Con irrisorie "modifiche", dopo i rilievi di incostituzionalità del presidente della Repubblica
Ciampi firma il golpe istituzionale sulla controriforma tv
Monopolio delle comunicazioni in mano a Berlusconi e alla casa del fascio
Il 29 aprile scorso, con 142 voti a favore, 91 contrari e un astenuto, il Senato ha approvato definitivamente la legge Gasparri sul riordinamento del sistema radiotelevisivo, la legge cucita su misura per il neoduce Berlusconi che blinda e rafforza il suo già smisurato impero mediatico.
Il nuovo passaggio parlamentare si era reso necessario dopo il rinvio alle Camere del provvedimento approvato dal parlamento il 2 dicembre scorso, che Ciampi aveva disposto il 15 dicembre con alcuni rilievi di incostituzionalità: "Un torto nei confronti del Paese", lo ha definito beffardamente il leghista Calderoli, ora ministro delle Riforme al posto di Bossi, a cui "oggi il parlamento ha rimediato".
Il ministro fascista di AN delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, che ha firmato il provvedimento dettatogli direttamente dallo studio Previti e dagli esperti della Fininvest, nell'esternare tutta la sua esultanza per la "felice" conclusione della lunga vicenda, si è augurato "che il voto odierno sia l'atto definitivo", vale a dire che la Corte costituzionale non lo respinga: "Noi siamo sicuri di aver rispettato i dettami costituzionali e di aver risposto alle osservazioni del presidente della Repubblica", ha aggiunto infatti il ministro.
In realtà le modifiche apportate dalla casa del fascio al testo che Ciampi rinviò alle Camere sono del tutto marginali e non cambiano di una virgola né lo spirito (neofascista) né la lettera (sfacciatamente pro-Berlusconi) della legge. E comunque stavolta Ciampi l'ha controfirmata dopo pochi giorni, non si saprà mai se più volente o nolente, visto che la procedura non prevede la possibilità di un secondo rinvio.
Quali sono, dunque, queste modifiche che tramuterebbero miracolosamente il rospo anticostituzionale partorito il 2 dicembre nel "principe" di specchiata trasparenza e pluralismo che oggi Gasparri va decantando? La principale riguarda la riduzione del Sic (Sistema integrato delle comunicazioni), nel quale era stato fatto rientrare di tutto (canone Rai, pubblicità, sponsorizzazioni, televendite, cinema, stampa quotidiana, libri, dischi, Internet ecc.) per gonfiare il più possibile la torta da spartire, arrivata all'astronomica cifra di 32 miliardi di euro. In questo modo, pur stabilendo un tetto massimo del 20% per singolo operatore, Mediaset, che già realizza un fatturato pubblicitario di 3,5 miliardi, avrebbe potuto crescere ulteriormente fino a raddoppiare i ricavi. Ora, nel testo definitivo, sono stati tolti i dischi e i libri (ma non quelli allegati ai giornali), la produzione di cinema, fiction e spot e qualche altra voce, portando l'ammontare del Sic a 26 miliardi. Poco male, vorrà dire che il neoduce e il suo Fedele Confalonieri si dovranno contentare di soli 5 e rotti miliardi invece di 6 e rotti! Senza contare che non sarà facile dimostrare quando il limite del 20% viene superato.
Un altro vizio di incostituzionalità che perfino Vittorio Emanuele Ciampi non aveva potuto fingere di non vedere era quello della sfacciata mancanza di pluralismo della Gasparri, che non faceva altro che legalizzare, blindandolo, il monopolio di fatto delle frequenze disponibili da parte delle reti Mediaset. L'accesso alle trasmissioni per altri operatori privati sarebbe stato assicurato dall'introduzione di un nuovo sistema, il digitale terrestre, la cui realizzazione in tempi certi era tutt'altro che "garantita". Con questa scusa era stata anche beffata l'ordinanza della Consulta che stabiliva al 31 dicembre 2003 il termine ultimo per il passaggio di Rete 4 sul satellite e la liberazione delle frequenze da essa occupate per renderle disponibili al legittimo assegnatario.
Ebbene, il nuovo testo introduce semplicemente una data, il 30 aprile 2004, per la verifica dell'effettiva diffusione del digitale terrestre da parte dell'Authority sulle Comunicazioni, formalità del resto già espletata sulla carta. Il fatto è che il digitale terrestre, ancorché più teorico che reale, non può surrogare in ogni caso il bacino di utenza raggiungibile attualmente via etere: questo sì reale, e che la tv del tirapiedi berlusconiano Fede continuerà a sfruttare abusivamente, quantomeno fino a tutto il 2006, quando dovrebbe andare a regime il digitale terrestre.
C'è poi la modifica alla norma che consente a chi possieda più di una rete televisiva di acquistare giornali dopo il 31 dicembre del 2008, con lo spostamento di questo termine al 31 dicembre 2010. Come se una norma palesemente monopolistica e anticostituzionale come questa, che permetterebbe per esempio al neoduce di comprarsi tutta la stampa che vuole senza neanche bisogno di intestarla a parenti e prestanome come adesso, diventasse pluralista e legittima semplicemente ritardandone l'entrata in vigore.
Rimane invariato, fino alla prima fase della privatizzazione dell'azienda (cessione del 10% del capitale), il nuovo sistema di elezione del Cda della Rai stabilito nel testo licenziato a dicembre, e cioé: passaggio dagli attuali 5 a 9 membri, di cui 7 nominati dalla Commissione parlamentare di vigilanza (cioè dai partiti) e 2 dal ministero del Tesoro (vale a dire dal governo). Il presidente verrà scelto tra questi due, pur dovendo ottenere i due terzi dei voti della vigilanza, il che ne fa di fatto un'emanazione diretta della maggioranza e del governo in carica. Sparisce insomma anche formalmente la figura del presidente "di garanzia" nominato dai presidenti dei due rami del parlamento. Anche se il nuovo Cda Rai sarebbe partito dopo tre mesi dalla prima offerta pubblica di vendita, l'attuale presidente Lucia Annunziata ha già rassegnato anticipatamente le sue dimissioni, prendendo atto dell'ormai completo infeudamento dell'azienda da parte del governo.
Varie e vibrate proteste all'approvazione definitiva della legge si sono levate da diverse parti, tra cui la Fnsi, per il cui segretario Paolo Serventi Longhi "oggi siamo tutti un po' meno liberi", l'Usigrai ("l'asservimento della Rai al governo di turno diventerà sistematico e ferreo") e l'associazione Articolo 21, che la definisce "una legge pro-Berlusconi, illiberale e pericolosa" e si appella alla Consulta affinché "ne dichiari al più presto l'illegittimità costituzionale".
Ora occorre mobilitarsi per abrogare tramite un referendum questa legge neofascista che regala a Berlusconi il monopolio dell'informazione e che completa in questo delicato e fondamentale settore il "piano di rinascita democratica" e lo "schema R" della P2 di Gelli, stracciando l'art. 21 della Costituzione e infliggendo un altro colpo mortale allo Stato di diritto. Certo è che non si sarebbe arrivati a questo punto se la "sinistra" borghese non avessero sottovalutato il neoduce e non lo avessero accreditato come "democraticamente eletto" e "legittimato a governare", facendo appello alla piazza per buttarlo giù. La lezione del '22 non le è evidentemente bastata. Sarà bene che si svegli ora, prima che sia troppo tardi e che il nuovo Mussolini finisca di completare il disegno piduista e fascista con la controriforma costituzionale che ha già superato il primo esame del parlamento nero.
21 luglio 2004