Cop28: Troppo tardi l'abbandono dei combustibili fossili e con molte scappatoie
Briciole ai Paesi meno sviluppati per uscire dal fossile. Usa, Cina, Russia, Brasile e altri aumenteranno le trivellazioni
 
Si è chiusa la Cop 28 sul clima, ancora una vota nel segno degli interessi “oil & gas”. D'altra parte le premesse configuravano un quadro già di per se sconfortante, ed il fatto che l'appuntamento da 70mila partecipanti si svolgesse in un Paese del fossile presieduto da un petroliere, era di per se indicativo.
Lo svolgimento dei lavori ha sancito il resto; dai grandi affari degli Emirati Arabi in virtù del fatto di ospitarlo, alla sproporzionata presenza di lobbisti che hanno rappresentato la fetta preponderante delle decine di migliaia dei presenti.

Obiettivi lontani e rilancio del nucleare
Come avevamo già accennato nel precedente articolo all'apertura della Cop28, a Dubai c'è stato un grande rilancio internazionale del nucleare, e non solo da parte del gruppo di 22 Paesi guidato da Francia, USA, Canada e Giappone che ha chiesto di triplicarne la produzione con la scusa di ridurre la dipendenza da petrolio, gas e carbone. Il nucleare stesso – anche senza considerare i rischi ed il problema delle scorie - è in realtà complice del fossile nel rallentare una reale transizione energetica verde soprattutto per i lunghissimi tempi di adeguamento degli impianti attuali e di costruzione dei nuovi; nel frattempo si produrranno ancora energie fossili. Un secondo motivo non meno importante sono i suoi altissimi costi che rappresentano un ulteriore drenaggio a quel poco di fondi che ricevono le tecnologie rinnovabili.
Eppure per il mondo della scienza, la salvezza dal cambiamento climatico in atto è nelle mani dell'uscita definitiva dal fossile. Purtroppo però per essa si continuano a dare limiti temporali troppo lontani nel tempo rispetto alle urgenti necessità del pianeta; stavolta è stato ribadito il limite del 2050 che però è smentito dalle politiche energetiche dei singoli stati, che da anni sono in controtendenza rispetto agli impegni presi.
A Dubai insomma, ha vinto ancora una volta il peso degli idrocarburi e della propaganda della cosiddetta “tecnologia di cattura” della CO2 che lo stesso mondo scientifico sa essere completamente insufficiente.
Anche gli applausi che hanno salutato la costituzione del famigerato fondo Loss&Damage per supportare i Paesi più colpiti dal cambiamento climatico e per aiutare nella transazione quelli in via di sviluppo, non hanno alcuna ragione, e per un semplice motivo: al suo interno ci sono centinaia di milioni, quando invece al mondo servirebbero centinaia di miliardi. In questo quadro gli obiettivi dichiarati dal fondo non possono essere centrati, se non in una piccola ed insufficiente parte che non cambierà il corso del riscaldamento globale e dei disastri ad esso connessi.

I piani nazionali continuano a smentire le dichiarazioni
Premesso che senza fondi non ci sono le condizioni per il “phase-out”, cioè per l'uscita dal fossile, ancora una volta sono i piani nazionali che smentiscono ogni dichiarazione di circostanza.
Anche la nostra percezione “europea” del nord ricco e votato alle rinnovabili, decade pensando – per fare un esempio - che la stessa Norvegia, che si schiera anche formalmente con l'uscita dai combustibili fossili, ha enormi piani di espansione nel settore petrolifero.
Infatti, nonostante l'obiettivo della Cop28 e del suo documento finale sia quello di sottolineare la determinazione del “phase-out”, la realtà dei fatti è un’altra, ben relazionata nell'ultimo Production Gap Report coordinato dallo Stockholm Environment Institutee e dall'ONU stessa, il cui titolo è già una sentenza: “I principali produttori di combustibili fossili hanno in programma di estrarre ancora di più nonostante le promesse sul clima”.
I 20 Paesi a cui si fa riferimento sono Arabia Saudita, Australia, Brasile, Canada, Cina, Colombia, Emirati Arabi Uniti, Federazione russa, Germania, India, Indonesia, Kazakhstan, Kuwait, Messico, Nigeria, Norvegia, Qatar, Regno Unito e Stati Uniti d’America, e insieme rappresentano l’82% della produzione e il 73% dei consumi dell’offerta globale di combustibili fossili.
Tali governi prevedono di produrre nel 2030 circa il 110% in più di combustibili fossili di quanto sarebbe compatibile con la limitazione del riscaldamento a 1,5°C. Per quanto riguarda il carbone, si tratta di un aumento a breve termine, cioè con un orizzonte al 2030, che si sposta però addirittura al 2050 per petrolio e gas. Eppure per essere coerenti con la limitazione del riscaldamento a 1,5°C, l’offerta e la produzione globale dovrebbero diminuire rapidamente e sostanzialmente da qui alla metà del secolo.
“Lo scollamento tra i piani di produzione di combustibili fossili dei governi e i loro impegni per il clima è evidente per tutti e tre i combustibili” segnala il report. La Cina ad esempio prevede che la produzione nazionale di gas aumenterà del 56% tra il 2020 e il 2030 e del 13% tra il 2030 e il 2050; nel febbraio 2022, Pechino ha approvato tre nuovi progetti di miniere di carbone, di cui il Paese è il primo consumatore globale.
Gli USA, invece, a marzo 2023, oltre ad aver confermato colossali piani di esportazione delle fossili che saranno dunque prodotte, hanno approvato il più grande progetto petrolifero di tutti i tempi, quello di ConocoPhillips in Alaska, che prevede una produzione fino a 180mila barili al giorno al 2030, quando in teoria il petrolio dovrebbe essere sparito dall'orizzonte globale produttivo.
La Russia invece, dove la produzione di fossili rappresenta il 20% del PIL, entro il 2035 produrrà il 53% in più di carbone e il 32% in più di gas, l’Arabia Saudita prevede un aumento dell’1% annuo nella produzione di petrolio fino al 2050, mentre altro carbone arriverà da India ed Indonesia.
Simon Stiell, capo delegazione delle Nazioni Unite per il clima, l'8 dicembre scorso ha dichiarato: “Le buone intenzioni non dimezzeranno le emissioni in questo decennio, né salveranno vite umane ora”. In realtà in questo contesto, non si riescono a percepire nemmeno le buone intenzioni, ma solo proclami falsi e menzogneri per salvare la faccia grazie ad un'artata proganda mediatica affinché tutto continui ad andare dritto e veloce per la solita strada.

L'accordo di Dubai è “una pugnalata” ai Paesi più colpiti
Se le associazioni ambientaliste più istituzionali si mostrano timide sulla valutazione dell'accordo, altrettanto non fanno gli altri gruppi che da qualche anno hanno voltato pagina non accreditando più di fiducia le Cop dell'ONU e disertandole a causa degli scarsi risultati prodotti.
Legambiente parla di “timido passo in avanti” per aver confermato l'uscita dai fossili nel 2050 e si compiace per l'impegno a triplicare le rinnovabili ed il raddoppio dell'efficienza energetica, nonostante come abbiamo visto l'impatto sia comunque smentito dai piani nazionali. L'associazione riesce per lo meno a criticare l'utilizzo dei fossili in questa transizione e il mancato impegno concreto per la finanza climatica che definiscono “indispensabile”. Il presidente Stefano Ciafani caldeggia una revisione dei piani nazionali che non avverrà e chiede un cambio di passo anche al governo Meloni con la definizione di una “road map” nazionale per la decarbonizzazione e la revisione del PNIEC che porti alla riduzione di almeno il 65 per cento delle emissioni entro il 2030. È quantomeno improbabile che un governo che ad oggi si è dimostrato pro-fossile ed anti-rinnovabile, accetti di buon grado una proposta del genere, in un contesto internazionale improntato purtroppo allo sviluppo dei fossili.
Più determinata invece l'attivista Greta Thunberg, fondatrice del movimento Fridays for Future, che durante un presidio davanti al parlamento svedese ha definito l'accordo: “Una pugnalata alle spalle per le nazioni più colpite dal riscaldamento globale e non fermerà l'aumento delle temperature oltre i livelli critici (…) il patto non è progettato per risolvere la crisi climatica, ma come alibi per i leader mondiali che ignorano il riscaldamento globale.”. “Finché non tratteremo la crisi climatica – ha concluso – come una crisi e finché continueremo a far si che gli interessi delle lobby influenzino questi testi e questi processi, non arriveremo da nessuna parte.”.
Le fa eco il movimento Extintion Rebellion, che denuncia la presidenza del petroliere Al Jaber, la presenza di oltre 600 lobbisti che hanno fatto affari d'oro con le energie fossili mentre sarcasticamente i testi si affannano a dire che dobbiamo uscirne, in un quadro nel quale “più di mille compagnie che nel mondo stanno progettando nuovi gasdotti, centrali elettriche a gas o terminali di esportazione di gas naturale liquefatto, hanno assaltato Dubai con le loro influenti presenze con il preciso obiettivo di annientare i già deboli sforzi globali per ridurre le emissioni.”.

Il futuro delle Cop ha ancora il sapore del petrolio
Dobbiamo anche rilevare che, come già accaduto in Egitto lo scorso anno, i Paesi nei quali sono state convocate le Cop possiedono requisiti che rendono problematiche – per non dire impossibili – le contestazioni degli ambientalisti.
Le leggi in vigore anche a Dubai che prevedono permessi rigidi e con tempistiche dilatate sia per convocare manifestazioni, sia per l'esposizione di cartelli e bandiere, uniti ai costi altissimi di queste città, sono un deterrente invalicabile alla partecipazione internazionale degli attivisti che solitamente provenivano in forze da ogni parte del mondo. Chiaramente ciò è di grande aiuto per i Paesi inquinatori e per i lobbisti stessi che possono pensare ai loro affari senza particolari problemi e, soprattutto, applaudire ai loro miseri e insufficienti testi senza che sui media internazionali vi sia traccia di contestazioni, oppositori e manifestazioni.
A testimoniare l'andazzo delle Cop, che in fin dei conti si inserisce in quella grande operazione di riabilitazione internazionale dei Paesi che vivono grandi contraddizioni ambientali (greenwashing), ma anche coi più semplici diritti umani (vedi i recenti mondiali di calcio in Qatar), come non sottolineare la scelta per la location della prossima conferenza sul clima, che si terrà in un altro Paese autoritario ed improntato agli idrocarburi come l'Azerbaijan. La kermesse si terrà infatti a Baku, città dell'allora impero zarista che nell'800 assieme agli Usa aprì l'era del petrolio, e che oggi dato il profondo legame economico con l'oro nero, ha sentito la necessità di costruire le “Flame Towers”, un complesso di grattacieli che ne contraddistingono il profilo urbano e che rappresentano nientemeno che la fiamma dei pozzi petroliferi.

Per impedire il riscaldamento globale ci vuole il socialismo
Insomma, l'ennesimo fallimento era anche stavolta ampiamente annunciato, in un consesso che affonda le sue radici nel capitalismo preservando innanzitutto non il clima, ma sue dinamiche di profitto e di rapina delle risorse naturali regolate dalla legge borghese, che non danno scampo al nostro pianeta.
Ad ogni Cop le consuetudini sono sempre le stesse, e culminano con la resa pubblica di un accordo insufficiente, trovato in fretta e furia dopo giorni e giorni di summit, e che viene osannato come un “miracolo” dell'ultimo minuto per poi essere sostanzialmente ignorato su scala globale. E l'anno successivo la passerella ricomincia da capo.
Noi sappiamo bene che poco potrà cambiare perdurando il capitalismo, perché sono il sistema di produzione, lo sfruttamento a oltranza delle risorse che non vengono gestite nell'interesse pubblico, la rapina attraverso la quale i capitalisti si appropriano delle risorse naturali e le sprecano nell'esclusivo nome del profitto mentre affamano popoli interi e li condannano alla fame e alla migrazione, ad essere il cancro economico, sociale e ambientale della Terra e dell'umanità.
La Cop 28 ci consente per l'ennesima volta di rilanciare l'accorato appello che abbiamo rivolto già dal 2019 alle ambientaliste e agli ambientalisti d'Italia, come a quelli di tutto il mondo: “Questo è il salto di qualità che vi chiamiamo a compiere: comprendere cioè che la battaglia per l’ambiente (così come tutte le altre che hanno temi sociali), non può rimanere imprigionata in questo modello economico che mette in secondo piano l'ambiente stesso, il clima, l’inquinamento e la salute pubblica, rispetto agli interessi privati dei colossi multinazionali dell’energia, dell’acqua e dei rifiuti poiché, perdurando il capitalismo, si ripeteranno nella sostanza e magari con tendenze alterne in base allo sviluppo delle mobilitazioni e delle lotte che le popolazioni saranno in grado di imbastire, gli accordi di Parigi o poco più, pomposi ma di facciata, poiché inutili e inapplicati, e mai risolutivi.”

20 dicembre 2023