica.
 

Proteste anche in Italia. Chiamato in causa il governo Meloni
In contemporanea con la manifestazione di Sharm El-Sheik, presidi e cortei si sono tenuti anche in tante altre città del mondo come Madrid e in Germania dove alcuni manifestanti hanno presidiato il cantiere di ampliamento di una miniera di carbone. In Italia si sono tenuti a Roma, Milano, Padova, Torino, Forlì, Verona e in tante altre piazze dove i giovani hanno contestato sulla base di una piattaforma comune.
“Il governo egiziano nella Cop sta inscenando un vero e proprio reality show pagando attrici e attori affinché questi interpretino il ruolo di attivisti per il clima che portano avanti finte istanze preconfezionate dal governo. Nonostante ciò sarà possibile per alcuni gruppi, selezionati e controllati dallo Stato, manifestare con tanto di cartelloni nel deserto, davanti alle telecamere; in questo modo l'Egitto può apparire come una società libera e democratica e tutelare i propri interessi garantendo gli investimenti stranieri", si legge ancora nella denuncia degli attivisti.
Secondo il Fridays for Future Italia "le Cop hanno fallito una dietro l'altra, e dopo 27 anni di negoziati stiamo ancora andando nella direzione sbagliata. Non è questo il modo in cui si affronta una crisi globale".
Ma i giovani chiamano in causa anche il governo Meloni, “interessato solo a nuove trivellazioni nell'Adriatico per quantità irrisorie di gas e l'impegno finanziario preso in questa Cop è un decimo del necessario e ancora una volta perlopiù in forma di prestiti e non a fondo perduto”.
WWF, Greepeace e Legambiente si sono espresse anche sull'emendamento annunciato al decreto “Aiuti” che, se confermato, sarebbe nella sostanza un regalo alle industrie petrolifere estrattive, in primis all'ENI, e va nella direzione diametralmente opposta agli impegni già scarsi presi dall'Italia su scala globale, favorendo la fornitura e l'uso di fonti fossili agevolate come il gas. Un no secco viene opposto anche alla nuova liberalizzazione delle trivellazioni in mare, continuando con lo stesso identico modello energetico che ha prodotto questa crisi climatica mondiale della quale direttamente e indirettamente anche il nostro Paese, a partire dai più poveri, subisce le conseguenze. Anche in questo caso dunque, piena continuità con i governo Conte 1, Conte 2 e Draghi, all'insegna del neoliberismo e del capitalismo più sfrenato.
 

Per fermare il riscaldamento globale ci vuole il socialismo
Già prima dell'avvio della COP di Sharm, tantissime associazioni ambientaliste e giovanili, fra le quali Attac, Fridays for Future e Re-Common, avevano annunciato che non avrebbero partecipato ai lavori. Le motivazioni sono tantissime, ma l'unico grande denominatore di esse è che nessuna di queste associazioni intende più legittimare con la propria partecipazione attiva le solite due settimane di lacrime di coccodrillo dei governi più potenti sul clima, sul degrado ambientale, sulla siccità e sulla fame, ben sapendo che i governi stessi dedicheranno le prossime 50 settimane che le separano dalla COP successiva ad inseguire profitti in ogni modo per le aziende alle quali reggono il sacco.
Il fallimento, ampiamente annunciato, parte proprio dal fatto che l'obiettivo più ambizioso – e non centrato – era il mantenimento degli impegni presi che sono già a detta della scienza assolutamente insufficienti. Poi basta girarsi indietro per capire che perdurando il capitalismo e le sue dinamiche di profitto e di rapina delle risorse naturali regolate dalla legge, non c'è scampo per il nostro pianeta.
Fin dalle prime due conferenze sul riscaldamento globale di Berlino (1995) e Ginevra, si prendeva atto del problema, preferendo fin da subito la via della flessibilità che perdura fino ad oggi, non fissando sanzioni né conseguenze alcune per chi non rispetta gli impegni presi. In seguito le COP si sono susseguite con i grandi Paesi inquinatori che disertavano a turno, e con ben 22 anni di incontri che ponevano e trattavano, ma non risolvendo, il problema dell'assistenza finanziaria ai Paesi in via di sviluppo contro gli effetti dei mutamenti climatici. Alla COP 15 di Copenhagen si iniziava a parlare di un controllo dell'aumento delle temperature, per poi passare per il falso mito parigino del 2015, arrivando ad oggi con un pugno di mosche in mano. Tanta carta, tante sfilate politiche, tanto “greenwashing” ma zero azioni. I profitti continuano a salire, le popolazioni ad impoverirsi e a morire, al pari della Terra, per mano dei grandi capitalisti nazionali e internazionali.
Ad ogni COP i le consuetudini sono sempre le stesse, e culminano con la resa pubblica di un accordo scarso e minimale, trovato in fretta e furia dopo venti giorni di summit, che viene osannato dai più come la risoluzione di tutti i mali per poi essere sostanzialmente ignorato su scala globale. E l'anno successivo la passerella ricomincia.
Nulla potrà cambiare perdurando il capitalismo, perché sono il sistema di produzione, lo sfruttamento ad oltranza delle risorse che non vengono gestite nell'interesse pubblico, la rapina attraverso la quale i capitalisti si appropriano delle risorse naturali e le sprecano nell'esclusivo nome del profitto mentre affamano popoli interi e li condannano alla fame e alla migrazione, ad essere il cancro economico, sociale e ambientale della Terra e dell'umanità. La COP 27 ci consente per l'ennesima volta di rilanciare l'accorato appello che abbiamo rivolto già dal 2019 alle ambientaliste e agli ambientalisti d'Italia, come a quelli di tutto il mondo: “Questo è il salto di qualità che vi chiamiamo a compiere: comprendere cioè che la battaglia per l’ambiente (così come tutte le altre che hanno temi sociali), non può rimanere imprigionata in questo modello economico che mette in secondo piano l'ambiente stesso, il clima, l’inquinamento e la salute pubblica, rispetto agli interessi privati dei colossi multinazionali dell’energia, dell’acqua e dei rifiuti poiché, perdurando il capitalismo, si ripeteranno nella sostanza e magari con tendenze alterne in base allo sviluppo delle mobilitazioni e delle lotte che le popolazioni saranno in grado di imbastire, gli accordi di Parigi o poco più, pomposi ma di facciata, poiché inutili e inapplicati, e mai risolutivi.”

30 novembre 2022