Cortei a Taranto e Genova
Gli operai dell'ex Ilva in piazza chiedono al governo di nazionalizzarla

La disastrosa gestione delle acciaierie ex Ilva sta giungendo a un punto di non ritorno, tanto che la richiesta di nazionalizzazione si sta facendo sempre più forte e oramai appare l'unica strada percorribile. Anche le forze politiche più liberiste e che da sempre difendono a spada tratta la concorrenza e la “libera” impresa capitalistica, cominciano a nutrire dei dubbi sulla reale volontà dell'attuale proprietà di risollevarne le sorti. Sicuramente dubbi non ne hanno i lavoratori, a partire da quelli impiegati nei maggiori stabilimenti, Taranto e Genova, che lunedì 21 novembre hanno aderito in massa allo sciopero indetto dai sindacati.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso di una situazione diventata insostenibile, è stata la recente decisione di ArcelorMittal di sospendere le attività di 145 ditte dell'indotto che svolgono lavori ritenuti non essenziali, con le conseguenti ricadute occupazionali, calcolate in circa 2mila persone che, almeno fino a gennaio 2023, non avranno più il loro stipendio. A far salire la tensione anche il fatto che lo scorso 17 novembre, né l'amministratrice delegata Lucia Morselli, espressione del socio privato ArcelorMittal, né il presidente Franco Bernabè, espressione della pubblica Invitalia, hanno partecipato all'incontro con il Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, i sindacati e gli enti locali per fare il punto sulla situazione in cui versa l'ex Ilva proprio alla luce di questa ultima decisione.
Lo sciopero è stato indetto sia da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm, che dall'Usb. Astensione di 4 ore in tutti gli stabilimenti ex Ilva, 24 ore di sciopero invece a Taranto, che rappresenta la componente principale del gruppo come produzione e addetti. Nella città pugliese già all'alba del 21 novembre i cancelli del siderurgico erano presidiati dai lavoratori. La rabbia, la volontà di lottare e la partecipazione erano così alte che la manifestazione ha subito un cambio di programma: è stato organizzato un corteo, inizialmente non previsto, a cui hanno partecipato alcune migliaia di lavoratori che dalla sede dello stabilimento, percorrendo la Via Appia, è giunto fino al centro città.
"Via da Taranto, via da Taranto! Chi non salta è Morselli, chi non salta è Morselli!", riferito ad ArcelorMittal e alla sua Amministratrice Delegata, sono stati gli slogan più scanditi dagli operai delle acciaierie. I lavoratori e i sindacati chiedono la nazionalizzazione e il passaggio immediato della maggioranza azionaria, ora in mano al privato, alla parte pubblica, passaggio previsto solo nel 2024. Va precisato comunque che tra le organizzazioni dei lavoratori le posizioni sono diversificate. La Fiom Cgil chiede la nazionalizzazione del gruppo, come sta accadendo in Francia e Germania per gli asset industriali ritenuti essenziali per l’economia del Paese: “È già previsto che gestione e governance di Acciaierie d’Italia diventino pubbliche. Ma bisogna accelerare, perché è evidente che il socio privato Mittal non sta facendo il proprio dovere”.
La stessa richiesta è fatta propria dalla Uilm, che attraverso il suo segretario nazionale Rocco Palombella, parla ormai di accordi tra ArcelorMittal e Stato che sono “carta straccia” per “l’irresponsabilità della multinazionale”. Più cauta come al solito la posizione della Fim-Cisl che attraverso Roberto Benaglia ha dichiarato: “La nazionalizzazione è una soluzione illusoria. Il più grande polo siderurgico d’Europa ha bisogno di competenze e di un soggetto privato per poter lavorare. La scommessa con ArcelorMittal non ha funzionato, ma lo Stato oggi è già presente nel capitale. Abbiamo quindi suggerito al ministro Urso che bisogna riequilibrare l’alleanza operativa in Acciaierie d’Italia, partendo dal giusto concetto che chi mette i soldi comanda”.
Per il sindacato non confederale Usb la posizione è netta: “Ribadiamo ancora una volta che l’unica via percorribile è la nazionalizzazione di questa azienda, situazione sosteniamo da sempre, al contrario di chi oggi si risveglia per fortuna da un lungo tepore che ha contribuito a questo stallo”. Idee chiara anche da parte dei lavoratori, che hanno lanciato un appello a tutti i cittadini di Taranto e provincia ad “unirsi sotto un unico intento perché il lavoro, la salute e l'ambiente non devono portare a divisioni”.
La mobilitazione dei lavoratori ex Ilva si è fatta sentire anche a Genova. Assemblea davanti ai cancelli convocata dall’Rsu e poi corteo dietro allo striscione della fabbrica per chiedere una svolta nella gestione degli impianti e della siderurgia in Italia. Il corteo, a cui hanno partecipato centinaia di persone, ha attraversato il quartiere di Cornigliano, fino a bloccare per circa un'ora l'accesso all'autostrada e il traffico per il Ponente genovese. Anche qui si è levata forte la richiesta di nazionalizzazione da parte dei lavoratori e dei sindacati. Queste le parole del leader della Fiom genovese Michele De Palma “Noi pensiamo che sia necessario scioperare per fermare l'eutanasia dell'ex Gruppo Ilva”.
Persino il governatore della Liguria ed ex europarlamentare di Forza Italia Giovanni Toti si dice favorevole alla nazionalizzazione, così come in Puglia è sulla stessa lunghezza d'onda Cosimo Borraccino, consigliere del presidente della Regione Michele Emiliano. Ben venga il sostegno delle istituzioni, anche se è bene ricordare che sia la destra che quasi tutta la “sinistra” borghese si sono sempre adoperati per svendere le proprietà pubbliche (com'era una volta l'Ilva) o andare in soccorso dei privati per tappare i loro buchi finanziari e poi “ricollocarle” di nuovo sul mercato.
Adesso però occorre la massima rapidità, poiché la situazione si va rapidamente deteriorando. Sul piano occupazionale, i 2mila lavoratori delle ditte appaltatrici recentemente messi fuori dai cancelli di Taranto vanno ad aggravare il già precario sistema produttivo dello stabilimento di Taranto. Acciaierie d’Italia ha annunciato il rialzo dei numeri sulla cassa integrazione per i lavoratori diretti, attualmente in corso per i 3 mila lavoratori, di cui 2.500 a Taranto (si tratta di cassa straordinaria per un anno, sino a marzo 2023).
In cassa integrazione straordinaria a zero ore sono anche i 1.600 addetti in carico a Ilva in amministrazione straordinaria. Quest’ultimi sono lavoratori che l’azienda (ArcelorMittal prima, Acciaierie d’Italia dopo) non ha assunto, per cui sono rimasti alle dipendenze della società proprietaria degli impianti (Acciaierie d’Italia è gestore in affitto) e sono in cassa dal 2018. Per questi lavoratori è stato da pochi giorni confermato, su sollecitazione dei sindacati, il rifinanziamento per il 2023 dell’integrazione salariale in loro favore, pari al 10% in più sull’ammontare della cigs.
La produzione di acciaio non ha mai toccato i sei milioni di tonnellate l’anno, che sono la soglia autorizzata sino alla completa attuazione degli interventi ambientali, e che già ArcelorMittal indicava come obiettivo del 2019. Per quest’anno era stato dichiarato un obiettivo di 5,7 milioni di tonnellate, ma recentemente l’amministratore delegato Lucia Morselli ha dichiarato che “l’emergenza gas riduce un po’ la capacità produttiva, perché la quantità di gas va diminuendo”. Un obiettivo dunque non raggiungibile, considerando anche a Taranto sono fermi da luglio un altoforno su tre (il 2) e un’acciaieria su due (la 1).
A destare forte preoccupazione il deterioramento degli impianti. La manutenzione viene effettuata al minimo e adesso sarà ulteriormente ridotta visto la sospensione dei contratti con le ditte appaltatrici. Non a caso gli incidenti sul lavoro, anche mortali, sono sempre più frequenti. Sul piano del risanamento ambientale, pur usufruendo di lauti finanziamenti pubblici che si vanno ad assommare al forte utilizzo di ammortizzatori sociali sempre provenienti dalla collettività, non si registrano passi avanti significativi.
Uno stabilimento così grande e in una situazione così compromessa non può essere lasciato in mano ai privati. Non basta consegnare il siderurgico nelle mani di commissari straordinari nominati dal governo con il compito di aspettare un nuovo privato che faccia altri scempi occupazionali e ambientali. Serve una vera nazionalizzazione, limpida e sotto il controllo dei lavoratori e della popolazione, che trovi nuove fonti per alimentare gli altiforni, metta in sicurezza gli impianti, riduca al minimo le emissioni, salvaguardi l'occupazione e la salute della popolazione.
 

30 novembre 2022