Con la copertura di Napolitano, nuovo Vittorio Emanuele III
Berlusconi lanciato sul presidenzialismo

Con la cena di Arcore del 6 aprile Berlusconi e Bossi hanno messo all'incasso il successo elettorale accordandosi sulle "grandi riforme" a cui dedicare la restante parte della legislatura per arrivare alla terza repubblica capitalista, presidenzialista, federalista, razzista e interventista.
Il caporione leghista vuole il federalismo fiscale per completare il suo disegno separatista, e in cambio è pronto ad aiutare il neoduce a ottenere subito la legge contro le intercettazioni e la controriforma della giustizia, con la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri e il controllo di questi ultimi da parte del governo; ed entro tre anni la controriforma presidenzialista della Costituzione, con Berlusconi al Quirinale e possibilmente un uomo della Lega a Palazzo Chigi. Maroni ha anche anticipato quale dovrebbe essere la forma di questa repubblica presidenziale: "semipresidenzialismo alla francese", da accompagnare con il ridimensionamento del ruolo del parlamento, attraverso il taglio del numero dei parlamentari e il superamento del bicameralismo perfetto con la creazione del Senato federale.
La Lega ha rivendicato anzi la cabina di regia al tavolo delle "riforme", forte del risultato elettorale e dei buoni rapporti con Napolitano e con il PD, ma il neoduce ha subito messo in chiaro che il ruolo di regista dell'operazione spetta a lui e lui soltanto. E ne ha dato dimostrazione bacchettando il ministro Calderoli quando è andato di sua iniziativa a presentare la bozza di "riforma" al capo dello Stato. Anche il caporione fascista Fini, che rivendicava per sé un ruolo di mediazione per quanto riguarda il presidenzialismo (suo vecchio cavallo di battaglia), forte anche lui dei buoni rapporti con il Colle e con Casini e il PD, è stato platealmente snobbato da Berlusconi, che ha rimandato alle calende greche il vertice con lui che inizialmente era programmato subito dopo quello con Bossi.
Berlusconi non vuole insomma delegare a nessuno la regia del tavolo delle "riforme" istituzionali e costituzionali cucite addosso a lui e con le quali mira a diventare "presidente eletto dal popolo" di una repubblica parlamentare, così da assicurarsi una volta per tutte quei pieni poteri mussoliniani che brama da quando iniziò la sua nuova marcia su Roma nel 1994 e che ormai vede a portata di mano. Il neoduce tira dritto per la sua strada, tanto che non ha fatto una piega nemmeno quando, alla sua precisazione che il presidenzialismo alla francese si può fare anche senza un sistema elettorale maggioritario a doppio turno, Fini è sbottato che allora non si può parlare di modello francese ma solo di elezione diretta del capo dello Stato. E qualcuno dei suoi uomini ha rincarato la dose parlando di "repubblica sudamericana".
Ma il neoduce ha tenuto duro ribadendo che vuole lasciare l'attuale legge "porcata" così com'è e che l'elezione del presidente e del parlamento deve avvenire contemporaneamente e in un turno unico: ed è logico, visto che così non sarebbe costretto a subire condizionamenti da parte di altre forze al ballottaggio e che oltre a essere eletto al Quirinale sarebbe sempre lui a decidere la composizione del parlamento e del governo. Tutto il potere sarebbe così nelle sue mani, perché oltre al potere esecutivo controllerebbe direttamente anche il parlamento e la magistratura.

Berlusconi "indebolito"?
Ciò dimostra quanto inconsistenti e illusorie siano certe interpretazioni della "sinistra" borghese secondo cui Berlusconi sarebbe uscito indebolito dalle elezioni regionali e che sarebbe ostaggio della Lega. La realtà è che ancora una volta il neoduce è riuscito a ribaltare una situazione per lui sfavorevole in una vittoria personale che eclissa la pur notevole frana elettorale subita dal suo partito, e prova ne è che è ancora lui a dettare a tutti l'agenda dei temi che dovranno tenere banco per i prossimi tre anni e anche oltre.
Gli applausi a scena aperta che gli ha tributato l'assemblea della Confindustria a Parma quando lui ha arringato la sala con i soliti attacchi viscerali ai magistrati, alla Corte costituzionale, alle intercettazioni, ad Annozero, ecc., rivendicando a gran voce il presidenzialismo per mettere fine ai "mille lacci e lacciuoli" burocratici e costituzionali che non gli consentirebbero di governare, stanno a dimostrare che i "poteri forti" capitalistici sono ancora tutt'uno con lui, per non parlare della chiesa, che non gli è mai stata così vicina dai tempi del caso Boffo. Fini non va al di là di qualche punzecchiatura ogni tanto, Montezemolo si è ritirato per ora in disparte perché non è aria e Casini si dichiara pronto a sedere al suo tavolo delle "riforme" e sta valutando l'offerta di rientrare in qualche forma nel Pdl: dove sarebbe la debolezza del neoduce?
Anche Napolitano è dalla sua parte e copre il suo disegno presidenzialista. Non bisogna farsi fuorviare da presunti "sgarbi" e temporanei "raffreddamenti" tra i due, come quelli che certi esponenti della "sinistra" borghese come Scalfari cercano di gonfiare nell'illusione di affidarsi all'inquilino del Quirinale per fare argine all'arroganza del premier. Sono i fatti che contano, e i fatti dicono che il neoduce ha interpretato giustamente la firma di Napolitano al "legittimo impedimento" come un chiaro via libera per lasciargli fare del resto della legislatura un cantiere per la controriforma presidenzialista e federalista della Costituzione. Non a caso gli ha subito telefonato ringraziandolo per la firma e lo ha pubblicamente lodato per il suo "equilibrio" e la sua "correttezza", compiacendosi del "cambiamento di clima" instauratosi tra il Quirinale e Palazzo Chigi. Lo ha anche rassicurato, indossando di nuovo la maschera dello "statista" che usò per pochi giorni ad inizio legislatura, che egli farà di tutto per coinvolgere l'"opposizione" al tavolo delle "riforme", anche se non ha nascosto che comunque andrà avanti anche senza di essa affrontando il referendum confermativo che è sicuro di vincere.

Dietro il pifferaio magico
E l'"opposizione" parlamentare? Se l'Italia dei valori tiene per ora una posizione di rifiuto, ribadendo con Massimo Donadi che "finché c'è Berlusconi il presidenzialismo non è nemmeno ipotizzabile", tutt'altra musica si sente in casa PD. Ancor prima della cena di Arcore Bersani si dichiarava pronto a discutere "su tutti i temi", a patto che "il confronto avvenga in parlamento" e che ci sia "una reale intenzione di modernizzare il paese nell'interesse degli italiani". Intanto per il leader del PD si potrebbe cominciare da Senato federale e riduzione dei parlamentari. Dopo il vertice Berlusconi-Bossi è venuta allo scoperto la corrente veltroniana, evidentemente nostalgica del tentativo di "dialogo" avviato nel 2008 con Berlusconi che anticipò la caduta del governo Prodi, chiedendo al segretario di aprire alla proposta di semipresidenzialismo alla francese di Maroni, "purché accompagnata da una nuova legge elettorale uninominale come quella in vigore in Francia".
A sentir parlare di presidenzialismo e uninominale si è mosso subito anche D'Alema, pure lui in preda alla nostalgia, quella per la Bicamerale golpista, mettendo subito all'ordine del giorno della sua fondazione "Italianieuropei" una riunione trasversale di tutte le fondazioni sul tema delle "riforme istituzionali" e della legge elettorale: "Per ora c'è solo chiacchericcio, se ci sono proposte serie siamo pronti a discutere", ha dichiarato il capofila dei rinnegati. Nemmeno dopo il comizio mussoliniano di Berlusconi all'assemblea confindustriale di Parma il PD ha smesso di offrire la sua disponibilità a sedere al suo tavolo e ad esaminare le sue "proposte", come se non avesse ancora chiaro a cosa vuole arrivare il neoduce: "Il PD è pronto a confrontarsi a partire dai punti condivisi: riduzione dei parlamentari, Senato federale, rafforzamento dei poteri del premier e del parlamento", dichiarava imperturbabile la portavoce Marina Sereni.
Ed è proprio quello su cui sta puntando Napolitano, conscio che sul presidenzialismo le posizioni sono ancora troppo distanti, e che è meglio affrontare prima i punti su cui un accordo tra la destra e la "sinistra" borghesi è più raggiungibile. "Discutiamo quali siano le riforme effettivamente necessarie. E poi realizziamole", ha concionato il capo dello Stato in visita a Verona, indicandone espressamente due: il federalismo e la giustizia. Guarda caso proprio quelle a cui vogliono mettere mano da subito il caporione leghista Bossi e il nuovo Mussolini. "Le condizioni sono obiettivamente maturate nel paese. Non sprechiamo l'occasione. Non facciamo che questa sia una legislatura a vuoto per le riforme", ha aggiunto il nuovo Vittorio Emanuele III circondato dai compiaciuti caporioni veneti della Lega che gli hanno riservato accoglienze trionfali.

14 aprile 2010