Dall'Unità d'Italia ad oggi
STORIA DELL'ASSISTENZA IN ITALIA

Intendiamo qui occuparci sinteticamente della storia dell'assistenza in Italia dall'Unità d'Italia ad oggi, soprattutto dal punto di vista legislativo. Ci limiteremo, per brevità e chiarezza, all'assistenza sociale vera e propria, escludendo quella previdenziale e quella sanitaria che pur spesso si intersecano o sovrappongono e rappresentano i tre principali filoni che compongono il sistema di sicurezza sociale.
Il sistema assistenziale inizia a strutturarsi in Europa nei primi anni del 1600 sotto la spinta e l'egemonia della Chiesa. Furono fondate congregazioni che si dedicavano alla raccolta di fondi per i poveri e istituzioni di ricovero per poveri in condizioni particolari come orfani, ammalati, ecc.
Nel corso del 1800 si affianca all'obiettivo assistenziale anche quello educativo che fa aumentare i lasciti e le iniziative a favore delle Opere pie le quali erogavano servizi e contributi a titolo "caritativo''. L'assistenza viene ancora concepita come un fatto individuale di carattere religioso e paternalistico svolto dalla Chiesa e da borghesi e aristocratici filantropi per lo più spinti dalla volontà di "redimere'' e "rieducare'' gli immorali e gli emarginati o quantomeno per controllarli e segregarli in strutture dove non disturbassero l'ordine sociale e pubblico costituito.

DALL'UNITA' D'ITALIA AL FASCISMO
Anche in Italia, prima dell'unificazione, la tradizione assistenziale risponde a tali criteri: 1. L'assistenza è concepita come beneficenza di tipo privatistico e con motivazioni etico-religiose volta più a "redimere'' che ad alleviare i bisogni dei poveri; 2. La Chiesa è l'unica depositaria e custode dell'attività di beneficenza, della sua organizzazione e dell'amministrazione dell'ingente patrimonio destinato ai poveri; 3. La stretta fusione tra funzionari di culto e funzionari di assistenza porta a identificare il "patrimonio dei poveri'' con il patrimonio della Chiesa e rende impossibile una reale distinzione nella concezione e nella realizzazione di queste due diverse attività; 4. Le Opere pie dispongono di una indipendenza assoluta dal potere civile, che rimane nella maggioranza dei casi completamente estraneo a questo campo di intervento.
Con l'unificazione dell'Italia e la nascita del nuovo Stato liberale, come conseguenza dell'avvento al potere della borghesia, si rompe questo secolare equilibrio. Due sono essenzialmente i fattori che determinano tale rottura: 1. Lo sviluppo del movimento operaio che impone un allargamento e un rinnovamento dei criteri assistenziali; 2. La necessità per il nuovo Stato liberale italiano, dopo la presa di Roma e la rottura dei rapporti con lo Stato pontificio, di rimuovere la roccaforte del clero rappresentata dalle Opere pie.
L'avvento della borghesia al potere e il passaggio dal sistema feudale a quello capitalistico producono profondi e sconvolgenti mutamenti economici e sociali. Tutte le vecchie condizioni di vita feudali, patriarcali vengono progressivamente distrutti. L'industrializzazione e l'urbanizzazione disgregano la grande famiglia patriarcale che rappresentava l'unico sistema di sicurezza sociale, accrescono i bisogni delle singole famiglie e dei singoli suoi membri, peggiorano drasticamente le condizioni abitative e sanitarie dei lavoratori e delle loro famiglie. La disoccupazione o la malattia del capofamiglia, unico produttore di reddito, porta repentinamente l'intera famiglia alla fame, costringe le donne a lavorare fuori casa con ciò che ne consegue per quanto riguarda la crescita e la cura dell'infanzia. Il movimento operaio comincia ad organizzarsi, nascono le prime società di mutuo soccorso e casse come forma di autorganizzazione in caso di perdita del lavoro per malattia o disoccupazione.
D'altra parte la chiesa non si rassegna alla perdita del proprio potere temporale e del suo "primato civile'' e usa tutto il suo capillare e imponente apparato di culto e beneficenza per condizionare il nuovo Stato liberale.
Lo Stato italiano si trova così a dover affrontare direttamente il tema dell'assistenza e il suo rapporto con essa. Inizia con un'inchiesta su tutte le Opere pie esistenti rilevandone la consistenza patrimoniale, il numero di assistiti e la consistenza delle prestazioni effettuate sia in denaro che in natura.
Secondo i lavori della Commissione reale d'indagine, le Opere pie presenti nel regno italiano fra il 1880 e il 1888 sono 21.819. Ne fanno parte ben 2.770 istituzioni dedicate al culto o al culto e la beneficenza, 1.923 dedicate ai sussidi dotali, 257 conservatori, ritiri o convitti volti al recupero morale delle donne "cadute'', 823 ospedali, 13 istituti che si occupano di sordomuti e 2 che si dedicano all'assistenza ai ciechi. E poi scuole, asili infantili, ospizi di maternità, manicomi, case di rieducazione per minorenni "traviati'', nonché un numero piuttosto rilevante di Monti (Monte di Pietà, Monte dei Paschi, Monte di maritaggio, ecc) che si considererebbero oggi dei veri e propri istituti di credito.
Dall'inchiesta emerge così una quantità davvero ingente di risorse private, immobili e mobili, frutto di donazioni, lasciti ereditari, doti per monacazione, ecc., per lo più gestite dalla chiesa. Le prime e principali tappe della legislazione statale in materia di assistenza sono le leggi del 1862, del 1890 (Legge Crispi) e del 1904 (legge Giolitti).
La legge del 1862, nata in un clima di accesa intonazione liberale, mira a dare la massima autonomia alle Opere pie; le sgancia dal potere legislativo e da quello ecclesiastico, ponendole così in una situazione ambigua e in uno stato giuridico fra il pubblico ed il privato.

LA LEGGE CRISPI DEL 1890
Dopo un trentennio circa di studi o modificazioni parziali con la legge Crispi, la n. 6972 del 17 luglio 1890 su "Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza'', introduce importanti innovazioni. Esse consistono nella definizione precisa dell'intervento dello Stato nel merito stesso dell'attività assistenziale e non più nel solo controllo della parte patrimoniale ed amministrativa, in più per la prima volta la beneficenza viene concepita come una risposta ai bisogni di carattere concreto e non come uno strumento per la redenzione dei poveri. La legge trasforma le Opere pie (Enti che hanno finalità del tutto diverse: ospedali, asili, istituti, orfanotrofi, ecc.) in Istituti di beneficenza (Ipab) regolate nella formazione, nel funzionamento e nell'estinzione dalla legge medesima. Istituisce inoltre gli Enti di Carità e Assisistenza (ECA). Essa prevede, quali Istituti di beneficenza, le opere Pie ed ogni altro Ente che abbia il fine di assistere i poveri in stato di indigenza, di malessere e di infermità e di procurare l'educazione e l'istruzione ai bisognosi. Il carattere pubblico delle Ipab viene chiaramente ribadito dall'articolo 78: "Le istituzioni esercitano la beneficenza verso coloro che vi hanno titolo, senza distinzione di culto religioso o di opinione pubblica''. In conseguenza di ciò più della metà delle Opere pie viene soppressa e il loro patrimonio devoluto ad altre forme di assistenza, in particolare verso quelle relative all'infanzia abbandonata, all'istruzione ed alla preparazione professionale. Il patrimonio delle Opere pie è sottratto alla chiesa e ne viene riordinata l'amministrazione in modo da assicurarne la gestione "laica''. Ovviamente la chiesa cattolica reagisce violentemente a questo tipo di legge ed ha sempre operato e fino a oggi per riconquistare nel nostro Paese una piena autonomia dallo Stato italiano e il suo primato di intervento nel campo dell'assistenza come in altri settori sociali.
Soprattutto grazie alla spinta delle prime lotte operaie organizzate, nel 1904 viene approvata la legge Giolitti che si presenta come una integrazione ed un'ulteriore sistemazione della precedente legge Crispi che pur introducendo controlli pubblici aveva lasciato inalterato il "carattere privato'' della gestione degli istituti di beneficenza e soprattutto non aveva predisposto alcuno strumento diretto di intervento dello Stato nel campo dell'assistenza. La legge Giolitti in realtà, con l'istituzione di una commissione provinciale che ha il compito di coordinare l'assistenza nella provincia e di un Consiglio superiore che deve studiare i problemi nazionali, è molto di più di una semplice integrazione, ed esprime una precisa consapevolezza tecnica completamente assente nelle leggi precedenti. I concetti che vengono introdotti sono: 1. La beneficenza viene vista finalmente come un aspetto della complessa situazione sociale; 2. Il diritto del povero ad essere assistito è indiscutibile, e lo è pertanto il dovere della società a sopperirlo; 3. L'assistenza privata non deve essere solo controllata, ma soprattutto coordinata ed integrata dall'assistenza pubblica.

SOTTO IL FASCISMO
La legge Giolitti, a differenza di quelle precedenti, viene abrogata nel 1923 dal governo fascista, perché il suo ordinamento su base provinciale contrastava con il forte accentramento amministrativo realizzato in quell'epoca anche in questo settore. Rimarrà così operante la Legge Crispi che sopravviverà non solo al fascismo, ma fino ai giorni nostri come l'unica legge organica sull'assistenza dall'unità d'Italia ad oggi.
Il fascismo apporterà modifiche legislative soprattutto nel campo dell'assicurazione previdenziale come espressione della concezione corporativa del regime. Tutta la politica sociale fascista è ispirata al familismo volto a scaricare sulle famiglie e sulle donne il peso dell'assistenza, ma anche a fare della famiglia fascista e cattolica un puntello del regime. In quest'ambito si registrano un complesso di serie di misure di incentivi alle famiglie numerose, alla costituzione di nuovi nuclei familiari, alla maternità. Il più grosso intervento nel campo dell'assistenza all'infanzia e alla maternità è l'istituzione nel 1925 dell'Opera nazionale per la maternità e l'infanzia (ONMI), un ente fascista fortemente centralizzato, una sorta di grande ministero che agisce in parallelo con le altre istituzioni esistenti, e che, pur nato per coordinare tutte le varie e numerosissime iniziative che già esistevano nel paese a favore dell'infanzia, in realtà diviene uno strumento della politica demografica e razziale del regime. L'ONMI, che nel secondo dopoguerra diverrà un carrozzone clientelare in mano democristiana, verrà soppressa solo nel dicembre 1975.

LA COSTITUZIONE DEL '48
Abbattuto il fascismo, è la Costituzione democratica borghese a stabilire le basi della nuova concezione dell'assistenza sociale non più come un intervento pubblico eventuale e occasionale e di tipo "caritativo'' a favore di chi viene a trovarsi in stato di bisogno e con la principale finalità di conservare l'"ordine pubblico'', ma come un vero e proprio diritto sociale di tipo universale.
I principi generali e fondanti sono stabiliti dagli articoli 2 e 3 là dove recitano: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale'' (art. 2) e "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese'' (art. 3).
Dell'assistenza vera e propria la Costituzione si occupa in due distinti articoli il 38 e il 117. L'art. 38 tratteggia il sistema previdenziale e assistenziale ed insieme all'art. 32 (sul diritto alla tutela della salute) garantiscono costituzionalmente un sistema di sicurezza sociale.
L'art. 38 così recita: "Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al manitenimento e all'assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
L'assistenza privata è libera''.
In questo articolo per la prima volta si afferma il diritto inalienabile all'assistenza sociale. Al quarto comma si stabilisce inoltre che spetta allo Stato provvedere alla realizzazione della tutela dei soggetti protetti e, in ultima analisi, alla predisposizione e all'organizzazione di un compiuto sistema di sicurezza sociale. Inutile dire che entrambi questi principi furono fortemente contrastati in sede di Costituente dai sostenitori della tesi che lo Stato non debba accollarsi il gravissimo onere dell'assistenza e della previdenza sociale. Lo scoglio fu superato solo perché si sostenne che tale formulazione non precludeva un futuro sviluppo legislativo nel senso di una previdenza e di un'assistenza di tipo privatistico. Tant'è vero che all'ultimo comma si stabilisce che "L'assistenza privata è libera'' , e con assistenza si comprende anche il concetto di previdenza.
è utile qui ricordare che la Costituzione democratica borghese del '48 è pur sempre una Costituzione borghese, frutto del compromesso fra borghesia e proletariato, a sfavore di quest'ultimo, stretto fra il maggiore partito della classe dominante borghese di allora, il Partito popolare, e il maggiore partito di origine operaia, il PCI revisionista. Cosicché vi si alternano formulazioni più avanzate e progressiste, per lo più formali e rimaste inattuate, a principi e formulazioni che esprimono una concezione liberale, borghese e antioperaia dello Stato e della vita economica, politica e sociale. Tant'è vero che già all'articolo 3 la Costituzione non ha voluto affermare il diritto all'eguaglianza sociale sostituendola con un'ambigua "pari dignità sociale''.
L'art. 117 della Costituzione si occupa di assistenza nell'ambito delle funzioni attribuite alle Regioni. Esso così recita: "La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l'interesse nazionale e con quello di altre Regioni: ... Beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed ospedaliera; Istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica''.
Questo articolo, rimasto completamente inattuato fino all'istituzione delle amministrazioni regionali nel 1970, pur demandando alle Regioni il potere di legiferare in materia di assistenza, ne limita comunque la potestà vincolandone e subordinandone l'esercizio all'"interesse nazionale'' e a "quello di altre Regioni''.

DAL SECONDO DOPOGUERRA AD OGGI
Nei primi decenni della Repubblica l'assistenza rimane sostanzialmente appannaggio di enti e istituzioni pubbliche e private (per lo più sovvenzionate dallo Stato). Dei veri e propri carrozzoni in cui proliferano clientelismo e corruzione a vantaggio dei partiti governativi, DC in testa, che li usano per soddisfare le proprie lobby politiche, economiche e finanziarie. Basti ricordare che Tangentopoli prende avvio nel 1992 proprio dall'arresto di Mario Chiesa, presidente dell'Ipab Pio Albergo Trivulzio di Milano.
Fino al 1977, in sostanza sul piano legislativo non si muove nulla di significativo tant'è forte l'interesse dei partiti governativi e della stessa chiesa a lasciare le cose come stanno. Solo l'esplosione dei movimenti giovanile e operaio del Sessantotto e del Sessantanove, lo sviluppo del movimento delle donne dei primi anni '70 impongono una serie di conquiste sociali quali la legge sulle lavoratrici-madri, l'istituzione degli asili-nido pubblici, dei consultori, ecc. che impongono una revisione normativa della materia assistenziale.
Col decreto n. 616/1977 la beneficenza viene ridefinita come "tutte le attività che attengono, nel quadro della sicurezza sociale, alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti o a pagamento, o di prestazioni economiche, sia in denaro che in natura, a favore dei singoli, o di gruppi, qualunque sia il titolo in base al quale sono individuati i destinatari, anche quando si tratti di forme di assistenza a categorie determinate, escluse soltanto le funzioni relative alle prestazioni economiche di natura previdenziale''. Questa pur generica definizione stabilisce sul piano formale la distinzione fra prestazioni previdenziali e prestazioni assistenziali (a loro volta distinte in assistenza sanitaria e assistenza sociale). Le prime restano nella responsabilità direttiva e gestionale di appositi enti nazionali, le seconde saranno gestite ed erogate dagli enti locali e da loro strutture. Col decreto n. 616 tutte le funzioni amministrative relative alla predisposizione e all'erogazione dei servizi relativi al settore dell'assistenza, sono attribuite direttamente ai comuni creando un problema di interpretazione dei reali poteri delle Regioni in materia. Anche le funzioni, il personale e i beni delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (Ipab) operanti nell'ambito di una singola regione vengono trasferite ai Comuni ma questa parte dell'art. 25 del decreto n. 616 viene dichiarata successivamente (nel 1981) incostituzionale e così le Ipab cosiddette infraregionali, che rappresentano la grande maggioranza tra le istituzioni assistenziali, sono ritornate nella situazione giuridica preesistente, restando ancora disciplinate, nelle linee fondamentali, dalla legge Crispi del 1890.
Nel 1988, la Corte costituzionale dichiara incostituzionale l'articolo 1 della legge Crispi che dichiarava illegali le fondazioni e associazioni dotate di personalità giuridica privata. Di conseguenza molti patrimoni (si parla di circa 30-40 mila miliardi) sono stati dati a titolo gratuito ai privati che in qualche modo si sono dichiarati i rappresentanti dell'ente, magari costituito alcune centinaia di anni fa.
è a partire dai primi anni '80 che si fa pressante la necessità di una nuova legge-quadro sull'assistenza e risalgono a quel tempo le prime proposte di legge. La seconda repubblica incalza e c'è bisogno di rivedere, per affossarlo, tutto lo "Stato sociale'' e liberare così risorse da destinare al mercato capitalistico italiano impegnato nella competizione mondiale. Già Berlusconi nel suo primo governo fa della "riforma'' dello "Stato sociale'' (pensioni, sanità, assistenza) una sua bandiera, incontrando la giusta reazione della classe operaia e delle masse. Ma con il primo governo di "centro sinistra'', la situazione muta e questa volta è proprio il governo Prodi e in particolare la ministra diessina alla solidarietà sociale Livia Turco, a farsi carico di spalancare la porta a questo obiettivo storico dei padroni, della destra, del papa e del Vaticano. Il governo Prodi vara nel 1997 un apposito disegno di legge che approda in parlamento insieme ad altre 16 proposte sullo stesso tema. La Commissione parlamentare presieduta dalla diessina Signorino provvede a stilare un documento unico, che porta il nome di Turco-Signorino, e che sostanzialmente finirà col costituire la base della "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali'' approvata definitivamente il 18 ottobre 2000 dal Senato. Una legge che sopprime il diritto universale ai servizi sociali e all'assistenza così com'era stato sancito dalla Costituzione e cancella lo "Stato sociale'' privatizzando e scaricando sulla famiglia e sulla donna i servizi sociali.
In verità un vero "Stato sociale'' in Italia non è mai esistito. Lo prova il fatto che l'assistenza sociale pubblica, fatti salvi certi servizi sociali conquistati a livello nazionale o locale dalla lotta delle masse, si è retta sostanzialmente sulle attività delle attuali 4.200 Ipab: ricovero di minori, handicappati e anziani, gestione di scuole materne, di mense ed altre iniziative a favore dei poveri. L'Italia, fra l'altro, può vantare di essere agli ultimi posti in Europa per la spesa sociale con il suo 24% sul prodotto interno lordo (Pil) di cui però solo il 5,7% destinato alla spesa assistenziale vera e propria.
Il risultato è che in Italia secondo gli ultimi dati Istat ci sono due milioni e 600 mila famiglie che vivono sotto la soglia della povertà (per un totale di sette milioni e mezzo di persone, soprattutto al Sud), 137 mila tossicodipendenti, 500 mila bambini maltrattati, sfruttati, abbandonati, 60 mila persone senza fissa dimora, migliaia e migliaia di famiglie sotto sfratto. Senza contare i sacrifici, le privazioni e gli ostacoli che incontrano ogni giorno i circa tre milioni di disabili e portatori di handicap (di cui un milione ha meno di 65 anni) e le loro famiglie. E ancora oggi ci sono 9 milioni di donne, buona parte delle quali ha abbandonato il lavoro dopo il primo figlio, costrette alla casalinghità perché non sanno a chi delegare la cura dei figli, dei genitori anziani, di cari malati e non autosufficienti o non possono permettersi le già esose rette pubbliche e private dei servizi sociali.
Una condizione che nei fatti, al di là della demagogia e delle belle promesse, la legge-quadro aggraverà ulteriormente.