Cop 15 di Montreal
Intesa non vincolante sulla biodiversità
Generici impegni sulle tutele ambientali e un accordo insufficiente dal punto di vista finanziario replicano l'inconsistenza della conferenza di Glasgow sul clima. Critiche le associazioni ambientaliste. Fridays for Future disertano ancora.
È sempre più urgente legare la lotta per l'ambiente a quella di classe per il socialismo

 
I 196 Paesi firmatari della Convezione sulla diversità biologica, un trattato del 1992 promosso dalle Nazioni Unite e firmato a Rio, si sono riunite a Montréal con l'obiettivo di stabilire un piano d'azione comune per ripristinare e proteggere gli ecosistemi degradati. Il “mantra” è sempre quello di “un percorso per rilanciare la crescita globale e per promuovere uno sviluppo verde, resiliente e inclusivo” che finora è rimasto ad ogni occasione sempre e solo sulla carta.
Le premesse di questa conferenza internazionale sono le stesse che hanno fatto da sfondo alla recente COP26 di Glasgow, rappresentate da un ambiente al collasso che, a causa del sistema economico capitalista nel suo complesso, impatta in maniera forte sull'economia mondiale e sulla vita di miliardi di persone.
Sia il cambiamento climatico, sempre più evidente come appare dall'ennesimo record delle temperature registrate nel 2022, sia il Covid, hanno evidenziato le interdipendenze tra le persone, il pianeta e l’economia, ed il ruolo centrale delle biodiversità in particolare nei Paesi in via di sviluppo dove la natura è messa pesantemente a rischio dal colonialismo e dalla rapina dei Paesi ricchi. Nei fatti, metà del Pil mondiale è generato da settori produttivi che sono dipendenti dagli ecosistemi, e due terzi delle colture alimentari dipendono almeno in parte dall’impollinazione animale.
 
Lo stato dei nostri ecosistemi
Secondo il mondo scientifico queste risorse naturali vitali sono sempre più compromesse. Oggi quasi un milione di specie di piante e animali sono a rischio d’estinzione, gli animali selvatici sono diminuiti del 69% dal 1970, e il 60-70% degli ecosistemi mondiali si stanno degradando più velocemente della loro possibilità di rigenerarsi. Con questo andazzo, secondo le stime della Banca mondiale i Paesi a basso reddito potrebbero perdere circa il 10% del loro Pil annuo entro il 2030. Tutti sanno ormai che questo processo è strettamente collegato al cambiamento climatico, e che le due crisi si rafforzano progressivamente a vicenda; tuttavia le disastrose conseguenze d'impatto mondiale non riescono a scalfire la miopia capitalista, concentrata nella ricerca del massimo profitto, del “tutto e subito” ad ogni costo, anche a quello della distruzione del pianeta nel quale anch'essi vivono.
Ma già un anno fa, un rapporto del Programma dell'Onu per l'ambiente (Unep) e della Fao evidenziava che “l'umanità sta usando circa 1,6 volte la quantità di servizi che la natura può fornire in modo sostenibile.” E Dominique Burgeon, direttore della divisione emergenze e resilienza della FAO presso le Nazioni Unite a Ginevra affermava che “Gli ecosistemi affrontano minacce enormi: le foreste vengono disboscate, i fiumi e i laghi inquinati, le zone umide e le torbiere prosciugate, le coste e gli oceani degradati e sovrasfruttati, solo per citare alcuni esempi. La conservazione di ecosistemi sani è essenziale, ma non sufficiente. Dobbiamo andare oltre e ripristinare tutti gli ecosistemi che possono essere ripristinati ".
Le domande da farsi però sono sempre le stesse: chi sovrapproduce o utilizza servizi in eccesso? Per quale motivo si disbosca indiscriminatamente e si inquina? Per quale altro ad esempio, allo stato attuale, i governi del mondo stanno spendendo almeno 800 miliardi di dollari all’anno in sussidi per combustibili fossili, pesticidi e così via che sono estremamente dannosi per l’ambiente naturale e la prima causa del riscaldamento climatico?
Alla vigilia del summit il Segretario Generale dell'Onu, António Guterres, ha chiesto un "patto di pace con la natura" con "obiettivi quantificati e mirati che affrontino le cause profonde di questa distruzione e meccanismi efficaci di responsabilità". Siamo d'accordo; se non si mette però al centro della critica il sistema di produzione capitalistico, si finisce sempre per parlare della mitigazione degli effetti, che risulta infatti impossibile se non si eliminano le cause. E questo è ciò che è accaduto anche a Montreal.
 
Anche la biodiversità ha il suo accordo non vincolante
I negoziatori, con la Cina in testa come presidente di turno, hanno raggiunto un accordo poi votato all'unanimità pur senza entusiasmo dai Paesi più poveri, il cui fulcro è rappresentato dall'impegno di proteggere il 30% delle terre e delle acque considerate importanti dagli esperti per la biodiversità entro il 2030. Attualmente sono protette il 17% delle aree terrestri e il 10% di quelle marine. Tale impegno è stato promosso in un articolo apparso nel 2019 nella rivista scientifica Science Advances ed è stato in seguito adottato da più di 100 paesi. Tuttavia rimane generico e senza conseguenze per nessuno se non centrato.
Il secondo “pilastro”, e come vedremo dai piedi di argilla, riguarda il finanziamento. Si propone una raccolta di 200 miliardi di dollari entro il 2030 per cercare di eliminare in modo graduale o riformare i sussidi “non verdi” che potrebbero fornire altri 500 miliardi di dollari per la natura. Sul fronte dei Paesi poveri, entro il 2025 è stato chiesto di aumentare ad almeno 20 miliardi di dollari il denaro a loro destinato, che sarebbe così raddoppiato.
"Il nuovo testo è un misto", ha dichiarato Andrew Deutz, direttore delle Politiche globali, delle istituzioni e della finanza per la conservazione di The Nature Conservancy, "Contiene alcuni segnali forti in materia di finanza e biodiversità, ma non riesce ad andare oltre gli obiettivi di 10 anni fa su come affrontare i fattori che determinano la perdita di biodiversità, e quindi rischia di non essere completamente efficace".
 
Le critiche al sistema di finanziamento dei Paesi poveri
D'accordo sugli “impegni” di tutela, emergono invece pesanti contraddizioni sulla questione dei finanziamenti, a tal punto che i delegati di 70 Paesi africani, sudamericani e asiatici hanno abbandonato i negoziati già nella giornata di mercoledì 14 dicembre. Il Brasile, che ha parlato a nome dei Paesi in via di sviluppo, ha dichiarato che dovrebbe essere istituito un nuovo meccanismo di finanziamento dedicato alla biodiversità e che i Paesi sviluppati dovrebbero fornire 100 miliardi di dollari all'anno in sovvenzioni finanziarie alle economie emergenti fino al 2030.
"Ci sono tutti gli elementi per un equilibrio di insoddisfazione, che è il segreto per raggiungere un accordo negli organismi delle Nazioni Unite", ha detto invece all'Associated Press Pierre du Plessis, un negoziatore della Namibia coordinatore del gruppo africano. Molte anche le lamentele dei Paesi che vedono esclusi dalla salvaguardia numerosi altri ecosistemi, come ad esempio il Cerrado brasiliano.
"La legge, nel suo ambito di applicazione o di tracciabilità, ha lasciato fuori i finanziatori, le banche, coloro che forniscono il denaro, coloro che sono dietro diverse iniziative e che non sono coperti dalla legge, quindi non sono soggetti a verifica, e da lì abbiamo già una falsa partenza" ha aggiunto Levi Sucre, coordinatore dell'Alleanza mesoamericana in una nota.
Se tutti sono concordi nell'affermare che il documento riconosce formalmente i diritti delle comunità indigene, spesso ignorati e raramente coinvolte in discussioni più ampie, molti di essi nutrono dubbi sulla concretezza di tale misura che potrebbe rimanere solo un orpello esclusivamente formale senza nessuna sostanza e capacità decisionale.
 
Il dissenso delle associazioni ambientaliste
Molte associazioni ambientaliste ritengono insufficiente procrastinare al 2050 l'obiettivo di prevenire l'estinzione delle specie, preservare l'integrità degli ecosistemi e mantenere la diversità genetica all'interno delle popolazioni.
Per Greenpeace la COP15 non è riuscita a fornire l'ambizione, gli strumenti o i finanziamenti necessari per “fermare l'estinzione di massa”. L'obiettivo di proteggere almeno il 30% di terra e di mare entro il 2030 non contempla la certezza dell'esclusione di attività dannose dalle aree protette. “Così com'è – sostiene l'associazione - è solo un numero vuoto, con protezioni sulla carta ma da nessun'altra parte.”
Da Greenpeace, dure critiche anche sulla finanza le cui misure sono ritenute insufficienti considerato il deficit di finanziamento della biodiversità stimato in oltre 700 miliardi di dollari. “Schemi aziendali si sono riversati sui colloqui sulla biodiversità delle Nazioni Unite dall'inizio alla fine. Queste sono false soluzioni che possono rivelarsi errori costosi. Gli scandali e il greenwashing che vedete nella compensazione del carbonio oggi sono ciò che è nel menu per la biodiversità domani.” è l'ultimo affondo nella nota dell'associazione.
Legambiente, in linea di massima concorde con l'analisi di Greenpeace, punta il dito sull'elemento che più di ogni altro segna il generale fallimento degli obiettivi posti alle COP dell'ONU sul clima. Il presidente nazionale Stefano Ciafani infatti ha affermato che l’accordo non è sufficiente per proteggere la biodiversità nel mondo. “Per garantirne l’efficacia – dice Ciafani - serve un’azione forte e decisa da parte dei governi che dovranno attuare l’Accordo a livello nazionale. Ai singoli Paesi è stata lasciata troppa discrezionalità, per questo sarà fondamentale che i singoli Stati implementino politiche specifiche a breve e a lungo termine per garantirne l’efficacia in tempi brevi e raggiungere gli obiettivi di conservazione della natura.”. Un film già visto, dall'esito quasi scontato.
Confermando la propria linea di opposizione già tenuta a Glasgow, i ragazzi e le ragazze di Fridays for Future hanno disertato la COP partecipando invece alla serie di iniziative dal titolo “Decolonizzare la COP15” lanciate in concomitanza con la conferenza di Montreal da Survival International.
In una loro nota si legge: “Oggi partecipiamo facendo chiarezza sul modello dominante in Asia e Africa, che distrugge le vite dei popoli indigeni e delle comunità locali e non protegge la natura. Per una visione alternativa della conservazione che già funziona e in cui i popoli indigeni hanno il controllo delle proprie terre. Questa alternativa dipende dalla diversità umana, e protegge e aumenta la biodiversità. È anti-razzista, anti-colonialista e radicata in una vera giustizia sociale e climatica. Per soluzioni reali e concrete alla crisi climatica e alla perdita di biodiversità dobbiamo ascoltare i popoli indigeni e decolonizzare la conservazione.”.
 
Intrecciare la lotta per l'ambiente, il clima e la biodiversità alla lotta di classe per il socialismo
La nota dei Fridays for future rappresenta sicuramente una posizione importante, che sottolinea l'evoluzione del movimento ambientalista giovanile in una direzione anticapitalista, su di un tema che non è stato elemento di discussione nel summit canadese. Una presa di coscienza fondamentale e sempre più diffusa che si fa strada tra l'evidenza degli insuccessi sui risultati collezionati dalle varie COP che si sono susseguite nei decenni che sono riuscite a preservare – anzi ad incrementare – soltanto i profitti delle multinazionali dell'energia sulla pelle delle popolazioni più povere e dell'ambiente.
Ma poiché il problema reale e quantomai evidente è il capitalismo e le sue dinamiche di produzione e di sfruttamento, i giovani e le giovani di tutto il mondo devono iniziare a percorrere una nuova strada che leghi indissolubilmente ed in maniera più marcata le lotte per il clima, per l'ambiente e contro la povertà a quella contro il capitalismo, causa di tutti i mali sociali e della devastazione dell'ambiente. Poi, come già affermato alla luce dei risultati della COP 26 di Glasgow, prima l'anticapitalismo si trasformerà in lotta di classe per il socialismo, meglio sarà, perchè solo il socialismo saprà conciliare la salute e il benessere dell'essere umano, con quelli degli animali e dell'ambiente, per la salvaguardia del Pianeta e del clima, in un mondo senza sfruttamento, senza profitto, senza colonialismo, senza fascismo, senza razzismo e senza miseria e fame in ogni angolo del mondo.
 

4 gennaio 2023