Sull'assistenza
UNA LEGGE LIBERISTA, FAMILISTA E FEDERALISTA PER LA SECONDA REPUBBLICA
La "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali'' aveva formalmente il compito di ricondurre a un quadro unitario i molti provvedimenti settoriali, superare la frammentazione o sovrapposizione di compiti e rendere omogenea la distribuzione territoriale delle prestazioni e dei servizi in una materia, quella assistenziale, che ancora era disciplinata dalla Legge Crispi del 1890.
In realtà essa è una legge chiave per il completamento della seconda repubblica capitalista, neofascista, presidenzialista e federalista anche in campo sociale in quanto, dopo le controriforme di pensioni e sanità, sancisce la definitiva cancellazione dello "Stato sociale''.
Sussidiarietà, liberismo economico, familismo e federalismo sono i principi cardini che la ispirano e che rappresentano il quadro unitario a cui ricondurre ogni sua norma.

PRINCIPI GENERALI
Il primo comma dell'articolo 1 già contiene l'essenza di tutta la nuova concezione dell'assistenza sociale della seconda repubblica. Esso recita: "La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione''.
Si noti innanzitutto che i destinatari delle prestazioni assistenziali sono le "persone'' e le "famiglie'' e non più la collettività, pur nella sua accezione liberale di "cittadini'', come contenuto nella Costituzione. Cosicché la famiglia diventa il vero soggetto del diritto sociale all'assistenza.
La Costituzione affermava anche che al compito di assicurare il diritto all'assistenza doveva provvedere lo Stato. La legge invece parla di "sistema integrato di interventi e servizi sociali'', volendo con il termine "integrato'' sottolineare il passaggio da un sistema pubblico a un sistema combinato di famiglia-mercato-enti locali-Stato, secondo il principio liberista e cattolico della "sussidiarietà''.
La legge si propone la promozione della "qualità della vita'', delle "pari opportunità'' e della "non discriminazione'', secondo una formulazione tipicamente liberale, e non la realizzazione di una politica di assistenza e di servizi sociali che sia finalizzata a garantire eguali e sempre migliori condizioni di vita per tutti. Infatti si guarda bene dal riaffermare sia pure formalmente il diritto inalienabile e universale all'assistenza sociale e ai servizi sociali e, di conseguenza, il dovere dello Stato a garantire tale diritto a tutti. Al contrario la legge subordina il godimento dell'assistenza, anche per i più bisognosi, ai criteri di sussidiarietà, efficienza, economicità e copertura finanziaria (comma 3, art. 1), mentre delega l'erogazione, la programmazione, l'organizzazione e la gestione dei servizi sociali alle Regioni e agli enti locali in concorso con il cosiddetto privato-sociale e i soggetti privati (comma 4, art.1) e assegna un ruolo centrale alla famiglia (e alle famiglie attraverso le forme di auto-aiuto) quale principale fonte di servizi sociali specie per le fasce sociali più povere (comma 5, art.1).
Pur affermando a parole il carattere universale del sistema assistenziale, in realtà lo nega applicando una sorta di "universalismo selettivo''. Infatti la legge (art. 2): 1. Dà facoltà alle regioni di stabilire limiti al godimento delle prestazioni e dei servizi da parte della popolazione straniera immigrata; 2. Conia il principio della "priorità di accesso'' ai servizi, seppure, formalmente, a favore dei soggetti più bisognosi, che di fatto contempla un principio di "esclusione''; 3. Subordina l'accesso alle prestazioni e ai servizi al reddito e alla condizione personale e familiare. Vengono così a mancare proprio i requisiti fondamentali dell'universalità che sono il diritto per tutti ad accedere a un sistema di assistenza e di servizi sociali efficace, gratuito e omogeneo sul territorio nazionale. Un sistema che deve essere pertanto pubblico e che si alimenta attraverso le risorse ricavate da un giusto sistema di prelievo fiscale progressivo e non già dalla partecipazione diretta dei singoli e delle loro famiglie.
Con ciò, pur richiamandosi nel primo comma dell'art. 1 alla coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione, la legge in realtà li calpesta e li straccia completamente.

PRIVATIZZAZIONE DEI SERVIZI
La legge-quadro include il mercato privato fra i soggetti autorizzati a erogare servizi sociali e intende promuovere, valorizzare e allargare l'intervento privato in compiti tradizionalmente demandati all'intervento pubblico.
Già all'articolo 1, comma 4 e 5, riconosce e agevola il ruolo di programmazione, realizzazione, gestione e offerta dei servizi da parte del "terzo settore'', il cosiddetto privato non-profit composto da Organismi non lucrativi di utilità sociale (Onlus), cooperative, associazioni, enti, fondazioni e patronati vari, associazioni di volontariato, nonché "enti riconosciuti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese''. In questo modo lo Stato italiano rinuncia anche alla sua autonomia e alla sua formale "laicità'', oltreché a una sua quota di sovranità.
Fra le direttive della legge-quadro, vi è quella che gli enti territoriali dovranno promuovere azioni per il sostegno e la qualificazione dei soggetti operanti nel "terzo settore''. Tali azioni vanno dalle agevolazioni fiscali, alle politiche formative, all'accesso agevolato al credito e ai fondi dell'Unione europea (art. 5).
LE IPAB
Sempre nell'ambito della massiccia privatizzazione dei servizi sociali rientra anche quella delle 4.200 Ipab, gli istituti pubblici di assistenza e beneficenza istituiti con la Legge Crispi del 1890, che con il loro patrimonio stimato in 37 mila miliardi rappresentavano fin qui il motore dell'assistenza pubblica in Italia. Ora la legge quadro delega al governo (art. 10) il compito di rivedere la disciplina delle Ipab in modo da garantirne l'autonomia statutaria, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, un regime giuridico per il personale di tipo privatistico e forme contrattuali coerenti con la loro autonomia, il che rappresenta di fatto una loro privatizzazione. Senza contare che la legge indica espressamente al governo di prevedere nella nuova normativa la possibilità di trasformare le Ipab in associazioni o in fondazioni di diritto privato.

I BUONI SERVIZIO
Un altro regalo ai sostenitori delle privatizzazioni è l'istituzione dei buoni servizi. I Comuni sono infatti autorizzati (art. 17) a concedere titoli validi per l'acquisto di servizi erogati da soggetti accreditati, anche come sostitutivi delle prestazioni economiche. Si tratta della misura sostenuta dal Polo e dalla chiesa cattolica per favorire il ricorso al mercato privato (in particolare cattolico) anche nel campo dei servizi sanitari, della scuola, ecc. e foraggiare il mercato stesso con il denaro pubblico.

LA FAMIGLIA AL CENTRO DELLA POLITICA SOCIALE
Come da sempre auspicato dalla destra e dai fascisti, nonché dal papa e dalla chiesa cattolica, la famiglia torna ad essere una protagonista centrale della politica sociale come ai tempi di Mussolini. Essa infatti diviene soggetto sia dei diritti sociali attraverso una serie di misure a suo sostegno, sia come una delle fonti principali di erogazione dei servizi sociali. In sostanza, lo Stato mira a scaricare sulla famiglia e al suo interno sulla donna, come e più di quanto già faccia oggi, l'intero carico dell'assistenza e della cura di ogni suo componente a cominciare dai soggetti più deboli e bisognosi economicamente, gli anziani non autosufficienti, i disabili, i malati, i bambini, ecc.
La legge mira proprio a mettere in moto, fino all'eccesso, le risorse interne alla famiglia e addirittura a creare fra le famiglie una rete di sostegno reciproco (il cosiddetto auto-aiuto) al fine di evitare o quantomeno limitare il ricorso ai servizi e prestazioni esterni alla famiglia stessa.
In questo quadro, un intero articolo della legge (l'art. 16) è dedicato alla "Valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari''. In questo articolo (comma 1) si afferma che "il sistema integrato di interventi e servizi sociali riconosce e sostiene il ruolo peculiare delle famiglie nella formazione e nella cura della persona, nella promozione del benessere e nel perseguimento della coesione sociale; sostiene e valorizza i molteplici compiti che le famiglie svolgono sia nei momenti critici e di disagio, sia nello sviluppo della vita quotidiana; sostiene la cooperazione, il mutuo aiuto e l'associazionismo delle famiglie nella formazione di proposte e di progetti per l'offerta dei servizi e nella valutazione dei medesimi''.
Sono quindi previsti (con qualifica di "priorità'') misure di sostegno monetario attraverso "assegni di cura'' alla maternità e paternità, contributi per le famiglie che accolgono e curano disabili, minori e anziani, "prestiti d'onore'' in luogo di contributi in denaro, agevolazioni fiscali e tariffarie. Si promuovono politiche di "conciliazione fra tempo di lavoro e tempo di vita'', ossia di conciliazione fra lavoro e schiavitù domestica delle donne, attraverso, si suppone, le solite ricette liberiste del part-time, della flessibilità e della precarietà del lavoro. Sono previsti anche servizi cosiddetti di "sollievo'' che dovrebbero affiancare la famiglia nella cura a domicilio degli anziani, dei disabili, dei minori in affidamento, per lo più affidati alle associazioni di volontariato, che già come si evince dalla loro definizione, rappresentano solo dei "pannicelli caldi'' rispetto agli oneri che tale cura comporta.

FEDERALISMO
Secondo il principio federalista dell'autonomia amministrativa e impositiva di Regioni e Comuni, lo Stato delega ad essi i compiti di programmazione, organizzazione, gestione e controllo di tutta la rete dei servizi, creando così i presupposti per un ulteriore approfondimento delle disuguaglianze territoriali (specie fra il Sud e il Nord del Paese) per quanto concerne distribuzione, prestazioni, qualità, efficacia, tariffe del sistema assistenziale.
Ciò si realizza innanzitutto attraverso il nuovo assetto istituzionale e organizzativo.
Allo Stato resta sostanzialmente solo un ruolo di indirizzo e coordinamento della politica assistenziale (art. 18) e la ripartizione delle risorse del Fondo nazionale per la politica sociale fra le varie regioni (art. 9). Tale ripartizione, peraltro, avverrà senza vincolo di destinazione, come sarà previsto nella prossima Finanziaria sulla base di un accordo intercorso fra governo e polo alla vigilia dell'approvazione della legge-quadro sull'assistenza.
Alle Regioni è affidato il compito di programmazione, coordinamento, indirizzo e verifica degli interventi sociali e la predisposizione del Piano regionale provvedendo all'integrazione socio-sanitaria (art. 8 e 18, comma 6). Le Regioni provvedono alla ripartizione dei finanziamenti assegnati dallo Stato e a cofinanziare gli interventi trasferiti ai Comuni (art. 4)
I Comuni sono titolari delle funzioni amministrative a livello locale e concorrono alla programmazione regionale. Le Province concorrono alla programmazione, ma gran parte delle loro attribuzioni è trasferita ai Comuni. I Comuni definiscono il Piano di zona (art. 6, 7, 19). Sono a carico dei Comuni le spese di attivazione delle prestazioni e dei servizi (art. 4). I Comuni autorizzano al funzionamento i servizi, le strutture sociali e socio-sanitarie, pubblici e privati. Provvedono anche all'accreditamento delle strutture e corrispondono le tariffe per le prestazioni erogate, sulla base delle indicazioni regionali (art. 11).

"STATO SOCIALE'' MINIMO LIVELLO ESSENZIALE DELLE PRESTAZIONI
Nell'ambito della definizione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, la legge stabilisce il "livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi... nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali'' (art. 22, comma 2).
Questo "livello essenziale'' configura sostanzialmente uno "Stato sociale'' minimo, di tipo caritatevole, destinato solo a una fascia sociale assai ristretta di poveri e bisognosi in stato di assoluta necessità. Rientrano in questo "livello essenziale'': misure di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora; misure economiche per favorire la permanenza domiciliare di persone totalmente dipendenti o incapaci; i minori in situazioni di disagio e abbandonati; le misure per favorire la "responsabilità familiare''; interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio; prestazioni di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da droghe, alcool e farmaci; informazioni e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e per promuovere iniziative di auto-aiuto.

REDDITO MINIMO DI INSERIMENTO
Fra le misure di "contrasto alla povertà'' viene contemplata la possibilità di estendere l'istituto del "Reddito minimo di inserimento'' a tutto il territorio nazionale. Va ricordato che tale istituto è stato introdotto, in via sperimentale e per determinati Comuni dalla Finanziaria 1998, la legge 449/97. La disciplina successivamente dettata dal dlgs. N. 237/98, ha previsto una durata massima di sperimentazione di due anni, comunque entro il 31 dicembre 2000 e consiste in una prestazione monetaria, integrativa del reddito del richiedente, fino a un massimo di 520 mila lire mensili per la durata di 12 mesi. Si tratta di una vera e propria elemosina che certo non garantisce neanche il minimo per vivere soprattutto a chi non possiede alcun reddito. Tale "Reddito minimo d'inserimento'', da quanto si deduce dalla lettura dell'art. 23 della legge-quadro, dovrebbe andare a sostituire la pensione sociale istituita nel 1969 per tutti gli ultrasessantacinquenni, senza reddito, sostituita poi nel 1996 con l'assegno sociale, a seguito della nota controriforma Dini delle pensioni, che resterebbe in vita solo per chi già ne ha acquisito il diritto. In sostanza, non solo non si provvede ad aumentare considerevolmente i fondi da destinare a questo tipo di prestazioni sociali, ma si va a rimuovere un diritto acquisito e uguale per tutti a livello nazionale, per sostituirlo con un istituto che pone criteri di accesso e di requisiti ancor più restrittivi e subordinati alle risorse e ai piani dei Comuni che sono chiamati ad assumerne la titolarità.

PENSIONI DI INVALIDITA' CIVILE, CECITA' E SORDOMUTISMO
Anche per quanto riguarda le pensioni di invalidità si prospetta un bel salto nel buio. La legge-quadro delega infatti al governo (art. 24) l'emanazione, entro 6 mesi, di un decreto legislativo per il riordino degli emolumenti derivanti da invalidità civile, cecità e sordomutismo, all'evidente scopo di rivedere in senso restrittivo criteri di assegnazione e consistenza di tali emolumenti. L'unica cosa certa infatti è il vincolo, posto dalla legge, che tale decreto legislativo del governo non comporti "nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica''.

"RICCOMETRO''
Per quanto riguarda la verifica della condizione economica di chi richiede l'accesso ai servizi o stabilire il costo a carico degli utenti, viene applicata la normativa già in vigore che ha istituito dal 1998 l'"Indicatore della situazione economica'', ossia il famigerato "riccometro'' che restringe a una irrisoria minoranza il diritto all'accesso gratuito o agevolato a tali servizi. Tale normativa in particolare prevede criteri di valutazione che non tengono conto solo del reddito e della condizione del richiedente, ma li estende all'intero nucleo familiare e, come già accade in diversi Comuni che già l'hanno applicata, addirittura al di fuori del nucleo anagrafico includendovi anche genitori, figli e figlie, nuore e generi non residenti. Una norma che sostituisce la "solidarietà sociale'' garantita dallo Stato, con una coercitiva "solidarietà familiare''.