Il martirio antifascista di Gramsci non cancella il suo ruolo di teorico della revisione del marxismo-leninismo

di Ugo - Genova
Fra i tanti e colti discorsi tenuti dai compagni del PMLI, in occasione degli Anniversari della morte di Mao Zedong, sono andato a cercare e ho letto “Mao, il riformismo e l’unità della classe operaia” di Emanuele Sala, discorso tenuto il 9 Settembre del 1987.
Nel suo dotto testo il compagno Sala affronta un argomento che per alcuni aspetti può apparire delicato. Ancora oggi, discutendo con i compagni del movimento o di base, può capitare di sentire, quando vengono messi a paragone gli odierni dirigenti di una certa sinistra con quelli del passato, eccessivi elogi nei confronti di Antonio Gramsci, soprattutto, come teorico. Che Antonio Gramsci sia stato uno degli artefici fondatori e animatori del PCI nel lontano 1921 (fondazione seguita alla scissione dal PSI, che avrebbe dovuto creare un partito di “tipo nuovo” e non riformista, intenzione che avvenne, tuttavia, solo a parole), che abbia trascorso, per le sue nette posizioni antifasciste, anni di carcere, che nelle galere fasciste ci sia quasi morto (gli ultimi anni, per motivi di salute, li trascorse in una clinica) e che non abbia mai rinnegato le proprie idee, in cambio di un alleggerimento di pena, è un dato di fatto che nessuno può negare. Tuttavia, questi, diciamo, meriti, non devono distrarre, non devono fare dimenticare, l’autentico ruolo politico di teorico revisionista che egli ha avuto, e che ancora oggi continua ad avere.
Occorre ricordare che Antonio Gramsci si presentava come dirigente marxista-leninista ma lo era a “suo modo”. Per determinate ragioni la sua attività politica era persino ambigua. Poiché facendo parte del movimento comunista internazionale e avendo preso le dovute distanze dai capi socialdemocratici, che per le loro posizioni avevano perso il proprio prestigio nei confronti dei rivoluzionari, le sue teorie venivano assunte come rivoluzionarie; tuttavia, di rivoluzionario avevano ben poco se non quello di rivoluzionare la strategia marxista-leninista sulla presa del potere e della sua gestione.
Gramsci immaginava per il proletariato italiano un percorso, che lo avrebbe condotto al socialismo, completamente differente da quello del popolo russo; “la via nazionale al socialismo”. Considerava la Rivoluzione d’Ottobre per nulla adattabile alla situazione italiana. Questa posizione emerse, senza tuttavia essere assolutamente un segreto, da una sua lettera inviata a Togliatti e soci: “La determinazione che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all’assalto rivoluzionario, nell’Europa centrale e occidentale si complica per queste soprastrutture politiche create dal più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e prudente l’azione delle masse e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il marzo e il novembre del 1917”. Conclusione; per Gramsci la via sovietica non era praticabile in Occidente.
Per il proletariato italiano la via da seguire per arrivare al socialismo sarebbe stata, quindi, riformista, parlamentare, e legalitaria. Per cui la classe operaia non avrebbe dovuto prepararsi alla rivoluzione, ma tenere una “guerra di posizione o di assedio” per conquistare la “robusta catena di fortezze e casematte”; che poi altro non sarebbero che le strutture dominanti dello Stato borghese. Questi passaggi, teorizzava Gramsci, non sarebbero avvenuti con moti di piazza, ma agendo sul terreno del pacifismo, conquistando il potere attraverso il parlamento: le “casematte” sarebbero state conquistate con il consenso, con la cultura, con la ragione, con l’intellettualismo.
La lotta di classe fra il proletariato e la borghesia quindi viene, per Gramsci, come svuotata di contenuti perché determinante dovrà essere il conflitto delle idee e della ragione. Questo passo, che è l’argomento sostanziale della sua teoria, sta a indicare che il proletariato riuscirà a imporsi, come classe dirigente, solo quando avrà ottenuto dalla borghesia la “direzione intellettuale e morale”. Cardine, per conquistare il consenso della cultura e degli intellettuali, è l’egemonia gramsciana; processo politico che parte dagli intellettuali per muoversi in direzione del proletariato.
In sintesi, la rappresentazione dell’egemonia gramsciana, che è il principio centrale della strategia riformista, è la capacità di una classe sociale di essere dirigente sul piano culturale, morale e intellettuale di una intera società. Ovviamente questo requisito non potrà che avvenire prima di prendere il potere politico. In pratica la cultura, la ragione, dovrebbero preparare il terreno alla trasformazione sociale e condurre al socialismo, e questo magari perché il socialismo si presenta intellettualmente la forma di governo più corretta, più umana.
Dopo questa, mi permetto di dire, persino infantile considerazione, mi viene da pensare a coloro che propongono il pacifismo come azione politica per fermare le guerre e per risolvere, come anche sostiene la borghese Costituzione italiana, le controversie internazionali. Anche costoro preferiscono chiudere gli occhi. Può piacere o può non piacere, ma solo l’uso della forza ha determinato nella storia, nel bene e nel male, le trasformazioni sociali. Ecco, il concetto di egemonia gramsciana segue la medesima illusione; in un sistema capitalistico, dove ogni cosa si muove sotto la sua direzione, sarebbe impossibile, per il proletariato, conquistare la direzione culturale di tutte le classi.
Fra le tante “perle” di saggezza sostenute da Gramsci c’è il passaggio sulla gestione del potere. Secondo il suo pensiero, in un Paese divenuto socialista, gli eventuali problemi, i possibili conflitti fra le classi sociali esistenti, andrebbero sempre risolti con il convincimento, con il potere della ragione, e mai con la forza. Di fatto, questo ragionamento cozza, e soprattutto nega, la dittatura del proletariato, e darebbe, di conseguenza, la possibilità alla classe borghese di restaurare il capitalismo.
Non per nulla la teoria gramsciana è stata fatta propria da Togliatti, da Berlinguer, da Occhetto, da D’Alema e persino da Bertinotti. Alla conclusione di tutto, viene da comprendere che il pensiero, e le teorie, di Gramsci, erano orientate alla totale revisione del marxismo-leninismo e, concedendogli, con il beneficio del dubbio, l’involontarietà, se un contributo lo ha dato, e se un sostegno lo ha portato, è stato alla classe sociale che sosteneva di voler combattere: la borghesia. Questo gli deve essere riconosciuto.

28 giugno 2023