Cresce l'influenza del socialimperialismo cinese a scapito dell'imperialismo americano
Accordo tra Iran e Arabia Saudita con la mediazione di Xi
Per l'intelligence americano la “Cina rappresenta la minaccia principale alla sicurezza degli Stati Uniti”

 
Nel discorso di chiusura della prima sessione del 14° Congresso Nazionale del Popolo (NPC), l'organo legislativo nazionale del paese, tenuto lo scorso 13 marzo il presidente Xi Jinping spiegava che lo sviluppo della Cina sarebbe andato a beneficio del mondo e che la Cina non potrebbe svilupparsi in isolamento dal resto del mondo, due cose idilliacamente collegate nella visione confuciana del pensiero di Xi, e indicava che "ci dedicheremo alla pace, allo sviluppo, alla cooperazione e al mutuo beneficio, praticheremo un vero multilateralismo e sosterremo i valori condivisi dell'umanità". Nella realtà il socialimperialismo cinese sviluppa una politica di alleanze per rafforzare il fronte da lui guidato dei paesi imperialisti dell'Est ma il nuovo imperatore appena incoronato per la terza volta consecutiva dalla sua corte di Pechino utilizzava i recenti successi diplomatici per dimostrare che i nemici dei popoli sono soltanto i paesi imperialisti dell'Ovest a guida Usa e non parimenti i due fronti. Questa era la cornice definita attorno al piano per l'Ucraina, che finora non ha avuto lo sperato, da Pechino, effetto e Xi insistendo se lo porta dietro nella visita ufficiale a Mosca iniziata il 20 marzo. Un indubbio successo lo aveva avuto invece il 10 marzo quando nella capitale presentava nel ruolo di mediatore l'accordo fra due rivali storiche, fra le potenze egemoni locali del Medio Oriente, l'Iran e l'Arabia saudita che annunciavano di voler riprendere le normali relazioni, compresa la riapertura delle rappresentanze diplomatiche e allo scambio del personale diplomatico entro due mesi, di attivare un accordo di cooperazione sulla sicurezza firmato nel 2001 e uno ancora precedente su commercio, economia e investimenti. Resteranno dirette concorrenti per l'egemonia regionale invertendo la precedente rotta che le portava verso uno scontro diretto.
La stretta di mano che suggellava l'intesa fra i due responsabili della sicurezza, Ali Shamkhani per l'Iran e Musaed bin Mohamed Al Aiban per l'Arabia Saudita, si teneva alla chiusura dell'ultima parte del negoziato tenuta a Pechino ed era stata sviluppata nel tempo fra i recenti incontri ufficiali di Xi a Pechino con l'iraniano Raisi e a Riad col principe Salman e grazie anche all'attività diplomatica dell'Oman e dell'Iraq, che assieme alla Cina erano esplicitamente ringraziati nell'annuncio congiunto.
La rottura delle relazioni fra Teheran e Riad era avvenuta nel 2016 dopo l'esecuzione da parte della monarchia sunnita saudita del religioso sciita Nimr Baqir Al Nimr insieme ad altre 46 persone, con l'accusa di terrorismo, e proseguita nello scontro politico egemone locale tra le due potenze in altre parti della regione mediorientale e del Golfo Persico, dal Libano alla Siria, alla guerra nello Yemen. L'intesa riceveva il plauso del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ed era salutata come un riavvicinamento "necessario per la sicurezza della regione" dalla fazione filo iraniana dei ribelli Houthi nello Yemen. Se e come produrrà dei risultati anche nella formazione di un nuovo governo a Beirut, paralizzato dallo scontro fra gli schieramenti che fanno riferimento a Riad e Teheran, o nell'apertura di un rapporto della parte dell'opposizione siriana al regime di Assad appoggiata dai sauditi è tutto da vedere.
Intanto registriamo che l'intesa è figlia della nuova politica di Riad sviluppata dal principe ereditario Mohammed bin Salman, aperta a cogliere tutte le opportunità nella regione a vantaggio di Riad e non più solo in stretto collegamento col vecchio partner imperialista Usa, con un legame che rimane comunque essenziale per quanto riguarda forniture militari e difesa integrata. In questo varco si è infilata la diplomazia di Pechino che è riuscita a fare crescere nella regione l'influenza del socialimperialismo cinese a scapito dell'imperialismo americano. Una presenza confermata anche dal rafforzato coordinamento militare con Mosca e Teheran e esibito nelle esercitazioni navali tenute negli stessi giorni nei mari del Golfo Persico.
Xi ha portato a casa un risultato diplomatico laddove l'imperialismo americano sia con Trump che con Biden avevano fallito. Donald Trump aveva scelto Riad quale prima tappa del suo primo viaggio all'estero da presidente a fine maggio del 2017, un viaggio condito da una serie di incontri coi regimi dei paesi arabi e islamici reazionari in funzione essenzialmente filo sionista e anti–iraniana. Ma tre anni dopo, nell'agosto 2020, alla pomposa presentazione dell'ennesimo piano di pace imperialista a favore dei sionisti sulla questione palestinese i firmatari da parte araba erano soltanto Emirati Arabi Uniti e Bahrein.Riad si teneva fuori. Nel luglio scorso era Joe Biden a annunciare il suo viaggio in Arabia Saudita "per rafforzare la partnership strategica" che non riguardava solo il contenimento dell'Iran ma financo il contrasto alla Russia e alla Cina. Al Washington Post dichiarava che "come presidente, è mio compito mantenere il nostro Paese forte e sicuro. Dobbiamo contrastare l'aggressione della Russia, metterci nella migliore posizione possibile per superare la Cina e lavorare per una maggiore stabilità in una importante regione del mondo". Ma da Riad dove arrivava il 16 luglio non riusciva a portare a casa neanche la promessa saudita di aumentare del 50 per cento la produzione di petrolio per favorirne l'abbassamento del prezzo e non rimpinguare soprattutto le casse del Cremlino. Ben altro risultato poteva registrare neanche cinque mesi dopo il presidente cinese Xi Jinping che dopo il suo arrivo l'8 dicembre a Riad firmava col principe Mohammed bin Salman un accordo di partenariato strategico e oltre una trentina di accordi economici che nelle sue parole inauguravano "una nuova era nelle relazioni della Cina con il mondo arabo, con gli Stati arabi del Golfo e con l'Arabia Saudita". Una Cina capace infine di rimettere allo stesso tavolo i rivali Teheran e Riad.
L'imperialismo americano fin dal periodo della presidenza di Obama ha allentato la sua presenza nella regione mediorientale perché non più in grado di tenere tanti fronti e con la encessità di concentrarsi sullo scenario indo-pacifico per fronteggiare il principale avversario per la leadership mondiale, il socialimperialismo cinese. Lo stesso principio ribadito nella recente pubblicazione del rapporto annuale collettivo dei servizi di intelligence americani dove si ripete che la “Cina rappresenta la minaccia principale alla sicurezza degli Stati Uniti”, è il principale competitor degli Stati Uniti che per espandere la sua influenza sta combinando sempre più la potenza militare con l’economia, la tecnologia e l’iniziativa diplomatica.
 

22 marzo 2023