Fausto Bertinotti nuovo guardiano della Camera
Il capofila dei trotzkisti esalta le istituzioni borghesi e anticomuniste e la "coesione sociale"
Il 29 aprile, con 337 voti, Fausto Bertinotti è stato eletto presidente della Camera della XV legislatura, alla quarta votazione quando non è stata più necessaria la maggioranza di due terzi dell'assemblea ma solo la maggioranza semplice. Il leader liberal-trotzkista e gandhiano del PRC corona dunque il sogno ormai accarezzato da mesi e si siede sulla terza poltrona più importante dello Stato borghese, la poltrona che il tecnocrate democristiano Prodi gli aveva promesso come premio del suo giuramento di fedeltà al governo e al programma dell'Unione della "sinistra" borghese da lui guidata.
Un premio tanto più agognato e gradito quanto più ha rischiato di essergli scippato dal rinnegato D'Alema, che sul più bello si era messo a reclamare per sé quella poltrona, forse giudicando più prudente e meno aleatorio sfruttare la presidenza della Camera per scalare il Quirinale, piuttosto che andare allo sbaraglio candidandosi direttamente al Colle senza un accordo preventivo con la Casa del fascio. Ma alla fine D'Alema ha dovuto abbozzare a denti stretti, perché Prodi ha un assoluto bisogno di un Bertinotti che gli copra il fianco sinistro e assicuri l'appoggio - o quantomeno la non-belligeranza - della "sinistra antagonista" al governo che andrà a formare, specie quando comincerà a mostrare il suo vero volto capitalista, liberista, antipopolare e imperialista.
Uno scontro, quello tra il narcisista trotzkista del PRC e il capofila dei rinnegati della Quercia per lo scranno più alto di Montecitorio, che aveva costernato e disgustato molti elettori di sinistra, e che ha lasciato squallidi strascichi anche nelle quattro votazioni della Camera, che hanno visto scemare i voti a Bertinotti e salire quelli dati clandestinamente a D'Alema, tanto che questi ultimi sono arrivati addirittura a 100 nell'ultimo scrutinio. Voti che Bertinotti e l'Unione si sono affrettati ad attribuire al "centro-destra", dati cioè allo scopo di seminare zizzania nel campo avverso, senza però riuscire a fugare del tutto il dubbio che alcuni di essi provenissero da deputati dalemiani in segno di ritorsione per lo "sgarro" subìto dal loro capobastone.

Sulle orme dei suoi predecessori rinnegati, revisionisti e trotzkisti
Con questa elezione Bertinotti diventa dunque il nuovo cane da guardia della Camera, seguendo le orme dei rinnegati Violante e Napolitano, del trotzkista Ingrao e della revisionista Nilde Iotti che l'hanno preceduto nelle passate legislature. Un ruolo che il narcisista trotzkista intende ricoprire con compunzione e col massimo zelo, come ha cominciato a fare già da presidente in pectore, prima ancora di intascare ufficialmente il premio; come quando ha messo imperiosamente la sordina al ritiro dall'Iraq di fronte al "lutto" per la nuova "strage di Nassiriya" e ha condannato i fischi in piazza alla Moratti, e come nell'intervista alla dalemiana Lucia Annunziata, in cui aveva dichiarato: "il mio compito, in caso di elezione, non sarebbe quello di rafforzare la maggioranza, ma di garantire un funzionamento libero e democratico delle istituzioni".
Nessuna meraviglia, allora, se nel recarsi a Montecitorio, ancora prima dell'inizio delle votazioni, abbia ricevuto i complimenti e gli auguri anche da esponenti della Casa del fascio, come l'UDC Tabacci, il leghista Maroni (a nome di Bossi) e il piduista Cicchitto. Complimenti a cui ha risposto compiaciuto con una massima di San Bernardo: "Siamo nani seduti sulle spalle dei giganti". Anche subito dopo la sua elezione, appena si è presentato in aula per il discorso, la Casa del fascio lo ha applaudito convintamente, con Fini e Casini in testa, a cui si è unito Berlusconi che in quel momento stesso entrava pure lui in aula. Dopo il discorso di insediamento il neoduce è andato a complimentarsi personalmente con Bertinotti partecipando perfino al brindisi in suo onore.
Il discorso del nuovo guardiano della Camera è stato un capolavoro di demagogia nella forma e di opportunismo nella sostanza. Infatti ha dedicato la vittoria "alle operaie e agli operai", e ha infarcito qua e là il suo intervento a braccio di riferimenti altisonanti alla Resistenza, ai lavoratori, ai giovani, a Don Milani, all'azionista liberale Calamandrei, ecc. Ma andando al sodo i concetti intorno ai quali non ha fatto altro che girare e rigirare sono stati due, e vanno in direzione esattamente opposta: uno è il bisogno di "coesione sociale" che scongiuri "il rischio di un distacco del paese reale dalle istituzioni, il rischio di una separazione della quotidianità della vita delle donne e degli uomini dalla politica", per cui Bertinotti promette di svolgere fino in fondo il suo ruolo istituzionale affinché il popolo possa "investire tutta la sua fiducia sulle istituzioni democratiche" . Cioè accreditare e consolidare le istituzioni dello Stato borghese capitalista. L'altro è bandire dalla politica il concetto di "amico-nemico": "Abbiamo bisogno, insieme alle differenze, e persino ai contrasti, di costruire un concorso per realizzare un'Assemblea, questa, che parli a tutto il paese il linguaggio della convivenza, della convivenza anche oltre la politica", ha detto infatti con una chiara offerta di "dialogo" e di "collaborazione" istituzionale alla Casa del fascio.
E quando poi, avviandosi a concludere, ha pianto "le vite dei soldati uccisi a Nassiriya", esprimendo genericamente "dolore per ogni vittima della guerra e del terrorismo" (guardandosi bene però dal denunciare chi questa guerra di aggressione imperialista l'ha voluta, calpestando l'art. 11 della Costituzione, e di chiederne la fine e il rientro immediato delle nostre truppe), ha ricevuto una vera ovazione dell'intera assemblea in piedi. Ovazione che si è ripetuta anche alla fine del suo discorso, con tanto di abbraccio da parte del presidente uscente Casini, che si è calorosamente complimentato con lui, anche in risposta alle sviolinate di ringraziamento che il neo eletto gli aveva rivolto in apertura di intervento.

Tentativi di recupero d'immagine
Per tutto ciò la sua elezione ha avuto una così marcata impronta "bipartisan" e istituzionale da scandalizzare perfino una trotzkista di lungo corso come Rossana Rossanda, che pure aveva firmato un appello a votare Rifondazione, e che su "il manifesto" del 25 aprile così esprime la sua delusione: "Non ho votato Rifondazione perché Fausto Bertinotti diventasse presidente della Camera. È un suo diritto, l'elettore delega, ma può sperare. E io non lo speravo nei panni di speaker della discussione parlamentare, ché altro non potrà fare: anche le sortite pubbliche dovranno essere contenute. Lo speravo come sollecitatore continuo del governo e nel governo di una scelta, per quanto mediata, esplicitamente di sinistra...".
Ed è in risposta a questo genere di mugugni trotzkisti, che nascondono ben più seri interrogativi e dissensi nella base di Rifondazione e dei movimenti antagonisti, che "Liberazione" si sta affannando in questi giorni a tentare un'operazione di riaccreditamento della presidenza della Camera a Bertinotti come strumento per condizionare "a sinistra" le istituzioni e il governo del paese.
Così fa la trotzkista luxemburghiana Rina Gagliardi, che su "Liberazione" del 26 aprile prova a convincere Rossanda (ma soprattutto gli elettori di Rifondazione che si sentono presi in giro), che l'elezione di Bertinotti implica "una tendenza tanto virtuosa quanto necessaria: il riequilibrio dei poteri dello Stato, ovvero quel rilancio della centralità del parlamento e delle assemblee elettive di cui tanto abbiamo parlato e che, forse, ci siamo persi per strada".
E così fa anche il direttore Piero Sansonetti, su "Liberazione" del 30 aprile, secondo il quale l'elezione di Bertinotti "segna in modo anche simbolico lo spostamento a sinistra dell'Unione". E perché, di grazia? Sansonetti si guarda bene dal spiegarlo, e lo dà per acquisito. Perché sa benissimo che è vero esattamente il contrario, e cioè che è il cicisbeo Fausto Bertinotti che si è venduto anima e corpo all'Unione del democristiano Prodi in cambio dell'agognata massima poltrona di Montecitorio.

3 maggio 2006