La deportazione dei migranti in Albania viola il Diritto di asilo
 
Lo scorso 6 novembre Giorgia Meloni, dopo l'incontro a Palazzo Chigi con il primo ministro albanese Edi Rama, ha reso noto di avere siglato un accordo con quel Paese che prevede l'istituzione entro i primi mesi del 2024 di due centri per migranti - gestiti interamente dall'Italia e sotto la giurisdizione di quest'ultima - in territorio albanese, uno nei pressi del porto di Shengjin, a circa 70 chilometri a nord della capitale Tirana, e l'altro a Gjader, piccolo villaggio dell'entroterra dove si trova una base dell'aeronautica militare albanese dismessa.
L'accordo, che ha la durata di cinque anni, prevede che le due strutture, dalle quali i migranti non potranno uscire, saranno destinate all'accoglienza temporanea di migranti diretti, via mare, verso le coste italiane e soccorsi da imbarcazioni appartenenti alle forze armate o alle forze di polizia italiane.
Per ciò che riguarda i dettagli del contenuto dell'accordo si rimanda all'altro articolo pubblicato in questo numero, mentre in questo articolo vogliamo denunciare le criticità giuridiche soprattutto, ma non esclusivamente, rispetto al diritto di asilo.
Innanzitutto, per ciò che riguarda la procedura costituzionale relativa al diritto internazionale, bisogna chiarire che tale accordo, così come finora strutturato, non è completo e soprattutto non è vincolante per l'Italia in quanto manca – considerando che l'Albania non fa parte dell'Unione Europea - un trattato internazionale, essendo quello stipulato tra la Meloni e Rama un semplice protocollo di intesa che di per sé non può vincolare l'Italia.
Per ciò che riguarda il diritto interno italiano, l'articolo 80 della Costituzione italiana prevede che “le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi ”, e l'articolo 87 della stessa Costituzione prevede che la ratifica sia fatta dal presidente della Repubblica.
Nel caso in esame non ci sono dubbi sia sul fatto che l'accordo al quale il protocollo fa riferimento è di natura squisitamente politica anche per il fatto che comporta una spesa a carico dell'Italia, visto che i due centri da realizzare saranno finanziati e gestiti con risorse economiche esclusivamente italiane.
Ma su questo - per bocca del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani – il governo ha già fatto sapere che le Camere non saranno chiamate ad alcuna legge di autorizzazione alla ratifica in quanto, a suo avviso, “c'è già un accordo internazionale che regola la materia ”, riferendosi a trattati internazionali stipulati tra Italia e Albania nel 1995 e nel 2017.
Le pretese di Ciriani, e della premier Meloni, sono inammissibili, perché il dettato testuale dell'articolo 80 della Costituzione impone all'Italia, a causa dei due elementi giuridici sopra evidenziati – ossia la natura politica dell'accordo e gli oneri alle finanze che esso comporta – l'autorizzazione parlamentare alla ratifica.
Per ciò che riguarda il diritto internazionale, l'Italia ha ratificato - con la legge n. 112 del 12 febbraio 1974 entrata in vigore il 27 gennaio 1980 – la Convenzione internazionale sul diritto dei trattati adottata a Vienna il 23 maggio 1969 i cui articoli 6 – 25 si occupano dettagliatamente della procedura che disciplina i trattati bilaterali: per l'Italia, quindi, tale Convenzione è fonte di diritto internazionale anche in base al primo comma dell'art. 10 della Costituzione il quale dispone che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute ”.
Le ulteriori disposizioni dell'articolo 10 della Costituzione sono importanti in quanto ci portano al cuore del problema degli accordi con l'Albania: “la condizione giuridica dello straniero – vi si legge - è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici ”.
Alla luce di tali principi, che riguardano strettamente il diritto di asilo, entriamo nel cuore del problema che presenta all'ordinamento giuridico italiano l'accordo con l'Albania.
La prima questione, che riguarda una pesante violazione del diritto umanitario, è chiarissima: l'Italia, che già impone ai naufraghi salvati nel Mediterraneo dalle navi delle ONG viaggi lunghissimi fino ai porti dell'Italia settentrionale al fine di scoraggiare sia i migranti sia le ONG, vuole imporre tale abominevole principio anche ai propri pubblici ufficiali, che naturalmente saranno costretti a seguire anche questa disumana prassi.
Quando il migrante si imbarcherà verso l'Italia potrà andare incontro a tre differenti possibilità con tre esiti giuridici alternativi: o riuscirà navigando a raggiungere autonomamente le nostre coste e a sbarcarvi, o l'imbarcazione nella quale egli viaggia verrà soccorsa dalle navi delle organizzazioni non governative o il soccorso in mare verrà effettuato da un mezzo navale appartenente allo Stato italiano.
Nella prima ipotesi il migrante, se individuato dalle forze di polizia sul territorio italiano, verrà inviato o in un Centro di Primo Soccorso e Accoglienza o in un Centro di Accoglienza o in un Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo o in un Centro di Identificazione ed Espulsione in base al proprio status giuridico: comunque, resterà in Italia.
Nella seconda ipotesi saranno le autorità italiane che – sulla base di quanto disposto dal decreto legge n. 1/2023 convertito dalla legge n. 15/2023 – obbligheranno l'imbarcazione dell'organizzazione non governativa che ha effettuato salvataggi nel Mediterraneo a dirigersi verso un porto sicuro che non è necessariamente quello più vicino, come richiede l'interpretazione più logica alla luce di un principio generale del diritto della navigazione, ma quello arbitrariamente scelto – al fine di scoraggiare sia l'immigrazione sia l'attività delle ONG - dalle stesse autorità, le quali finora hanno individuato porti certamente sicuri ma che si trovano nell'Italia settentrionale come Ancona, Pesaro, Ravenna, Livorno, La Spezia e Genova: dopo lo sbarco i migranti verranno collocati in uno dei quattro centri sopra descritti in base al loro status giuridico, e comunque rimarranno in Italia.
All'Albania saranno destinati soltanto i migranti soccorsi da imbarcazioni militari e di polizia italiane, per le quali non valgono le norme del decreto legge n. 1/2023 sopra citato ma per le quali valgono le disposizioni positive del diritto internazionale accettate dall'Italia, le quali prevedono che siano sbarcati in un porto sicuro, e i principi generali del diritto della navigazione, in base ai quali tale porto debba essere il più vicino possibile. Anche qui però prevarrà, grazie all'accordo con l'Albania, una squallida logica vessatoria nei confronti dei migranti, e ad attuarla questa volta saranno i militari e gli appartenenti ai corpi di polizia i cui mezzi navali hanno effettuato il salvataggio, perché la navigazione dalle coste siciliane o calabresi fino al porto di Shengjin dura giorni e non ore, e per i migranti stremati ciò è profondamente differente.
L'accordo con l'Albania inoltre viola il diritto di asilo attuando, di fatto, un illegittimo respingimento dal territorio nazionale.
Infatti se il salvataggio dei migranti ad opera delle navi militari e delle forze di polizia italiane avviene nelle acque territoriali italiane i migranti da quel momento sono sotto la giurisdizione italiana, ma anche se il salvataggio avviene, ad opera di tali imbarcazioni, in acque internazionali i migranti, ai sensi dell'articolo 4 del codice della navigazione italiano, accedono al territorio italiano, perché tali navi vengono considerate sempre territorio italiano.
Quando un migrante sale a bordo di una nave italiana, e questo è vero soprattutto se tale imbarcazione è militare o di una forza di polizia, è come se fosse in Italia e, in base alle norme del diritto internazionale umanitario, ha il diritto di ricevere informazioni e di manifestare la volontà di chiedere asilo, invece verrà deportato direttamente in Albania. Bisognerebbe perciò ipotizzare che eventuali richieste d'asilo vengano vagliate all'interno della nave di salvataggio ma – considerando che i salvataggi sono eventi di emergenza - difficilmente all'interno di tali navi è possibile ipotizzare la presenza stabile di personale civile che possa sbrigare tali pratiche. D'altra parte lo sbarco in territorio albanese di tali migranti viola la normativa sul divieto di respingimento arbitrario dal territorio nazionale e di deportazione di tali migranti in uno Stato estero, a cominciare dalle norme espresse dall'articolo 10 della Costituzione per finire con quelle contenute nel decreto legislativo n. 286/1998, ossia nel testo unico sull'immigrazione.
La Meloni ha più volte affermato, anche se il testo dell'accordo non è del tutto chiaro, che la giurisdizione all'interno dei due centri albanesi sarà italiana, ma fino ad oggi la giurisdizione italiana all'estero si applica - in base al diritto interno e internazionale - solo alle ambasciate, ai consolati e alle navi o aeromobili battenti bandiera italiana e difficilmente si può pensare che questa regola sia estesa solo sulla base di un accordo: insomma, il fine politico è chiaro, ossia l'esternalizzazione del diritto di asilo da parte dei richiedenti e la preservazione del territorio nazionale da questa incombenza.
C'è poi la grave problematica, già paventata dall'Unione Europea con tanto di richiesta di spiegazioni da parte di un portavoce della Commissione al governo italiano sulla vicenda, dell'applicazione del diritto europeo in materia di diritto d'asilo in uno Stato che non fa parte della UE, essendo la normativa europea limitata nella sua applicazione ai soli Stati membri aderenti e non certo esportabile in un territorio esterno per iniziativa di uno Stato membro che ha agito per proprio conto e senza nemmeno interrogare le istituzioni preposte della stessa Unione: la Meloni ha più volte parlato di giurisdizione italiana applicabile a Shengjin e a Gjader, ma ciò, oltre a creare gravi problemi di diritto interno e di diritto internazionale come sopra si è visto, crea difficoltà insormontabili anche all'ordinamento giuridico europeo.
Gravissime difficoltà, se l'accordo dovesse trovare applicazione, si avrebbero poi per ciò che riguarda la competenza territoriale dei magistrati relativamente ai procedimenti giurisdizionali, perché non è chiaro se dei magistrati italiani verranno trasferiti nei due centri albanesi per svolgere le loro funzioni o se i migranti che dovessero far ricorso dovranno far la spola tra l'Italia e l'Albania.
Altro punto critico è il diritto dei migranti di essere difesi da un avvocato italiano (o di uno degli Stati della UE), un diritto insopprimibile ed espressamente definito “inviolabile ” dall'articolo 24 della Costituzione: mentre nell'attuale situazione il migrante può facilmente procurarsi un legale nel luogo di domicilio in territorio italiano, tutto diventerà assai difficile se e quando verranno istituiti i centri per migranti in Albania, perchè il diritto alla difesa rischierà di diventare soltanto virtuale. Ed è ovvio che ostacolare di fatto, o rendere comunque difficilissimo, sia il magistero particolare degli avvocati - consistente nella difesa tecnica del singolo migrante - sia il loro magistero generale - consistente nell'esteso controllo sul rispetto della legge da parte di uffici, istituzioni e pubblici impiegati e funzionari – espone le norme dell'accordo, anche se ratificate, all'accusa di incostituzionalità per violazione del menzionato articolo 24 della Costituzione.

15 novembre 2023